1.
LA CHIESA DOMESTICA IN CUI NACQUE
Più
volte i ragazzi Marvelli, tornando a casa, dovettero mangiare o senza
minestra o senza pietanza. La mamma li confortava con queste parole di
sapore evangelico: «E’ passato Gesù che aveva fame, e gli ho dato
quello che c'era». I ragazzi comprendevano che quelle parole non
esprimevano un'allegoria ma la verità, che la loro dolce mamma aveva
dato ai poveri quello che mancava alla loro mensa, che nella persona
del povero era passato davvero Gesù.
Questa
era la famiglia Marvelli, in cui nacque Alberto.
«Mio
padre, sempre in grazia»
Alberto
Marvelli vide la luce a Ferrara, mentre finiva la prima guerra
mondiale. Il padre, cavaliere Alfredo Luigi, era direttore di Banca a
Rovigo, città che dopo la ritirata di Caporetto nell'ottobre del 1917
era diventata pericolosa, perché il fronte si avvicinava e si
intensificavano i bombardamenti. 11 signor Luigi mise al sicuro il
primogenito Adolfo e la moglie, signora Maria Mayr, presso la famiglia
di lei a Ferrara. Nella città degli Estensi il 21 marzo, primo giorno
della primavera del 1918, il secondogenito Alberto vide la luce
proprio come un fiore, che nasce senza causar dolore. La madre infatti
ripeteva compiaciuta: «Alberto non mi ha mai dato fastidio, neppure
quando è nato».
La
famiglia Marvelli fino al 1925 abitò a Rovigo dove Alberto - col
fratello Adolfo maggiore di lui, e Carlo, il minore - frequentò
l'asilo privato tenuto dalla signorina Gregotti, un'educatrice nata.
Dal 1925 al 1927 la famiglia Marvelli abitò a Mantova, dove il padre
era stato trasferito sempre come direttore di Banca. Poi altri
spostamenti: da Mantova a Rimini, di qui ad Ancona. Nel 1930 la
famiglia si stabilì definitivamente a Rimini, in una villa sul viale
Regina Elena, costruita dall'ingegnere Giorgio Mayr fratello della
signora Maria.
Il
padre quando la Banca (cattolica) in cui lavorava fu soppressa dal
regime si orientò verso altre attività, e vinse un concorso per
curatore di fallimenti presso la provincia di Forlì. Era una persona
d'indole modesta, fine, distinta, e di condotta intemerata. Più che
padre era amico dei figli Adolfo, Alberto, Carlo, Raffaello, Giorgio e
della piccola Geltrude (che giunse per ultima ma tanto attesa). Era
militante nei movimenti cattolici e presidente parrocchiale della
Conferenza di San Vincenzo.
Quando
per decisione del fascismo la sua Banca «dovette» fallire, egli
restituì a poco a poco - sottraendolo alla sua famiglia- tutto il
denaro che una donna aveva depositato in banca poco prima dell'imposto
fallimento.
Si
legge nel diario di Alberto: «Mai dimenticherò la vita esemplare di
mio padre, trascorsa serenamente e santamente anche nei momenti
dolorosi di maggior preoccupazione. Fu cristiano nel senso completo
della parola, senza mezze misure, senza rispetto umano, senza
ostentazione, sincero, sorridente, sempre in grazia, sereno».
La
mamma, Maria Mayr, curava la formazione dei figli perché il marito, a
motivo del suo impegno, era quasi sempre assente. Egli però
esercitava un grande ascendente sulla sua nidiata; poco dopo la sua
morte prematura, la signora Maria ebbe a riconoscere: «Credevo di
fare tutto io con i ragazzi, e invece faceva tutto lui».
Nell'amore
paterno, che assaporò in pienezza, Alberto lesse e sperimentò un
riflesso dell' amore di Dio.
«Una
madre, una preghiera»
La
madre di Alberto era di condizione sociale elevata (discendeva da
nobili bavaresi), era esemplare sotto l' aspetto religioso, caritativo
e civile. Da giovane era molto bella e godeva
d'una salute eccezionale; soleva dire: «I miei figli sono così
sani che il Signore, quando li vorrà chiamare a sé, dovrà prender
li con una morte violenta». E per Alberto sarà così.
La
signora Marvelli non sapeva sottrarsi alle richieste dei
poveri, e divideva con i bisognosi anche quello che doveva
essere il necessario per la famiglia. Da educatrice completa accordava
ai figli una fiducia larga, ma controllata; perciò essi so no
cresciuti con grande apertura verso gli altri. La figlia dirà che
la madre era una fonte inesauribile di amore e di vita. Era un
po' la madre di tutti i ragazzi della parrocchia di Maria
Ausiliatrice. Militava nell'Unione Donne di Azione Cattolica, nella
Conferenza di San Vincenzo, e nella Protezione della giovane.
Dopo il passaggio del fronte fu anche consigliera comunale.
Seppe
educare i figli nell' amor di Dio e del prossimo, lasciandoli però
liberi nella scelta della professione, all'insegna del distacco e del
disinteresse. Per questa fervorosa cristiana si intona bene il verso
del Pascoli: «Passa una madre, passa una
preghiera».
Alberto
crebbe a quella scuola, apprendendone stile e forma.
La madre seppe allevare da sola i sei figli rimasti troppo
presto orfani del padre, e
con un piccolo patrimonio amministrato con
parsimonia, seppe portarli tutti alla laurea o al diploma.
Negli
ultimi anni mamma Maria partecipò intensamente alla passione di Gesù:
un'artrite deformante, che non le permetteva di portare la mano alla
bocca, fece di lei un mucchietto di pelle e ossa. Ma nessuno la vide
versare una lacrima.
Casa
Marvelli a Rimini divenne presto il centro della carità.
Il
necessario non mancava, ma il superfluo era ridotto e controllato. In
quella chiesa domestica il rosario concludeva la giornata.
«Un
bambino biondo, molto dolce»
La
santa donna però teneva d'occhio quella natura esuberante e focosa di
romagnolo autentico che era Alberto. A volte egli si caricava di
violenza come una dinamo, ma era sempre e solo in difesa della
giustizia: un giorno, per difendere un fratello minore, scaraventò il
fratello più grande sotto la tavola con tale impeto che la mamma
sbiancò di paura.
Il
regista Federico Fellini, che fu suo compagno di scuola, rievoca così
l'infanzia di Alberto: «Ricordo bene Marvelli: era un bambino biondo,
molto dolce. Siamo stati compagni di classe fin dalle elementari. Le
mamme lo indicavano come un bambino bravo, uno scolaro modello».
Alberto
ragazzo aveva il sorriso facile e la risata discreta; scherzava
volentieri. Riusciva gradito a tutti. La nonna materna, marchesa
Geltrude Granello di Casaleto, diceva alla mamma: «Quando mi mandi
Alberto, mi dai un grande aiuto. E lui che mi fa i conti e le
commissioni, con un senso che fa pensare a un uomo». Quel fanciullo
forte, quando entrava nelle case dei poveri si trasfigurava. Una delle
sue tante ammiratrici lo ricorda così: «Veniva da noi con i fardelli
di roba per i poveri della mamma sua, la quale spogliava la loro casa
per gli altri. "Alberto, ben venuto", gli diceva la nostra
mamma. Oppure: "Vieni Alberto, tu sei come la Provvidenza, che fa
sempre arrivare la roba per quelli che ne hanno bisogno". Egli
diceva: "La mamma ha detto che è poca cosa... Scappo, perché
devo andare a scuola"».
Alberto
da bambino e da adolescente era molto riflessivo e maturo, rispetto
alla sua età, ma era anche impulsivo. Se non riusciva con le buone
maniere a far intendere le sue giuste ragioni, le imponeva con qualche
scapaccione. Ma presto seppe imporsi un tale controllo, da riuscire
equilibrato e simpatico a tutti.
Era
un capo senza dimostrarlo e apparirlo. Imparò ben presto a saldare la
bontà e il coraggio.
2.
ALBERTO DECISE DI VIVERE SALENDO
Il
7 marzo 1933 la morte sconvolse la famiglia Marvelli, che cantava alla
vita come una nidiata al sole: una violenta meningite si portò via il
padre. Alberto non aveva ancora 15 anni. Nell' ottobre dello stesso
anno egli inizia il suo diario su una comune agenda; ci saremmo
aspettati qualche gemito, qualche lamento, qualche preghiera per la
recentissima perdita del padre, e invece il diario inizia con questa
esclamazione: «Dio è grande!
Infinitamente
grande, infinitamente buono».
Nello
stesso anno entrò nel liceo classico; aveva una spiccata tendenza per
le scienze esatte, ma riusciva non meno bene anche negli studi
umanistici; gustava molto la poesia scritta, e ancor più quella
vissuta. Fu sempre tra i primi in tutte le materie.
I
compagni e anche i professori più giovani ne subivano il fascino,
provavano una certa soggezione: lo sentivano maestro di vita.
Dopo
la morte del padre ci fu come un salto qualitativo nella spiritualità
di Alberto, che si impegnò a fondo in tutto ciò che faceva. Il
dolore cristiano fu per lui come un sole che lo fece maturare.
«Vivere
salendo»
L'
8 dicembre del 1934 segna un momento fortissimo nella vita e nella
spiritualità di Alberto. Egli già vive intensamente la vita
dell'Oratorio salesiano, che ha incominciato a frequentare nel 1932,
ed è già lanciato nello spirito dell'Azione Cattolica.
Don
Bosco voleva che la festa dell'Immacolata fosse un incontro con la
Madonna e segnasse un balzo in avanti sulla strada dell'impegno
cristiano. L' Immacolata per il santo educatore era il modello
concreto d' ogni ideale cristiano, e anche l' Azione Cattolica la
additava come modello ai giovani. Alberto, col cuore bruciante di
spiritualità, in quel giorno memorando scrisse nel suo diario: «Questa
mattina nella santa comunione ho consacrato il mio cuore alla Madonna
Immacolata, perché lo mantenga sempre puro e immacolato come il suo,
perché mi aiuti a essere buono, compiacente, paziente, caritatevole».
La signora Marvelli soleva dire: «Il mio Alberto è un angelo». Per
far risplendere la sua purezza il nostro studente ricorreva anche allo
sport: più volte all'anno percorreva in bicicletta la strada
Rimini-Firenze. Faceva tappa ad Arezzo presso i cugini che
l'accoglievano festanti. Uno di essi asserisce: «Alberto aveva un
taglio atletico, per cui gli riusciva come cosa ordinaria percorrere
in bicicletta anche cento chilometri». Nel 1935 il fratello maggiore
Adolfo entrò nell'Accademia Militare a Torino, e Alberto a 17 anni si
trovò a essere il capo della famiglia. Adolfo ricorda: «Quando da
ufficiale mi trovavo in famiglia, se la radio suonava la marcia reale,
io scattavo in piedi, e volevo che anche i fratelli si alzassero.
Alberto mi diceva: "Io mi alzo alla marcia reale, se tu domattina
verrai a messa con me"». Alberto dai salesiani ha sentito cento
volte ripetere il proposito di Domenico Savio: «La morte ma non
peccati», e lo fa talmente suo da dargli una forma personale: «Gesù,
piuttosto morire che peccare; aiutami tu a mantenere questa promessa».
A 18 anni traccia l'ideale della sua esistenza: «O vivere salendo, o
morire». È già un rocciatore del monte santo di Dio.
«Visitami
pure con la croce»
Nel
1936 Alberto consegue a Forlì la licenza liceale; è secondo su
sessanta candidati, tra i quali figura anche il futuro regista
Federico Fellini. Egli commenta l'evento, tanto decisivo allora nella
vita di uno studente, con questa frase estremamente scarna: «A Forlì
per l' esame di Stato. Discreto. Poteva andar meglio. Grazie, o Gesù».
Non manca però il colpo d'ala: «Speriamo che la licenza liceale sia
il principio di una nuova e più intensa attività nell'Azione
Cattolica, un maggior stimolo a lavorare per il Signore».
Conseguita
la licenza liceale a luglio, nell'agosto Alberto si recò subito a
Livorno e tentò di entrare nell'Accademia Navale. Non venne accettato
per un lieve difetto alla vista: era astigmatico a un occhio. Fu un
bene per la mamma, che avrebbe sofferto troppo per l'assenza di
Alberto. Nell' autunno corse a Bologna e si iscrisse alla facoltà di
ingegneria.
Nell'accaduto
vide una disposizione della Provvidenza, non perse affatto la sua
pace, e continuò la sua strada in salita. Nel dicembre 1936 scrisse
nel suo diario: «Non sono andato poi in nessuna accademia. Il Signore
ha disposto diversamente; possa compiere il mio dovere lo stesso e
glorificare sempre di più il Signore con la mia condotta in mezzo ai
compagni di università».
Il
primo dicembre 1936 la matricola nota nell'agenda: «Inizio del mio
soggiorno bolognese. Continuo via vai tra Rimini e Bologna». L'
andirivieni si spiega per gli innumerevoli impegni e i mille interessi
che legano Alberto a Rimini: egli è l'anima dell'Oratorio salesiano,
è vicepresidente diocesano dell'Azione Cattolica, è il capo della
sua famiglia. Nel diario dà sfogo al suo disgusto per l'immoralità
che vede nell'università, ma reagisce da cristiano maturo: aumenta il
suo fervore e raddoppia l'impegno per conseguire la santità, che vede
come la laurea delle lauree. Aspira all'alloro con cui lo coronerà il
Risorto, perciò sente crescere il suo amore per la croce, vuole
essere il Cireneo del Redentore. «Visitami pure con la croce, o Gesù.
Sono lieto di aiutarti a portarla, per il bene del prossimo e della
mia povera anima».
Il
giorno, per le attività apostoliche
Nel
periodo universitario Marvelli abitò a Bologna presso la zia contessa
Granello. La collaboratrice domestica diceva: «Alberto ha sempre
qualcosa da fare. È ammazzato di lavoro». Per attendere allo studio
il nostro universitario sacrificava il sonno. I vicini notavano che la
luce della sua camera era accesa anche nelle ore piccole. A Rimini un
pescatore suo amico, che andava a collocare le reti verso le due o le
tre dopo mezzanotte, spesso vedeva la camera di Alberto illuminata.
All'università, provenendo dal liceo classico, incontrò qualche
difficoltà per la matematica, ma la superò brillantemente. Il giorno
è per le attività apostoliche. Alberto studia sodo, ma non è uno
sgobbone. Si rende conto che i rapporti umani, non meno dei libri,
sono canali di informazione e più ancora di formazione, perciò
intensifica l'amicizia: intuisce che questa è la forza più
arricchente e più personalizzante.
La
testimonianza di Zaccagnini Fissata la sua dimora a Bologna, Alberto
si mise subito in contatto col centro diocesano di quell'Azione
Cattolica che si sente nel sangue. I bolognesi furono colpiti dalla
sua schiettezza, affabilità e disponibilità. Gli amici lo ricordano
costantemente sereno, con una personalità spiccata che impone
rispetto. L'onorevole Benigno Zaccagnini ha lasciato questa
testimonianza di Alberto universitario: «Più volte, entrando nella
chiesa di San Bartolomeo in Bologna, al termine delle lezioni, fra
mezzogiorno e mezzogiorno e mezzo, lo vedevo accostarsi alla
comunione. Alberto arrivava da Rimini in treno, era digiuno dalla
mezzanotte, aveva fatto il viaggio, e partecipato alle lezioni. Gli
dissi: "Io non sarei in grado di fare altrettanto". Aggiunsi
che tutto ciò mi sembrava eccessivo. La sua risposta fu un sorriso:
il sorriso che aveva lui, di una limpidezza che chiamerei da bambino».
«Era intelligentissimo - ha proseguito Zaccagnini -, e aveva un
candore che incantava anche chi non condivideva le sue idee. Era
circondato dalla simpatia di tutti. Non ho forse conosciuto nessuno
così compitamente e naturalmente umano quanto lui; nessuno così
naturalmente e profondamente radicato in una vita interiore. Nessuno
così naturalmente umano e insieme così umanamente cristiano. Ho
sempre conservato di lui un ricordo affascinante. La sua figura è
rimasta così viva in me, che mi è sempre venuto spontaneo invocarlo».
Anche
ad Alberto si potrebbe riferire la sublime espressione con cui Luca
sintetizzò la crescita di Gesù: «Cresceva e si fortificava pieno di
sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui».
Come
un cielo sereno
Alberto
viaggia per ragioni di studio, come quando va a Massa Lombarda per
visitare lo zuccherificio, a Roma per la settimana dei tecnici e per
una visita al Papa, a Firenze per partecipare al Congresso degli
universitari cattolici, a Ravenna per una gita turistica.
Contempla
le realtà divine e le bellezze cosmiche con l'occhio del Risorto. Nel
diario scrive: «Illuminami, Gesù, con la tua luce soprannaturale e
splendente; sfiorami con uno degli infiniti raggi che partono da te;
colpiscimi, Gesù. Desidero che la mia anima, costantemente candida
come il giglio e come la bianca neve delle più alte vette, tersa e
pura come un cielo sereno di montagna, brilli costantemente di luce
vivissima e luminosa come quella stella che considero mia e che ogni
sera contemplo o mi immagino contemplare».
«Ogni
qualvolta mi accosto alla comunione, ogni qualvolta Gesù nella sua
divinità e umanità entra in me, a contatto con la mia anima, è un
accendersi di santi propositi, è come un fuoco che arde, il quale
entra nel mio cuore, una fiamma che brucia e che consuma, ma che mi
rende così felice».
Allo
scadere del quinto anno universitario, il 30 giugno 1941 conseguì a
pieni voti la laurea in ingegneria industriale. La laurea fu
festeggiata in sordina dagli intimi. Sulla gioia degli amici
proiettava la sua ombra la guerra. Mancavano i fratelli Lello e Carlo,
che erano sotto le armi; egli stesso era stato chiamato per il
servizio militare.
3.
«DIRETTORE» DELL'ORATORIO E PRESENTATORE DI GESÙ
Alberto
trascorse la vita accanto ai Salesiani di Rimini. All' azione
formatrice della madre era parallela quella dell' Oratorio, dove si
imbibì come una spugna dello spirito di Don Bosco. In quella palestra
di umanesimo integrale a quindici anni era già guida per molti e
modello di comportamento per tutti. Più che perno dell'Oratorio,
Alberto ne è il direttore di fatto, e disimpegna i sacerdoti da tante
incombenze pratiche, in modo che possano attendere a tempo pieno alla
formazione dei giovani.
Nell'Oratorio,
come nella famiglia Marvelli; non si prendeva nessuna decisione di
rilievo senza il parere di Alberto. Sulle labbra dei salesiani era
corrente l'espressione: «Sentiamo Alberto». Si sarebbe potuto dire:
«All'Oratorio non muove foglia, che Alberto non voglia». Marvelli
era un grande organizzatore, e il fascino che emanava da lui lo
rendeva capo accetto e guida ambita. Aveva precisione nel pensiero,
concisione nello stile, decisione nella vita.
Coordinava
i doveri familiari e scolastici con quelli apostolici. Un sabato,
ritornato da Bologna, corse subito dalla seconda famiglia ossia
all'Oratorio salesiano. Con stupore e sdegno apprese che un gruppo di
teppisti aveva fatto irruzione in una sala e aveva calpestato il
quadro del Sacro Cuore. Marvelli attaccò subito alla parete un altro
quadro, che qualche giorno dopo subì la sorte del primo, sempre a
opera di quei poveri drogati dall'odio dell'ateismo.
Mentre
Alberto sul piazzale conversa con una schiera di amici, il gruppo dei
vandali passa e ripassa spavaldo. Gli amici esclamano: «Marvelli,
sono loro!». Una vampata di sangue dal cuore gli sale alla testa. In
men che non si dica si leva la giacca, piomba loro addosso come una
folgore, e scaraventa pugni all'impazzata. I malcapitati cercano di
reagire, ma le braccia dell'universitario scattano, spingono, pestano
senza pietà. I contusi si danno alla fuga, mentre Alberto grida loro:
«Perché impariate a non far più vigliaccate!». I compagni, prima
sorpresi dalla rapidità dell'assalto, e poi esaltati dal loro
campione di lotta libera, applaudono entusiasti.
«Se
non amassi Dio»
Uno
dei cardini del sistema preventivo, Don Bosco lo riponeva
nell'assistenza: essere presenti in mezzo ai ragazzi. E Alberto da
perfetto salesiano assisteva in modo egregio. Egli praticava molto e
amava lo sport, come igiene del corpo e dell'anima, ma lo finalizzava
alla crescita spirituale dei giovani. La bicicletta era diventata così
connaturale ad Alberto, che sentiva le due ruote come se fossero
membra aggiunte al suo organismo.
Era
un poeta della velocità.
Amava
il creato ed era affascinato dalla montagna. La vetta era per lui il
traguardo simbolico da raggiungere; l'ascesi fisica spronava in lui
l'ascesi dello spirito. Sulle vette, ad Alberto sembrava di essere più
vicino a Dio. Egli scrive: «Se non amassi Dio, credo che arriverei ad
amarlo stando in montagna».
Amava
la musica: come eccellente mezzo di ricreazione, e più ancora di
formazione. Amava e animava anche la filodrammatica. Don Alfonso
Rossi, che fu direttore dell'Oratorio, racconta: «Nella
"Passione di Cristo" che demmo per parecchi anni a Pasqua,
con una trentina di personaggi, riuscimmo a far accettare ad Alberto,
che non aveva mai recitato, la parte del soldato romano che si
inginocchia davanti a Cristo flagellato e gli domanda perdono per
quello che gli hanno fatto. Questo bel giovane, quadrato, con una
smagliante divisa, quando entra e si inginocchia a dire quelle parole
al Cristo, gela il teatro; si spezzano i sassi. Molti piangono. Non
applausi, ma pianto. Chissà come le avrà studiate quelle poche,
povere parole! Non mi vergogno a dire che, mentre rievoco, piango
anch'io».
Presentatore
di Gesù
Marvelli
da vero salesiano laico ripeteva con Don Bosco: «I divertimenti io li
stimo solo come mezzi per condurre i giovani al catechismo». E fare
catechismo era la sua passione. Divenne un eccezionale e
simpaticissimo presentatore di Gesù ai ragazzi: giunse a fare della
scuola di catechismo un'area privilegiata di incontro tra il Risorto e
i fanciulli. L'insegnamento della religione per lui non consisteva
nell'impartire una serie ben organizzata di verità astratte e di
norme morali, bensì nel presentare e far amare Gesù.
Marvelli,
capo nato dell'Oratorio, mostrava predilezione per i ragazzi meno
abbienti e sofferenti. Per un ragazzo povero, che si era infortunato
durante il gioco, si prodigò con affetto più che fraterno, ogni
giorno, per un lungo periodo.
Animando
la messa dei giovani, Marvelli precorreva i tempi: imbandiva infatti
la mensa della Parola con letture in italiano che stimolavano i
giovani a una partecipazione corale. Un salesiano ci assicura che
Alberto, tenendo sotto gli occhi il testo latino, traduceva a vista in
italiano, davanti alla massa attenta dei ragazzi, la Parola di Dio,
che risuonava in quella voce pastosa, calda e armoniosa. Questo
orchestratore della liturgia diventava allora affascinante.
Interessava, animava, infervorava l'assemblea giovanile, e la
impegnava a pregare coralmente.
Fatto
per la conquista
Alberto
era stato trai primi ragazzini iscritti all'Azione Cattolica nella
parrocchia salesiana di Rimini, di cui era guida e maestra la madre. E
col passare degli anni incarnò realmente il programma dell'Azione
Cattolica. La sua giovinezza era impegnata per la costruzione del
Regno: fare del Cristo il cuore del mondo. Lui stesso annotò: «La
gioia dell'apostolato cristiano è indicibile. L'uomo è fatto per la
conquista: non fisica, ma spirituale».
L'attività
di Marvelli nell'Azione Cattolica viene qualificata dagli amici con
quattro aggettivi: assidua, costante, vivace, feconda. Egli presto fu
eletto delegato degli aspiranti, e li seguì con intelletto d' amore
di gran lunga superiore alla sua età. Uno dei suoi Juniores,
diventato adulto, ricorda: «Eravamo tutti eguali per lui; se aveva
qualche preferenza, questa era certamente per i più lontani».
Alberto, come il buon pastore, si preoccupava maggiormente per la «pecorella
smarrita».
Nella
sede diocesana era sempre festa quando arrivava Marvelli, che era il
vero capocordata. Il presidente diocesano Luigi Zangheri lo scelse
come suo collaboratore immediato. Tra i due dirigenti c'era una
differenza di età di ben quindici anni, ma l'intesa, la comprensione,
la collaborazione e l' amicizia tra i due furono cristianamente
perfette.
Come
vicepresidente dell'Azione Cattolica, Marvelli diresse vari convegni
di zona. Compiva un'intensa opera di evangelizzazione nelle
parrocchie, mediante incontri serali e domenicali che riscuotevano la
stima dei parroci e il fervore dei giovani. Doveva affrontare nella
diocesi tanti viaggi, che allora erano assai disagevoli, per
organizzare, coordinare, spronare; e anche viaggi fuori diocesi, per
prendere visione delle iniziative nuove.
«L'apostolato
mi facilita lo studio»
L'apostolato
era la sua prima ansia. L' attività apostolica era per lui l'impegno
principale. Agli amici, che lo esortavano a limitarsi nel lavoro,
esternava con calore la sua convinzione: «II tempo impiegato
nell'apostolato mi facilita lo studio, e mi rende più leggeri i
doveri familiari e professionali».
La
sua corsa lungo la strada dell' apostolato non è mai stata attardata
né dalla fatica, né dalla paura, né da scopi terreni. Ciò che
rendeva realmente felice Marvelli era portare tutti a Gesù.
Marvelli,
servitore della Parola di Dio, sapeva adattare il suo linguaggio sia
ai laureati che agli operai e ai bambini. Tutti lo ascoltavano
soddisfatti. Possedeva anche un'eccellente capacità di ascolto, per
cui ognuno si sentiva compreso. Aveva sempre l'accortezza di lasciar
parlare gli altri. Riservato e rispettoso, non forzava mai il pensiero
altrui. Lo Spirito Santo aveva dotato il suo apostolato anche del «dono
del consiglio», per la mamma, per i dirigenti di Azione Cattolica, e
per quanti si rivolgevano a lui.
4.
ALBERTO NEL TURBINE DELLA GUERRA MONDIALE
Otto
giorni dopo la laurea Alberto è a Trieste: è militare. Viene
assegnato al 5° Centro automobilistico, 6a Compagnia, e partecipa al
Corso allievi ufficiali. Un compagno di corso racconta: «Spesso si
dovevano portare a turno le mitragliatrici. Era una vera tortura: con
quegli ordigni pesanti si doveva transitare per un difficile sentiero
di montagna. Quando il turno toccava a un compagno fisicamente
gracile, Alberto gli si avvicinava quasi di
nascosto,
e dopo pochi istanti le sue spalle reggevano il peso ingrato; Marvelli
si allineava tra i compagni e s'inerpicava trionfante per il sentiero
scabroso, arrivava su, deponeva il fardello per terra, e senza
aspettare un ringraziamento ritornava al suo posto».
Con
un gruppo di commilitoni trascinati dal suo esempio, e sacrificando
qualche ora di sonno, frequenta la messa ogni mattina alle sei. Nel
dicembre del 1941, col congedo in tasca, prende la via di casa. E
subito raggiunge Torino per prendere servizio presso la Fiat
nell'Ufficio progettazioni.
Attivo
e contemplativo
A
Torino frequentò le riunioni domenicali e serali dell'Azione
Cattolica, si incontrò con Gedda e Carretto, lavorò alla San
Vincenzo. La vita di fabbrica non riusciva a frenare il suo ardore
apostolico: anche sotto il terrore dei bombardamenti aerei Alberto
trovava la gioia di vivere. A sera si rinfrancava del lavoro, che non
sentiva congeniale, trascorrendo ore in meditazione.
Studia
con passione «La vita interiore» del Pollien: sottolinea. libro, lo
annota, lo postilla, lo rilegge, se ne nutre e lo assimila in
profondità. L'autore è un certosino e Alberto ne incarna lo spirito,
nel turbine del lavoro e nel clima di guerra. Il Pollien non avrebbe
potuto desiderare di meglio. Il nostro ingegnere fonde mirabilmente la
contemplazione più profonda con l'attività più vertiginosa. Per
lui, come direbbe Don Bosco, Marta e Maria corrono a braccetto l'una
dell'altra, sulle strade della bontà.
«Il
dolore è venuto»
Poi
torna a Rimini per l'anno scolastico 1942-43, e insegna «meccanica e
macchine» nell'Istituto Tecnico industriale. I giovani apprezzano il
suo insegnamento, soprattutto perché ammette il dialogo in classe e
nei corridoi durante gli intervalli. Per quei tempi, il dialogo era
fenomeno raro.
Si
tuffò a capofitto nell'apostolato a raggio diocesano, partecipò alle
varie attività cattoliche e cittadine: Tenne conferenze, lezioni ai
laureati dell'Azione Cattolica, intrecciò relazioni epistolari con i
soci che la guerra teneva lontani, fu vice-presidente dell'Azione
Cattolica. Ma al termine del gennaio 1943 venne richiamato sotto le
armi e mandato a Treviso.
Pochi
giorni dopo, il dolore come una folgore colpì la famiglia Marvelli:
il fratello Lello era morto in combattimento sui campi ghiacciati,
appena arrivato in Russia con la generosa ma sfortunata Armir (Armata
italiana in Russia). Lello era il fratello che meglio seguiva Alberto
sulla strada dell'impegno cristiano.
Scrivendo
a un amico, Alberto sintetizzò in due frasi la sua rassegnazione
cristiana, che non elimina il dolore ma lo eleva: «Il dolore è
venuto ancora a visitarci, in famiglia e in associazione. Sia fatta la
volontà del Signore, adoriamolo nei suoi disegni».
Anche
lui in una retata
Nella
caserma Dosson di Treviso il sergente Marvelli, istruttore, in breve
tempo ottenne che nessuno più bestemmiasse. Neppure il colonnello
ateo. Un testimone del clima cristiano che Marvelli aveva suscitato
tra i soldati e gli ufficiali, annotò: «Tutta la vita di Alberto è
un atto di amor di Dio».
L'ingegnere
in grigio-verde visse in pieno la tragedia dell'armistizio dell'8
settembre 1943: ma riuscì a riabbracciare la madre a casa sua. Poi
compì un passo spregiudicato: entrò nella «Todt»
(un'organizzazione paramilitare di lavoro alle dipendenze dei
tedeschi), con l'intento di salvare tanti giovani che diversamente
sarebbero stati avviati ai campi di concentramento. A tale scopo
accettò, come ingegnere, un incarico di dirigente dei lavori.
Se
la cavava abbastanza bene con la lingua tedesca, e sfruttava il più
possibile il cognome tedesco della madre, che gli accordava credito e
simpatia. Vedeva con pena quei poveri giovani adibiti a costruire
strade, argini, ripari, procedere in lunghe file silenziose,
rassegnati come schiavi. Per loro metteva insieme documenti falsi e
lasciapassare con cui parecchi poterono fuggire. Ma quelli da aiutare
erano troppi, e Alberto abusava in modo fin troppo scoperto dei poteri
che aveva come dirigente.
Un
brutto giorno acciuffarono anche lui in una retata di uomini da
spedire verso il Nord, e finì rinchiuso con gli altri in una corderia
di Viserba. Guardava con tristezza quegli uomini - molti padri di
famiglia - dall'avvenire disperato. Ma ebbe modo di informare della
sua prigionia, attraverso un conoscente comune, il suo amico Luigi
Zangheri, che ottenne di potergli parlare. Si incontrano al campo, e
attraverso la rete di recinzione si stringono la mano. Alberto
approfitta del gesto per lasciargli nel palmo la gomma di un timbro
della Todt. Poco dopo, un foglio con tanto di timbro viene presentato
ai sorveglianti del campo prigionieri, e Alberto è rimesso in libertà...
Ma
Alberto vuole la libertà anche degli altri. Quegli infelici vengono
trasferiti col treno a Sant'Arcangelo, dieci km da Rimini. È solo una
sosta verso il Nord e un ignoto destino. Alberto, accorso, studia il
da farsi. E gli viene in aiuto un mitragliamento degli aerei alleati:
nel parapiglia raccoglie i suoi ex compagni, li sottrae alla
sorveglianza tedesca e li guida lontano per la campagna. Di notte
guadano il fiume Marecchia, poi si sparpagliano nelle case, nei
ripostigli tra i campi. Sono sporchi di fango fin sopra i capelli, ma
sono liberi!
Dopo
tre giorni di assenza Alberto torna a casa per togliere i suoi
dall'angoscia. E lo trovano per l'ennesima volta senza scarpe: porta
un paio di zoccoli di legno che gli hanno insanguinato i piedi, mentre
le sue scarpe sono state cedute a un fuggiasco ché dovrà fare a
piedi chissà quanta strada.
«Sa
di avere le ali»
Il
primo novembre 1943, a mezzogiorno, su Rimini si abbatte il primo
bombardamento. Le truppe alleate avanzano verso il Nord, le truppe
tedesche contendono palmo a palmo il terreno. E arriva l'ordine di
sgomberare il litorale, sul quale in prima linea sorge la villa
Marvelli. Inizia l'esodo; Rimini si svuota. La madre è come
paralizzata dal dolore. Lello è morto in Russia, Adolfo e Carlo sono
sotto le armi, Giorgio è adolescente, la sorellina è piccola.
Alberto provvede a tutto da solo e sistema la famiglia a Vergiano,
sette chilometri da Rimini.
E
rimane calmo. Ha fatto sue queste parole di un salmo (e le vive ogni
giorno, anche sotto i bombardamenti): «Getta nel Signore il tuo
affanno, ed egli ti darà sostegno. Mai permetterà che il giusto
vacilli»: Ha presente anche l' esortazione di Don Bosco: «Sii con
Dio come l'uccello, che sente tremare il ramo e continua a cantare,
perché sa di avere le ali».
Ma
non è tipo da circoscrivere la sua azione nei limiti della sua sola
famiglia: in ogni sfollato vedeva un fratello. E cominciò a
pellegrinare in cerca di aiuto da chi poteva darne, per portarlo a chi
ne aveva bisogno. Dopo ogni bombardamento era il primo ad accorrere
dove il pericolo era maggiore: piombava sulla città fumante, e si
prodigava per soccorrere feriti, incoraggiare i superstiti, assistere
cristianamente i moribondi, sottrarre alle macerie quelli che erano
rimasti bloccati o sepolti vivi, mettere in salvo le povere
masserizie. Per provvedere vettovaglie e soccorrere i feriti si
spostava anche sotto il tiro delle granate, rischiando la vita con
estrema disinvoltura. Più di una volta le schegge gli forarono il
tascapane. Ma il suo atteggiamento sereno infondeva coraggio e dava
sicurezza ai paurosi.
Un
Babbo Natale in bicicletta
A
una famiglia di sfollati ha dato la coperta di lana e l'imbottitura
del suo letto. La mamma gli dice: «E adesso come farai? Avrai freddo».
Risponde: «Non preoccuparti, io me la cavo». Rincasando a tarda ora,
trovava sempre persone che imploravano il suo aiuto. La sorella
Geltrude asserisce che non lo sentì mai sbuffare né lamentarsi.
Una
suora ha scattato un'istantanea di Alberto che si fa questuante
francescano (la scena è degna dei «Promessi Sposi»): «Durante la
guerra ero a Corpolò nella casa delle Suore francescane. Vidi
arrivare il Marvelli sul mezzogiorno, vestito poveramente, con zoccoli
di legno ai piedi, con un carretto mal messo, trainato da un somarello.
Si fermò e cercò di aggiustare il basto malfermo con delle funi. Gli
feci notare che era pericoloso andare in giro, per le frequenti
incursioni aeree. Mi rispose: "Quando c'è necessità bisogna
rischiare"».
Egli
rischiava per i poveri. Le suore della «Piccola Opera» avevano una
casa al mare vicino ai Marvelli, e ospitavano una quarantina di
ragazzi poveri. L'ingegnere si occupò di loro e portò in salvo le
suore e i ragazzi a San Lorenzo in Correggiano.
Con
la bicicletta carica di viveri e di indumenti, superando la distanza
di oltre dieci chilometri e le più gravi difficoltà, andava spesso a
visitare i piccoli amici. Gli orfanelli accoglievano festanti il
moderno Babbo Natale in bicicletta.
Elsa
provò una grande pace
In
una limpida mattina d'inverno, il 28 gennaio 1944, viene bombardata la
cattedrale di Rimini. Elsa Maggiori, che ha la casa vicinissima al
Duomo, assiste costernata da Verucchio al bombardamento della sua città.
Poi come forsennata corre per salvare qualche cosa dalle macerie della
sua casa. Qualcuno la dissuade, ma la ragazza risponde: «Vado anche
se è tutto distrutto». Le si presenta uno spettacolo orrendo: nel
polverone si innalzano cumuli di macerie, da cui penzolano drappi come
bandiere della morte. Gli uomini piangono come bambini. Tutta la via
Leon Battista Alberti è ostruita. Ma Elsa non si arrende: vede una
poltrona pendente da un palo, la riconosce per sua, e tenta di scalare
la montagna di macerie per raggiungere la sua casa.
Ma
ecco vede Alberto ritto lassù che le grida: «Non andare! Non c'è più
nulla! E ci sono bombe inesplose».
I
due proseguono poi fino ai bastioni orientali. In quello scenario
infernale vedono, distesa in mezzo alla strada una ragazza con gli
occhi vitrei e sbarrati. Morta. Elsa è atterrita: «Ora che facciamo?».
Alberto risponde: «Ecco che cosa facciamo: andiamo a San Lorenzo
recitando il rosario».
Pregando
percorsero sei chilometri. Alberto con una mano guidava la bicicletta,
e con l'altra stringeva il polso di Elsa. Che - racconterà un giorno
- provò una grande pace durante quella recita ininterrotta di
rasserenanti Ave Maria, fino a San Lorenzo.
Poi
se ne torna scalzo
Il
direttore dell' Oratorio racconta: «Una volta durante un
bombardamento, mentre con un gruppo di persone ero ricoverato sotto il
campanile, una bomba colpì la chiesa, e un'altra la casa delle suore.
Terminato il bombardamento, apparve Alberto in bicicletta. Visitammo
insieme l'edificio sinistrato. Egli vide per terra il tabernacolo, che
conteneva il Santissimo, e subito pensò a metterlo in salvo.
Strisciando bocconi sul pavimento inclinato e pericolante raggiunse il
tabernacolo, e lo trasportò in una stanza dell'Istituto salesiano».
Il pericolo era evidente e gravissimo, ma il suo amore all'Eucaristia
non conosceva ostacoli.
Lo
stesso direttore ha raccontato: «Mentre io celebravo la messa con un
piccolo gruppo di persone, sopraggiunsero il sibilo delle sirene e il
rombo di apparecchi. Io proposi di interrompere la celebrazione, perché
non era giunta ancora alla consacrazione; ma Alberto, che serviva la
messa, intervenne dicendo: "Continuiamo!". E la celebrazione
fu portata a termine».
Un
giorno giunsero due soldati denutriti e come spiritati. Sfuggiti ai
controlli dei tedeschi, cercavano di raggiungere l'Alta Italia a
piedi. Uno era scalzo perché non aveva avuto il coraggio di togliere
le scarpe ai morti. Nessuno dei presenti aveva delle calzature di
ricambio. Alberto, sopraggiunto, dà un' occhiata ai piedi del soldato
e osserva: «Possono andare bene le mie». Si sfila le scarpe e le dà
al soldato, che resta attonito e confuso; poi se ne torna a casa
scalzo.
«Lo
sai, mamma, che torno sempre»
Alberto
era diventato anche il postino di Dio: teneva i collegamenti con le
diverse famiglie, portando notizie dagli uni agli altri. A sera,
quando tornava a Vergiano, era una festa per tutti perché la sua
presenza rasserenava. Ai piedi della salita di Vergiano fischiava: era
il segnale con cui avvertiva la madre che arrivava sano e salvo.
Intorno
alla sua figura si formò una leggenda di invulnerabilità. La madre
raccontava: «A sera, Alberto tornava a casa stanco, sporco, qualche
volta imbrattato di sangue. Io temevo sempre che restasse ferito.
Quando tardava mi preoccupavo. Restavo in piedi fino a tarda ora,
finché non arrivava. Egli allora mi diceva, sorridendo: "Di che
cosa hai paura, mamma? Lo sai che torno sempre". Oppure:
"Non mi hai insegnato tu, che quando si è in grazia di Dio non
c'è nulla da temere?"».
Al
termine dell'estate il fronte è giunto così vicino, che Vergiano non
offre più sicurezza, e Alberto il 4 settembre trasferisce la sua
famiglia a San Marino dove, per rifugiarsi, accorre la totalità della
popolazione di Rimini.
Compirono
il lungo viaggio, la madre su un calesse trainato dall'asino
dell'ortolano, e i fratelli conducendo biciclette cariche di
masserizie.
Il
sindaco della carità
La
Repubblica di San Marino, che normalmente contava 14.000 abitanti, ora
formicolava di 120.000 sfollati. Il formicaio umano stipa le gallerie,
ostruisce i sottoscala, rigonfia i magazzini. Alberto colloca la
madre, Giorgio e Gede nel collegio Belluzzi. E si mette a organizzare
una vasta opera di assistenza, un po' annona e un po' Conferenza di
San Vincenzo. Lo si sarebbe detto il sindaco della carità.
Sotto
le granate che, eruttate dalla terra, emerse dal mare e piovute dal
cielo, imperversano con ferocia crescente, Alberto raggiunge Savignano
e Sant'Arcangelo, che distano alcune decine di chilometri, per
racimolare farina, latte e marmellata. A volte riesce a trovare
qualche automezzo, ma spesso deve servirsi del somarello, che tira
impaurito il carretto.
E
lui che distribuisce il pane inviato da Farli. I bisogni altrui sono
la calamita dell'animo suo. Nessuno ricorre a lui invano.
Dà
i vestiti che indossa, le scarpe che porta, il materasso su cui dorme.
Dispone solo di una bicicletta sgangherata: ha regalato quella
fiammante a un operaio. Lavora perché nella galleria ogni famiglia
abbia un box. Dall' albergo fa portare minestra calda per i bambini e
i sofferenti, distribuisce materassi a chi dorme sui sassi,
somministra medicine agli infermi, regala perfino le pentole.
A
sera nei cameroni del collegio Belluzzi o nella galleria della
ferrovia Rimini-San Marino, rigurgitante di sfollati, recita ad alta
voce il rosario. Gli risponde, gemendo, la massa addolorata; poi
finalmente, morto di stanchezza, rientra nel corridoio del convento
francescano e si getta sul povero pagliericcio per il sonno del
giusto.
Alberto
attinge tanta forza dal sacrificio eucaristico, a cui partecipa ogni
mattina. E irradiazione dell'Eucaristia anche quel suo sorriso che
illumina, che dona coraggio e infonde speranza.
Il
suo esempio spronava altri giovani generosi a seguirlo. A San Marino
erano in molti i ragazzi dell'Azione Cattolica riminese; l'ingegnere
li riuniva e li organizzava per mandarli nella galleria o dove
occorreva portare aiuto. Proprio mentre si intratteneva con un gruppo
di questi ragazzi, iniziò a crepitare un furioso mitragliamento.
L'ingegnere ordinò a tutti di buttarsi a terra; egli invece rimase in
piedi, alimentando così, senza volerlo, la leggenda di invulnerabilità
che lo avvolgeva.
Si
torna a casa
Il
20 settembre 1944 le truppe alleate scatenarono 1' offensiva. Dalla
galleria di San Marino la folla, pigiandosi impaurita, assiste ai
bombardamenti infernali. Le truppe muovono all'assalto sotto una
pioggerella insistente. I carri armati sono bloccati dalla fanghiglia,
le strade sono intasate da paurosi mostri di acciaio, carri, camion; i
fischi delle granate straziano gli orecchi.
Il
27 settembre gli alleati occupano Rimini e la costa sul mare. Con un
gruppo di amici, Alberto agitando una bandiera bianca si presenta agli
inglesi, dimostra che i tedeschi si sono ritirati, e riesce a far
cessare i mitragliamenti, a evitare i bombardamenti a tappeto che
avrebbero seminato inutilmente morte e rovina.
Man
mano che i tedeschi si ritiravano e gli alleati si avvicinavano, gli
sfollati sbucavano dai nascondigli e prendevano la via del ritorno
alle loro case distrutte. Desolazione e morte dominavano dovunque
nelle zone della paurosa «linea gotica», che andava da Rimini a
Viareggio: abitazioni distrutte, boschetti e uliveti bruciati, pali
divelti, ponti crollati, animali randagi. I camion trasportavano nei
paesi devastati i primi profughi, Alberto fu tra questi. Sistemò la
famiglia negli scantinati della sua villa, occupata nei piani
superiori dalle truppe alleate. Quando finalmente la villa fu
liberata, era in pessime condizioni, e Alberto la riparò con l'aiuto
di due operai. Era andata distrutta l'abitazione del colono; Alberto
vendette un orto, e col ricavato gli rifece la casa. Il bravo colono
concluderà così la sua limpida relazione: «Il servo di Dio, più
che da coloni, ci ha trattati da fratelli».
5.
VOLEVA RICOSTRUIRE UN MONDO NUOVO
Rimini,
martoriata da oltre 300 bombardamenti, era ridotta a un cumulo di
macerie. Ma a un'epoca di rovina succedeva ora il travaglio della
nascita d'un mondo nuovo. Alberto aveva raggiunto una meravigliosa
maturazione spirituale. Se santificarsi significa incarnare con amore
nella propria vita la volontà di Dio, Marvelli intuì.: i bisogni
degli altri sono la volontà di Dio. E si lanciò nella ricostruzione
della città con spirito missionario.
L'inverno
sopraggiunge freddo e non si ha neppure carta per accendere il fuoco.
Mancano l'acqua e la luce. Le fognature sono ostruite dalle macerie.
Alberto si mette a capo del cantiere umano. Lo incaricano di essere il
tramite fra il Comando alleato e il Comune di Rimini. Un lavoro di
mediazione assai delicato, che seppe svolgere con ottimi risultati
grazie anche all'inesauribile carica umana e al fascino spontaneo che
irradiava.
Anche
il Comitato di Liberazione Nazionale gli affidò settori delicati e
difficili: l'Ufficio Alloggi e Ricostruzioni di cui fu assessore
comunale, e la sezione locale del Genio Civile di cui fu ingegnere
responsabile. Il Prefetto di Farli lo nominò Commissario per la
sistemazione del fiume Marecchia; la Montecatini lo elesse Presidente
della sezione locale. E come se non bastasse, egli fondò la «Cooperativa
edile riminese». Appena le scuole ripresero alla meglio, anche il
Preside volle che tornasse al suo posto.
Alberto
esercitò da buon cristiano e da ottimo cittadino i tanti incarichi.
Chi era in difficoltà sovente si sentiva dire: «Andate dall'ingegner
Marvelli, che certamente provvederà nel miglior modo possibile».
Esercitò
le varie incombenze con scrupolosa generosità e competenza; fu
assolutamente imparziale, senza preferenza di persona. Anche i suoi
compagni di scuola davanti al suo ufficio dovevano fare la fila come
gli altri.
Fu
un modello di civismo in un periodo di guerra civile.
A
casa sua però rimaneva sempre in vigore il vecchio principio: «I
poveri fateli passare subito; gli altri possono aspettare».
«Canta
e cammina»
Per
vivere una vita cristiana così ardentemente laboriosa, Marvelli
attingeva energie divine mediante la preghiera continua e fervorosa.
Il fratello Carlo racconta: «Io dormivo nella stessa camera con lui.
Qualche volta, svegliandomi nel cuore della notte, lo trovavo anche
verso le tre del mattino inginocchiato accanto al letto, dove si era
addormentato pregando. Lo chiamavo perché si mettesse a letto».
Cascava morto dal sonno, ma non trascurava la recita del rosario.
Con
tante attività e una vita interiore così profonda, doveva essere la
serietà in persona. E invece sapeva scherzare. In un incontro a
livello nazionale un giovane relatore (che ora è un noto politico)
scrivendo alla lavagna commette un banale errore di ortografia. I
giovani presenti scoppiano in una risata, e Alberto balzato in piedi
grida all'oratore: «Ti faremo ministro della pubblica istruzione!».
Sant'
Agostino esortava così il cristiano: «Canta e cammina». Alberto a
imitazione del suo Maestro divino, «è passato facendo del bene». Ed
è passato cantando, e cantando ha lodato il Signore.
Con
i Laureati Cattolici
Un
amico lo invita da parte del Vescovo a prendere la presidenza dei
Laureati Cattolici. Alberto risponde: «I miei laureati sono i poveri.
Questo è il mio pane quotidiano. Credo che anche questo sia
apostolato». Ma egli ha anche scritto al Vescovo che chiede la sua
benedizione per poter essere «docile strumento nelle sue mani».
Monsignor Santa ne approfitta e nell' agosto del 1945 gli rinnova,
personalmente l'invito: «Ingegnere, veda un po' di rubare il mestiere
di presidente dei Laureati Cattolici». Alberto risponde scherzoso: «Ne
sto già rubando troppi, di mestieri». Ma non sa dire di no al
Vescovo, e accetta. Da presidente dei Laureati Cattolici promosse e
organizzò iniziative culturali di ispirazione cristiana. Tanto
dinamismo si rivestiva di umiltà serena e amabile. Era disposto a
sentire il parere di ciascuno, a valorizzare i talenti di tutti. E
mostrava un gran gusto nel rendersi utile per ogni socio. Organizzando
conferenze di cultura, riesce a interessare tutto l'ambiente della
città. Trasforma il Cenacolo in un centro animatore della vita
culturale cittadina; rifonda l'Università popolare, prepara la «Pasqua
degli operai»: con un gruppo di soci li incontra e li intrattiene
all'uscita dai cantieri di lavoro; istituisce la «Settimana cristiana
del mare» organizzando negli alberghi della riviera incontri con i
turisti. In una conferenza tenuta ai Laureati Cattolici l'oratore
aveva ricordato l'episodio di san Francesco che bacia il lebbroso. Il
Vescovo, scherzando paternamente, domandò: «Ci sarebbe oggi qualcuno
disposto a ripetere il gesto di san Francesco?». Tutti istintivamente
e contemporaneamente rivolsero la testa verso l'ingegner Marvelli, che
sedeva come sempre in ultima fila. Alberto si fece un po' rosso in
viso, si strinse nelle spalle, e rispose: «Proveremmo».
Animare
dai di dentro
Con
l'avvento della primavera 1946 Alberto compie 28 anni, ed è lui
stesso una primavera di grazia dove già abbondano i saporosi frutti
dello Spirito Santo. Una signora, che aveva ricevuto molti aiuti da
Marvellí, un giorno incontrandolo gli disse commossa: «Ingegnere,
come posso ricompensarla di tutto il bene che mi ha fatto?». E
Alberto: «Pregate che mi faccia santo. Questo è il regalo più
grande che mi possiate fare».
La
conquista della santità è l' aspirazione costante della sua vita; lo
rivela anche il diario: «Devo progredire continuamente, gradino per
gradino, giorno per giorno, minuto per minuto, sempre aspirando alla
vetta massima: Dio». «L'ho detto e lo voglio».
Sforziamoci
di essere dei progredienti su su verso le rampe del palazzo
meraviglioso e infinito che è la perfezione».
Fu
un santo laico secondo lo spirito del Vaticano II, che ha detto: «Per
loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio, trattando
le cose temporali e ordinandole secondo Dio». A 28 anni Marvelli ha
già incarnato perfettamente questo che sarà il programma del
Concilio.
L'impegno
nelle realtà temporali per animarle dal di dentro con la fede fu il
suo carisma; il suo programma si potrebbe sintetizzare così:
umanizzare il cosmo e cristificare l'uomo. Ossia modellare il cosmo
sulle dimensioni dell'uomo, e far crescere l'uomo fino alla statura
del Cristo; essere il collaboratore del Creatore nel migliorare il
pianeta, e il collaboratore del Redentore nell' evangelizzare l'umanità.
«Io
lo guardo e lui mi parla»
Alberto
viveva una vita di fede tutta compenetrata di vita apostolica, e
un'azione apostolica tutta vivificata dallo spirito di fede. Era un
autentico maestro di preghiera, e possedeva il carisma
dell'adorazione. Adorare era il respiro della sua anima. Nel diario,
riferendosi ai suoi dialoghi con Gesù Eucaristia, scrisse: «Io lo
guardo e lui mi parla». Uno dei suoi propositi era: «Convincersi che
siamo in due». E vivevano sempre in due: Gesù e Alberto.
Era
veramente un piacere sentirlo pregare: le parole attraversando il
cuore e le labbra, svelavano un senso nuovo. Un suo amico lo definì:
«Lo specialista di Dio».
Come
mai hai le scarpe rotte?»
Il
suo Vescovo ha detto: «Alberto andava ai poveri con la stessa
apertura con cui andava all'Eucaristia». Ed era vero.
Una
signorina riferisce questo gustoso dialogo. «Ero andata a far visita
alla signora Marvelli, e la sentii che rimproverava il figlio:
"Come mai ora hai quelle scarpe rotte? Stamattina quando sei
uscito avevi quelle buone...". Alberto rispose: "Ma non sai
che si sposa il tale? Era senza scarpe!". Poco dopo mi trovai
sola con la madre, e lei mi confidò: "Ogni tanto mi fa di questi
scherzi: dà via la roba. Pochi giorni fa ha regalato anche la
giacca"».
Un'altra
signora esclama: «L'ingegnere durante il fronte ha fatto meraviglie
per soccorrere tutti. Veniva da me, già ammalata, col pentolino della
panna e con le fragole: questo mi commoveva». A volte però - dicono
altre testimonianze - si trattava non di modesti soccorsi ma di
apparecchi costosi, come occhiali speciali fatti fare apposta dalla
Rizzoli.
«Sei
bello, Alberto»
Nel
marzo del 1938 Alberto aveva scritto sul diario: «La luce che entra
in me con Gesù Eucaristia, brilli sempre e faccia splendere il mio
sguardo». Gesù esaudì la preghiera del suo giovane amico: tutti
infatti vedevano nello sguardo di Alberto uno splendore singolare e
molti pensavano alla luce del mattino pasquale che brillava sul volto
del Risorto. Ma i poveri più di tutti godettero di quel sorriso che
si sprigionava dall'Eucaristia come la luce dal sole.
Un
giorno passeggiava con una comitiva di giovani, lungo la spiaggia. E
una ragazza gli disse: «Come sei bello, Alberto. La tua bellezza mi
turba». Lui arrossì, e continuò a camminare in silenzio in mezzo
alla comitiva. Giunti all'altezza di casa sua, finalmente diede la
risposta: «La signorina ha detto che si turba; ma guardiamo tutti in
Cielo, così non saremo più turbati». E rientrò in casa.
Alberto
aveva sempre l' anima rivolta in alto: per lui la speranza era
nostalgia di Dio. Era maturo per il Cielo.
6.
MA UN GIORNO IL SIGNORE LO PRESE IN VELOCITÀ
Sabato
5 ottobre 1946, vigilia delle elezioni amministrative, sono le 20,30.
L'ingegnere Marvelli in bicicletta si reca a un comizio elettorale. Ne
ha già tenuto uno prima, ha buttato giù un boccone per cena, è
andato a adorare Gesù in Santa Croce. Era, sereno come sempre, si
reca a San Giuliano a Mare. È partito con qualche minuto di anticipo
perché deve fermarsi a casa di un amico per impartire istruzioni sul
seggio.
L'ingegnere
percorre il viale Regina Elena e ha appena sorpassato l' albergo «Stella
Polare» che sorge a duecento metri dalla sua villa. Un autocarro
alleato, lanciato a corsa pazza, ritorna sulla destra dopo aver
sorpassato un filobus in sosta. Il folle automezzo urta violentemente
la ruota posteriore della bicicletta, scaraventa Alberto contro un
muro nel giardino di una villa, e scompare nella notte. Alberto viene
trasportato moribondo alla Casa di cura Contarini.
Aveva
pedalato in fretta perché lo aspettavano. L'attendeva soprattutto il
Risorto, per introdurlo nella Casa del Padre. Gesù non poteva
prenderlo che in velocità, dal momento che tutta la vita di Alberto
non fu altro che una corsa velocissima verso il traguardo supremo.
L'abito
bianco
Il
parroco accorse e col cuore affranto gli amministrò il sacramento
degli infermi. Accompagnata dal fratello più piccolo, Giorgio, giunse
la madre. Pareva l'Addolorata ai piedi della croce. Alberto non
riprese più conoscenza; esalò l'ultimo respiro tra le braccia della
madre. La santa donna trovò la forza di dire a un amico: «Accompagnami
a casa. Devo prendere l’abito bianco per vestire Alberto».
Rimini,
la ridente cittadina adriatica, quella sera del 5 ottobre 1946 non
rideva più: piangeva. Piangeva di più per la morte del suo giovane
prediletto, che per il martirio che le avevano inflitto i 300
bombardamenti. Il cuore di una città si fermò. Sembrava che con
Alberto Marvelli fosse morta la speranza di cui egli era stato il
simbolo vivente.
Ma
ora a Rimini si è accesa un’altra speranza: quella di cui ha
parlato Giorgio La Pira: «Situare sul candelabro questa lampada di
gioia e di purità. La Chiesa di Rimini potrà dire alle generazioni
nuove: “Ecco, io vi mostro che cos’è l’autentica vita cristiana
nel mondo” ».
Titolo:
Alberto Marvelli – Costruttore della città di Dio
Autore:
Adolfo L’ArcO
Collana
testimoni (n.27)
ELLEDICI
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