del Sac. EUGENIO CERIA
DON BOSCO CON DIO.
Presentazione.
A partire dalla morte di don Bosco, la
preoccupazione dominante dei suoi figli, e di tutti coloro che
in qualche modo si sentono chiamati a prolungarne nel tempo lo
spirito, è stata quella di custodire e sviluppare fedelmente,
senza deformazioni ma anche senza arresti, il suo carisma.
Questo prezioso compito ha dato origine ad una massa di scritti
a dir poco imponente: si parla di oltre mille biografie del
santo, con più di trentamila pubblicazioni divise tra opere di
documentazione, studi e lavori di divulgazione.
Di questo abbondantissimo materiale, non
tutto merita di essere ricordato. Ma oramai la tradizione
salesiana possiede i propri classici: i libri che si impongono
per rigore scientifico, o per finezza di intendimento; i libri
che non invecchiano, perché sanno illuminare e scuotere le
coscienze oggi quanto lo fecero al loro tempo. Il Don Bosco con
Dio don Eugenio Ceria ne rappresenta uno tra i migliori.
Passato attraverso due edizioni, una
piuttosto breve, e l'altra, definitiva - arricchita di cinque
nuovi capitoli e ritoccata nei dettagli - che risale al 1946,
questo eccellente libretto ha cominciato a prendere forma nella
mente dell'autore in seguito alla constatazione, molto
significativa e tuttora attuale, della scarsa attenzione
prestata alla vita interiore del santo prima e dopo la sua
morte. «Rapiti dalla vista dei prodigi della sua multiforme
attività», scrive seccamente don Ceria, «i contemporanei ne
ammirarono i trionfi senza quasi por mente che omnis gloria eius
ab intus. Anche la generazione venuta su dopo la sua morte ha
guardato di preferenza alle opere di don Bosco, studiandone le
forme e gli sviluppi, senza darsi guari pensiero di scrutarne a
fondo il principio animatore, quello che ha costituito sempre il
gran segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con
Dio».
Già allora, come adesso, bisognava mutare
registro, passando dai frutti visibili di un albero generalmente
ammirato, ma troppo poco scrutato, alle radici nascoste di tanta
fecondità. Occorreva «sollevare un lembo» del velo «di una
vita che in apparenza si svolgeva come altre consimili, ma che
in realtà nascondeva tesori di grazie e di doni soprannaturali».
Risorse di un autore.
Don Ceria lo ha fatto con grande
determinazione ed intelligenza, giocando su cinque diversi
fattori di composizione.
Innanzitutto, si è avvalso della
competenza acquisita dalla relazione dei volumi delle Memorie
Biografiche che portano la sua firma. In secondo luogo, si è
applicato ad un paziente lavoro di rivisitazione delle fonti,
orali e scritte, a sua disposizione, per «riandare con affetto
di figlio esempi ed insegnamenti del Padre», e fissarsi «su
ogni particolare che sembrasse degno di menzione circa la sua
vita di unione con Dio».
Nel far questo - e siamo al terzo fattore -
ha messo a frutto le possibilità che gli venivano dal trovarsi
in un ambiente che ancora viveva dei ricordi diretti di
importanti collaboratori di don Bosco. E vi ha aggiunto il
filtro di discernimento e la chiave di lettura assicurati da una
buona conoscenza dei principi fondamentali della teologia
spirituale, nella prospettiva, per fare qualche nome, di un san
Tommaso d'Aquino o del gesuita A. Poulain.
Infine, si è largamente servito dei
suggerimenti che gli erano ispirati dalla propria finezza di
intendimento spirituale.
Un piccolo saggio di teologia spirituale.
Ne è risultato un lavoro che si mostra
esemplare, pur nella modestia degli intenti, non solo dal punto
di vista della edificazione propriamente intesa, e cioè della
capacità mistagogica di illuminare la mente e muovere la volontà
dei lettori, ma anche da quello specificatamente scientifico
della teologia spirituale, rigorosamente compresa come teologia
della esperienza cristiana.
Uno sguardo all'indice ci aiuta a provarlo.
Ma si impone una premessa. Grazie al proprio carattere di studio
critico della appropriazione soggettiva personale del messaggio
oggettivo della fede (di pertinenza della teologia dogmatica e
morale), la teologia spirituale coniuga il metodo induttivo
storico, rivolto alla concreta vicenda di un soggetto
spirituale, con il metodo deduttivo sistematico, richiesto dalla
presenza di una forma autentica di vita cristiana. Fondandosi
sulla storia, essa suppone una biografia. Interpretandola in
chiave di fede, essa esige un accostamento teologico.
In tale prospettiva, non mancano autori -
ad esempio H.U. von Balthasar - che identificano la teologia
spirituale con l'agiografia teologica. Ebbene, i venti capitoli
del saggio di don Ceria si muovono interamente su questa linea,
includendo, e componendo in unità, tanto la biografia quanto la
riflessione sistematica di indole teologica.
Il dato biografico si fa palese già nella
titolazione dei primi sette capitoli, dedicati alla vita di don
Bosco fanciullo, in famiglia ed a scuola; poi giovane, in
seminario; e poi prete, nel principio della sua missione, nella
sua seconda tappa, nella sede stabile, e nel periodo delle
grandi fondazioni. E si allarga al capitolo diciannovesimo, che
ne considera il «placido tramonto». Il dato sistematico,
invece, si fa luce specialmente a partire dal capitolo ottavo,
con una sequenza di ritratti tesi ad illustrare dapprima la
forza del santo nelle prove della vita, e poi le sue
caratteristiche di confessore, predicatore, scrittore, uomo di
fede, ed apostolo della carità, ricco di doni ordinari e
straordinari; sino alla sottolineatura della connotazione
profondamente sacerdotale della sua santità.
Fisionomia di un santo.
Dall'intreccio delle due componenti,
condotto non soltanto nella partizione segnalata, ma anche al
suo interno, entro la nervatura che attraversa la totalità del
saggio, scaturisce una identità spirituale stabilita con
chiarezza sui tre assi portanti del rapporto con Dio, del
rapporto con il prossimo e del rapporto con se stesso.
Il punto cardine del volto spirituale di
don Bosco è ravvisato, senza esitazioni, nella verità di una
intensissima incessante unione con Dio, alla quale tutto fa
capo. Tanto basta a giustificare il titolo generale dell'opera.
Da questo fondamento deriva la ferma
preminenza concessa alla fede, sia sul versante del consenso
esistenziale che su quello dell'assenso intellettuale.
Perfettamente consapevole della assolutezza salvifica di Dio,
don Bosco si rivela uomo che vive di fiducia nel Signore e di
affidamento alla sua iniziativa; che esprime questa sua opzione
in una forte devozione mariana; e che non lascia occasione di
incrementarla, in sé e negli altri, anche dal punto di vista
dottrinale. Animato dalla convinzione che Dio fa tutto facendo
fare tutto, egli si colloca agli antipodi della concezione
riduttiva di stampo protestante che ritiene sottratto a Dio
quello che viene concesso all'uomo, e traduce la completezza
della sua concezione nella simultanea richiesta di una sentita
schietta umiltà e di un crocifiggente vincolo di incessante
lavoro: la prima come conseguenza del sapere che tutto dipende e
proviene da Dio, ed il secondo come accettazione del progetto di
Dio di coinvolgere pienamente l'uomo nella sua azione di
salvezza.
Il piano del rapporto con Dio, rimanda,
pertanto, al piano del rapporto con gli uomini. La fede
collaborante di don Bosco diventa impegno incondizionato per la
salvezza delle anime. Impegno che don Ceria coglie soprattutto
in tre ambiti: quello della opposizione instancabile al potere
del peccato, unica disgrazia radicale dell'uomo perché male
rivolto contro la sua verità più intima; quello della
coltivazione della amorevolezza, e cioè di un amore del
prossimo non solo reale ma anche percepibile ed attraente; e
quello della alimentazione, nei preti, di una vita pienamente
sacerdotale, fatta di apprezzamento della propria vocazione, di
stima della dignità degli altri preti, di sollecitudine nei
loro confronti, e di crescita del senso della Chiesa e del papa.
Condizione, ma assieme conseguenza, della
retta impostazione del rapporto fondamentale con Dio e di quello
derivato col prossimo viene ad essere il giusto inquadramento
del rapporto con se stessi. Per questo aspetto della vita
concreta di don Bosco, don Ceria dà risalto alla compresenza
pasquale della morte (pazienza e mortificazione) e della
risurrezione (gioia interiore ed allegria esteriore), rilevando
l'eccezionale livello raggiunto dal santo in entrambe.
Il segreto di don Bosco: lo spirito di
preghiera.
Rintracciate le linee portanti del ritratto
spirituale di don Bosco disegnato da don Ceria in queste pagine,
ci pare utile soffermarci un tantino più in dettaglio, per
facilitarne la lettura, sulla sequenza di idee che le danno
sostanza.
Il punto di partenza si trova, come già
sappiamo, nell'instancabile spirito di preghiera di don Bosco.
Don Ceria documenta sia la sua realtà che la sua centralità.
A prova della sua realtà, egli adduce
l'atteggiamento del santo, abitualmente impregnato di Dio, la
sua «facilità a parlare di Dio con sentimento verace», la
forza eccezionale da lui dimostrata nei travagli della vita, il
solido spirito di pietà presente nei suoi discepoli, e la
costante proiezione della sua azione educativa sulla promozione
della vita spirituale. Come risulta dalla testimonianza dei
contemporanei, scrive, «l'amore divino gli traspariva dal
volto, da tutta la persona e da tutte le parole che gli
sgorgavano dal cuore». Era sua massima «che il sacerdote non
dovrebbe mai trattare con alcuno senza lasciargli un buon
pensiero». Sopportava ostacoli, inciampi e disgrazie con tale
forza che «quando appariva più gaio e più contento del
solito, i suoi collaboratori, edotti dall'esperienza, si
sussurravano con pena all'orecchio: oggi don Bosco deve essere
in qualche imbarazzo ben serio, giacché si mostra più lieto
dell'ordinario». Abituò i suoi aiutanti a pregare
devotissimamente, a tal punto da sembrare «che non sapessero
dire quattro parole in pubblico o in privato senza farci entrare
in qualche modo la preghiera». Riteneva che senza l'elemento
religioso «l'educazione non solo era senza efficacia, ma non
aveva nemmeno significato».
Per la conferma della centralità
attribuita alla preghiera, don Ceria cita le soluzioni conferite
dal santo ai rapporti preghiera ed azione e preghiera e studio,
e ricorda il suo grande apprezzamento per le pratiche di pietà.
Sul primo versante, constata che don Bosco
non separò preghiera ed azione, ma neppure mai le confuse.
Tramite la preghiera di ogni momento (giaculatorie, aspirazioni
interiori, eccetera) trasformò ogni attività in orazione;
senza cadere nell'illusione di «supporre che il prodigarsi a
vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di trattare
assiduamente ed interiormente con Dio».
Sul secondo versante, riferisce che don
Bosco si regolò sul principio che «per gli ecclesiastici lo
studio è mezzo, non fine a sé, e mezzo di second'ordine per
fare del bene alle anime, dovendosi mandare innanzi a tutto la
santità della vita»; per cui «fu lungi mille miglia dal
subordinare all'amore del sapere lo spirito di preghiera».
E rispetto alle pratiche di pietà,
rammenta che egli «si scrisse e prescrisse un regolamento di
vita chiericale in sette articoli», dei quali «il sesto era
così concepito: oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non
ometterò mai di fare ogni giorno un poco di meditazione ed un
poco di lettura spirituale».
Il rapporto con Dio.
Dall'incessante unione di don Bosco con
Dio, don Ceria fa derivare prima di tutto la sua grande fede, il
si della volontà a Dio, che genera la fiducia incrollabile e la
stabile convinzione della paternità onnipotente del Signore.
Nessuna difficoltà o strettezza gli toglieva la pace, dice,
perché egli ragionava così: «di queste opere io sono soltanto
l'umile strumento, l'artefice è Dio. Spetta all'artefice, e non
allo strumento, provvedere i mezzi per proseguirle e condurle a
buon fine. Egli lo farà quando e come giudicherà meglio; a me
tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani».
Tuttavia «era sua massima che anche la
Provvidenza vuol essere aiutata dai nostri sforzi; onde, nel
cominciamento delle sue opere, prevedeva già sempre di doversi
dare attorno. Non bisogna aspettare l'aiuto della divina
Provvidenza stando neghittosi, soleva dire. Il Signore si muove
in soccorso quando vede i nostri sforzi generosi per amore suo».
Prova particolarmente evidente di questa
concezione squisitamente cattolica del rapporto dell'uomo con
Dio, nella quale il Deus solus numquam solus é l'azione di Dio
si incarna perennemente nella mediazione umana, fu l'intensa
devozione nutrita da don Bosco nei confronti della Madonna
venerata col titolo di Ausiliatrice. Nella preghiera di don
Bosco, santo di una orazione che si trasforma immediatamente in
azione, sta sempre in primo piano la coscienza della potenza
operativa di Maria. «Don Bosco non è nulla, ripeterà egli
fino all'ultimo respiro: chi ha fatto tutto è la Madonna».
Nella sua mente, il ruolo della beata Vergine, lungi dal ridursi
ad una funzione di sola esemplarità, include anche la
dimensione del sostegno operativo della vita dei credenti: mai
confuso con quello di Dio, o peggio messo in alternativa con
esso, e però fermamente riconosciuto, quale riflesso della
comunione della creatura col Creatore. Per lui l'Ausiliatrice fu
la rivelazione del potere di Dio di suscitare una vera capacità
di salvezza nelle sue creature.
Le conseguenze di una simile lettura di
fede si fanno particolarmente visibili nell'impulso dato dal
santo alla pratica congiunta dell'umiltà e del lavoro. È un
fatto, spiega don Ceria, che don Bosco morì letteralmente di
lavoro. «La sua salda costituzione fisica gli avrebbe permesso
di vivere anche fin oltre i novant'anni; invece si consumò in
un improbo lavoro diurno e notturno». E volle che il medesimo
spirito di laboriosità si perpetuasse nella congregazione
salesiana; perché vi riconobbe la maniera richiesta da Dio di
riprodurre l'obbedienza di Gesù sino alla morte, e perché lo
vide come prima e fondamentale attuazione della ascesi cristiana
e come risposta efficace da dare alle contestazioni rivolte
contro la vita religiosa. Egli però «temeva, temeva assai, che
l'efficacia ed il merito del lavoro andassero in fumo per
l'infiltrarsi della volontà propria» e della ricerca di sé.
Perciò, pur raccomandando di dire sempre ai salesiani che
lavorassero con ardore, subito aggiungeva, come ad evitare
equivoci, che bisognava «adoperarsi indefessamente a salvare
anime».
Il rapporto con gli uomini.
Così, l'amore di Dio si legava con
naturalezza all'amore del prossimo, ed in esso si verificava il
secondo grande esito dell'intensa pratica di preghiera compiuta
da don Bosco consiste precisamente nell'amore dei fratelli,
messo in evidenza dallo zelo per la salvezza delle anime.
«Giovanni Bosco» scrive don Ceria «nutriva
dentro di sé una pietà fatta come il bene, del quale si dice
che è per natura diffusivum sui. Vedere una persona, e pensare
subito a renderla buona o migliore nel senso più strettamente
cristiano della parola» era per lui un tutt'uno. Questo perché
l'ardente unione con Dio lo portava logicamente a condividere
l'amore di Dio per gli uomini: dei quali don Bosco amò
veramente tutto, il corpo e l'anima, la mente ed il cuore, i
valori naturali ed i doni di grazia, pur privilegiando sempre,
grazie alla lucidità che gli veniva dalla fede, ciò che è più
importante, e cioè la santità.
È il motivo per cui il santo non cessò di
interpretare il peccato come la massima disgrazia dell'uomo, e
di opporsi con ogni sforzo alla sua diffusione. «Contro il
peccato», afferma don Ceria, «don Bosco impegnò per tutta
quanta la vita una guerra a fondo». Nei suoi confronti ebbe
reazioni fortissime, giudicate esagerate dallo spirito del
mondo, ma giustificate dal fatto che egli «ardeva del divino
amore, ed in ogni peccato sentiva l'offesa fatta a Dio»; giacché,
quando si amava veramente, nessuna offesa fatta all'amato pare
piccola, e nessun sacrificio compiuto per rimuoverla sembra
eccessivo.
Don Bosco sapeva bene, peraltro, di essere
chiamato da Dio ad amare soprattutto i giovani; i quali «hanno
bisogno, nel periodo della loro formazione, di sperimentare i
benefici effetti della dolcezza sacerdotale». Questo lo indusse
a non perdere mai di vista «tre massime ispirategli dal suo
cuore sacerdotale, e ricordate incessantemente ai suoi, per
cattivarsi l'affetto e la confidenza dei giovani: amare quello
che essi amano, e così ottenere che amino loro pure quello che
amiamo noi per loro bene; amarli in modo che conoscano di essere
amati; porre ogni studio affinché mai nessuno di essi parta da
noi malcontento». Così, scelse per metodo educativo «la bontà
sapientemente e soavemente adattata all'età giovanile», ed
elevò «la paternità spirituale al più alto grado».
Tutto ciò senza cadere in preclusioni o
riduzionismi di alcun genere. La sua predilezione per i giovani,
aggiunge don Ceria, non escluse ma anzi rese ancor più vivi
altri interessi paralleli. Tra i quali si fa luce quello
mostrato nei confronti dei sacerdoti, a cui don Bosco diede
soddisfazione con uno straordinario programma di promozione
delle vocazioni ecclesiastiche, e con un intenso - quanto poco
conosciuto - impegno di sostentamento dei sacerdoti bisognosi
materialmente e spiritualmente, o comunque in difficoltà.
La sua sensibilità per quanto toccava la
Chiesa, del resto, era ben nota. Don Bosco non volle mai essere
altro che un prete: e del prete ebbe, fortissimo, il senso della
Chiesa, la comprensione del ministero del papa, e, per
l'appunto, la stima della missione sacerdotale.
Il rapporto con se stesso.
Parlando delle tre massime adottate da don
Bosco per l'educazione dei giovani, don Ceria commenta: «Si fa
presto ad enunciare simili aforismi, più presto ancora ad
applaudirli; attuarli, invece, costa continui e non lievi
sacrifici».
Le due dimensioni finora considerate
rimandano ad una terza: la vicinanza di don Bosco a Dio, e
l'intenso amore del prossimo ad essa conseguente, non si
spiegano senza una profonda componente ascetica di sacrificio,
di distacco, di dimenticanza di sé, e di pazienza. Per
commentarla, don Ceria redige due dei capitoli più suggestivi e
commoventi del suo lavoro: il capo ottavo, dedicato alla
considerazione delle sofferenze morali e fisiche del santo, ed
il capo nono, riservato alla presentazione delle avversità
della sua vita.
Il ritratto che ne emerge è tale da
scuotere salutarmente qualunque lettore, anche quello più
contaminato dai principi della società del benessere. Ben oltre
i facili trionfalismi che sovente ne deformano la figura, il
santo mostra il suo vero volto di autentico discepolo del
Crocifisso, curvo sotto il peso di croci inaudite che toccano il
cuore.
La vita di don Bosco, dice don Ceria, «fu
tutta quanta seminata di pungenti spine»: incomprensioni,
contrasti, persecuzioni, perfino attentati, strettezze
economiche; e poi malanni fisici così gravi da far dire al suo
medico curante che «dopo il 1880 circa, il suo organismo era
quasi ridotto ad un gabinetto patologico ambulante».
Eppure, «non perdeva mai la sua serenità;
anzi pareva che appunto nei tempi di tribolazione egli
acquistasse maggiore coraggio, giacché lo si vedeva più
allegro e faceto del solito». Né chiedeva di essere liberato
dai suoi mali. «Per una cosa», riferiscono i contemporanei, «don
Bosco non pregò mai: per la guarigione delle infermità che lo
travagliavano, pur lasciando che pregassero gli altri, ad
esercizio della carità». Il motivo di una condotta così
sconcertante, spiega don Ceria, è relativamente semplice: «Le
sofferenze fisiche accettate con si perfetta conformità al
volere di Dio sono atti di grande amore divino e penitenze
volontarie», e «le anime che verso Dio si sentono fortemente
trasportate si danno alla mortificazione quasi per irresistibile
istinto di amore».
Lo confermano i frutti di tanto travaglio.
Nel paradosso cristiano il dolore si trasforma misteriosamente
in trascendente fonte di gioia. Ebbene, l'associazione alla
morte del Signore realizzata dalle sofferenze di don Bosco si
accompagnò costantemente all'evento pasquale di una perenne
letizia del cuore. E la gioia fu la méta della sua opera
educativa.
Attualità del lavoro di don Ceria.
Rivolgendosi ai lettori del suo libro, don
Ceria confida di averlo scritto per confutare un grossolano
malinteso connesso alla esaltazione di don Bosco come santo
moderno. «In questi tempi di operosità febbrile», scrive, «chi
parla così ha tutta l'aria di volercelo vantare come il santo
dell'azione, quasi che la Chiesa, da san Paolo ad oggi, non
abbia avuto sempre santi attivissimi, e come se ai giorni nostri
un santo di azione debba o possa fare a meno di essere insieme
uomo di orazione», quando invece «non si dà santità senza
vita interiore, né si darà mai vita interiore senza spirito di
orazione».
Certo, l'azione in don Bosco ci fu, e
raggiunse livelli che sanno dell'incredibile. Ma venne dalla
sovrabbondanza della vita interiore.
Anche oggi la febbre dell'azione è alta,
più che mai. Si parla continuamente della necessità di vivere
con i giovani, di entrare nei loro problemi, nelle loro
sensibilità, nelle loro esigenze. E bisogna che così avvenga.
A che giova, però, mettersi tra i giovani e condividerne la
ricerca, se si è poveri, od addirittura vuoti, di risposte
veraci? Ed in che cosa possono ultimamente consistere tali
risposte, se non nello stare con i giovani alla maniera
significativa di don Bosco, ossia con le qualità interiori che
don Ceria riaddita in lui?
Scorrendo le pagine del Don Bosco con Dio,
si sperimenta al vivo un contrasto di mentalità e di pratica di
vita con le sensibilità e gli atteggiamenti odierni che talora
mette i brividi. È l'occasione buona per rimettersi in
discussione, e lasciarsi indurre salutarmente in crisi dalle
istanze di verità che presenta. Per questo viene riproposto.
Per questo ancora, domanda di essere ricevuto con la
considerazione concessa ad un autentico dono dello Spirito.
Don Giorgio Gozzelino sdb.
Torino, giugno 1988.
Premessa.
L'idea di questo lavoro mi venne a Frascati
nel 1929, anno della beatificazione di Don Bosco. Mi nacque
leggendo l'annuale relazione, che il reverendissimo Don Filippo
Rinaldi, terzo successore di Don Bosco, aveva inviata in gennaio
ai Cooperatori e alle Cooperatrici dei Salesiani. Chiudeva egli
la sua lettera ricordando come, cent'anni innanzi, il nostro
buon Padre, non ancora quattordicenne, facendo da umile e
laborioso garzone di campagna presso una famiglia di agiati
agricoltori, non trascurasse, benché così giovane,
l'apostolato fra i coetanei, ma soprattutto attendesse alla
preghiera, e che così lavorando e pregando trascorse quasi un
biennio.
Mi rammentai allora in buon punto che il
benedettino Don Chautard nel suo notissimo libro L'âme de tout
apostolat annovera Don Bosco fra quei sacerdoti e religiosi
moderni, i quali, dediti a vita intensamente attiva, promossero
assai il bene delle anime sol perché furono insieme uomini di
profonda vita interiore. Ricordava pure come monsignor Virili,
postulatore nella causa del beato Cafasso, testimoniando in
quella di Don Bosco, avesse dichiarato di reputare Don Bosco un
santo, non solo per le opere fatte, ma anche per il suo spirito
di preghiera e di raccoglimento nel Signore.
Ecco, dissi fra me, ecco un lato di Don
Bosco, che, non messo forse finora abbastanza in luce,
meriterebbe di venire illustrato con qualche cura nell'anno
della sua probabilissima beatificazione.
Rapiti dalla vista dei prodigi della sua
multiforme attività, i contemporanei ne ammirarono i trionfi
senza quasi por mente che era omnis gloria eius ab intus. Anche
la generazione venuta su dopo la sua morte ha guardato di
preferenza alle opere di Don Bosco, studiandone le forme e gli
sviluppi senza darsi guari pensiero di scrutarne a fondo il
principio animatore, quello che ha costituito sempre il gran
segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio.
No, non s'illuda di comprendere Don Bosco
chiunque non sappia quanto egli fosse uomo di orazione; frutto
ben scarso ritrarrebbe dalla sua mirabile vita, chi corresse
troppo dietro ai fatti biografici, senza penetrarne a dovere i
movimenti intimi e abituali.
Sollevare un lembo di questo velo mi parve
allora cosa di somma edificazione e fors'anche il miglior
contributo alla glorificazione del novello Beato; il velo
intendo di una vita, che in apparenza si svolgeva come altre
consimili, ma che in realtà nascondeva tesori di grazie e di
doni soprannaturali. Si può ripetere di Don Bosco il già detto
di altri, ch'egli somigliava all'Ostia santa: fuori apparenza di
pane, e dentro, Gesù Cristo.
Nota: Il Papa Pio XI nel discorso per il
decreto sull'eroicità delle virtù di Don Bosco diceva d'aver
ammirato personalmente in lui «l'immensa umiltà», notando
com'egli «il suscitatore di tutto» si aggirasse per casa «come
l'ultimo venuto, come l'ultimo degli ospiti». Fine nota.
A tali riflessi, mi sarei ben potuto
schermire dietro al comodo, per quanto non mendicato pretesto
della mia insufficienza; ma volli tentar la prova, tanto più
che sapevo di ottemperare, così facendo, al Rettor Maggiore Don
Filippo Rinaldi. Nei ritagli dunque di tempo lasciatimi liberi
dalle occupazioni mi diedi attorno a riandare con affetto di
figlio agli esempi e insegnamenti del Padre, fissandomi su ogni
particolarità che mi sembrasse degna di menzione circa la sua
vita di unione con Dio.
Per tal guisa mi si adunò adagio adagio un
materiale sufficiente e sicuro per la compilazione di
quest'operetta, che con umiltà e gioia deposi ai piedi del
nostro caro Beato, non senza far voti che altri con maggior
freschezza d'anima, con miglior competenza e perizia della mia,
si rifacesse sull'argomento e ci regalasse un capolavoro. Il
tema lo merita certamente.
Il libro incontrò qualche favore, giacché
se ne fecero due ristampe e alcune traduzioni. Ora per obbedire
ad un altro successore di S. Giovanni Bosco l'ho ripreso in
mano, introducendovi qua e là aggiunte e modificazioni, in modo
però da non alterare la forma primitiva.
Le fonti, a cui ho attinto, sono
generalmente le Memorie biografiche largamente note; la scritta
da Don Lemoyne in due volumi; gli atti dei processi canonici, e
documenti d'archivio. Tanto mi premeva di avvertire, perché i
lettori fossero rassicurati intorno all'attendibilità delle
cose esposte, senza bisogno di tante citazioni. Ogni volta che
mi è avvenuto di ricorrere ad altre fonti, l'ho dichiarato in
nota.
Riguardo al titolo, è parso conveniente
conservare quello di prima; il che in nulla detrae alla
grandezza di Colui, il quale sotto il semplice appellativo di
Don Bosco operò tante meraviglie e quelle meraviglie tuttora
richiama nell'età prossima alla sua. La pensava pure così Pio
XI, che nell'udienza accordata in S. Pietro il 3 aprile a tutti
i pellegrinaggi organizzati dai Salesiani per la canonizzazione,
dopo aver accennato alle categorie svariatissime di cui si
compone la grande famiglia di Don Bosco, si corresse dicendo «di
San Giovanni Bosco», ma per soggiungere tosto che il mondo
avrebbe continuato a chiamarlo Don Bosco.
«E sarà bene, continuò, perché è come
ripetere il suo nome di guerra, di quella guerra benefica, una
di quelle guerre che si direbbe la divina Provvidenza voglia
concedere di tanto in tanto alla povera umanità, quasi a
compenso delle altre guerre non affatto benefiche, ma così
dolorose e seminatrici di dolori».
Questa edizione esce con cinque nuovi capi
e con ritocchi vari e qualche aggiunta qua e là. È stata anche
soppressa la triplice divisione precedente.
Un mattino di agosto del 1887 nel collegio
di Lanzo Torinese, lo scrivente, salendo lo scalone, giunto sul
pianerottolo del primo piano, si trovò come per incanto a un
passo da Don Bosco, fermo là in atto di attendere qualcuno.
Lietissimo dell'incontro, gli baciò con affettuoso trasporto la
mano. Don Bosco gli chiese il nome. Uditolo, fece un - Oh! di
grata sorpresa; indi proseguì: Sono contento. Ambe le orecchie
stavano tese in ansiosa aspettazione; ma non finì la frase,
perché sopravvenne il qualcuno e lo rapì. Al termine di questa
umile fatica, quanto sarebbe giocondo riudire dal labbro del
Padre amato quelle due parolette, ma con senso compiuto! In ogni
modo, Egli sa il motivo e il movente del lavoro; Egli sa il buon
volere. Benedica Egli allo sforzo e lo renda non del tutto
infruttuoso.
Sac. Eugenio Ceria.
Torino, 31 gennaio festa di S. Giov. Bosco,
1946.
Introduzione.
Per le anime semplici il Santo è l'uomo
delle visioni, delle profezie e dei miracoli; questi invece sono
doni carismatici, non essenziali alla santità, ma voluti da Dio
nella sua Chiesa fin dalle origini a perenne testimonianza della
divina virtù di lei, e quali mezzi straordinari a destare o a
ridestare o a mantener desto nelle menti degli uomini il
pensiero delle cose celesti.
Il Santo è un uomo tutto di Dio; un uomo
che, secondo l’espressione di san Paolo, vive interamente a
Dio; uomo dunque che in Dio ricerca il principio e ripone il
fine di tutti i suoi pensieri, di tutti i suoi affetti, di tutte
le sue azioni.
Di questa vita superiore alla naturale
tutti i rigenerati dal battesimo hanno ricevuto in sé gli
elementi nella grazia largita loro dalla bontà infinita di Dio;
ma in pratica non sono moltissimi i cristiani che,
corrispondendo perfettamente ai lumi e agl'impulsi divini,
raggiungano tal grado di vita spirituale da potersi applicare in
tutta l'estensione dei termini il detto del medesimo Apostolo:
Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo.
Ora il Santo ci si presenta appunto come
colui che vive a pieno la vita soprannaturale, nella misura,
s'intende, concessa a creatura umana; cosicché abitualmente la
sua conversatio in caelis est:egli dimora sulla terra, ma da
cittadino del cielo, tenendo sempre fisso il cuore là, dove sa
essere per lui ogni ragione di vero bene. In questo consiste lo
spirito di preghiera, intesa questa precipuamente nel senso di
ascensione, elevazione, slancio affettuoso dell'anima verso Dio,
senza che nulla al mondo la distolga da quell'oggetto supremo
del suo amore: tirocinio quaggiù della vita celeste, che di Dio
sarà la diretta, l'amorosa, l'eterna visione.
Ciò posto, bisogna aver il coraggio di
confessare che non sempre le Storie Santi, quali oggi vedono la
luce un po' dappertutto, contengono realmente le Vite dei Santi.
Senza dubbio i Santi spiegano altresì un'azione, che va
collocata entro la cornice degli avvenimenti a loro
contemporanei; nella parte da essi presa a certi ordini di fatti
o a certe correnti d'idee il credente scorgerà, se si vuole, la
mano della Provvidenza, che invia a tempo e luogo gli eroi
capaci di sostenere nell'umanità missioni di alta importanza
religiosa e civile.
Sotto questo rispetto l'agiografia moderna,
non lo negheremo, ha sgombrato il terreno da pregiudizi
inveterati, che facevano riguardare i Santi come esseri cascati
dal mondo delle stelle, estranei alla vita, se non addirittura
affetti da monomanie, che si amava tanto di gabellare per
misticismo, nomignolo coniato da ignoranza della mistica e
attribuito con intenzioni canzonatorie anche a fenomeni di
natura altissima.
Sì, è giusto render merito ai seguaci del
metodo storico, se in certi ambienti le figure dei Santi possono
affacciarsi oggi senza più sollevare in certuni le antipatie
d'una volta. Ma è pure innegabile che così la loro
individualità vera rischia di venir menomata, perché scoronata
dall'aureola che li fece essere e ce li deve mostrare quali
realmente furono.
Conviene saper distinguere i due aspetti
senza isolarli. Nello studio dei Santi come mai prescindere
dalla santità? E chi dice santità, dice una realtà, su cui
sorvoli pure leggermente la scienza positiva, sia essa storica o
psicologica, ma non mai chi abbia occhi esercitati nell'indagine
di fatti appartenenti a un ordine superiore, dove l'umano
s'incontra col divino e intimamente vi si unisce.
Ecco perché falsano il concetto di Santo
quegli Scrittori, i quali stimano che non valga la pena o che
sia cosa indifferente il considerarlo come l'uomo dell'unione
con Dio. Così abbiamo avuto vite di Santi, diremo così,
laicizzate o quasi.
E qui torna molto a proposito aggiungere
un'altra osservazione. Abbiamo udito più volte e letto, che Don
Bosco è un Santo moderno. Ci sembra trattarsi qui di
un'asserzione che vada fatta con prudenza e che si debba
intendere cum grano salis; altrimenti
s'ingenera il dubbio, che, al pari di tante e tante cose umane,
anche la santità con l'andare del tempo abbia bisogno di
ammodernarsi.
Lungi da noi l'idea, che esistano due
specie di santità, la prima buona per i tempi d'una volta e
l'altra fatta apposta per i tempi nostri! L'azione della grazia
divina che forma i Santi, non si muta per mutare di secoli, a
guisa delle molteplici attività umane, che sono sempre in via
di modificazione per adattarsi alla variabilità dei tempi e
delle circostanze; né la cooperazione dell'uomo all'azione
santificatrice della grazia di Dio si diversifica oggi da quella
che fu ieri, cambiando stile a seconda dei gusti.
Il perfetto amor di Dio, elemento
essenziale della santità, s'assomiglia per questo al sole, che
dal primo giorno della creazione vivifica la terra, inondandola
sempre a un modo di luce e di calore. Non si pretende con ciò,
che l'accennata sentenza non possa ammettere un'interpretazione
ragionevole, a patto però di farle dire unicamente questo, che
anche il Santo è uomo del suo tempo e che quindi, attuando una
missione di bene in un dato periodo storico, piglia
atteggiamenti accidentali che in altre epoche sarebbero stati
anacronistici.
Ciò nonostante, posta l'identità del
principio ispiratore, dell'energia informatrice e del fine
supremo d'ogni santa impresa, il metodo stesso dei procedimenti
non riveste mai caratteri di sì spiccata novità, da
giustificare quasi un assioma come questo: tante età, tante
santità.
C'è particolarmente un grossolano
malinteso da scansare, quando si proclama Don Bosco il Santo
moderno. In questi tempi di operosità febbrile chi parla così
ha tutta l'aria di volercelo vantare come il Santo dell'azione,
quasiché la Chiesa, da san Paolo, a oggi non abbia avuto sempre
Santi attivissimi e come se ai giorni nostri un Santo di azione
debba o possa far a meno di essere insieme uomo d'orazione.
Non si dà santità senza vita interiore, né
si darà mai vita interiore senza spirito di orazione. Tale la
genuina spiritualità, ieri, oggi, sempre: azione e orazione,
fuse, compenetrate, indivisibili, come nel di della Pentecoste.
Un profondo conoscitore di san Paolo,
cogliendolo quasi dal vero nell'esercizio dell'apostolato, ce ne
abbozza questo ritratto, del quale ci sembra proprio di
riscontrare in Don Bosco una copia fedele: «Con una facilità
incomparabile l'Apostolo associa la mistica più sublime con
l’ascetismo più pratico; mentre il suo occhio penetra i
cieli, il suo piede non perde mai il contatto con la terra.
Nulla è sopra né sotto di lui.
Nel momento in cui si dichiara crocifisso
al mondo e vivente della stessa vita di Cristo, sa trovare per i
suoi figliuoli parole che rapiscono per la giocondità e la
grazia, e discende alle prescrizioni più minuziose sul velo
delle donne, sul buon ordine delle assemblee, sul dovere del
lavoro manuale, su la cura di uno stomaco debole. Perciò la sua
spiritualità offre ai cuori più umili un alimento sempre
saporitole alle anime più elette una miniera inesauribile di
profonde meditazioni».
E dalle origini del Cristianesimo balzando
in pieno medioevo, ci troviamo di fronte un san Bonaventura,
intorno al quale un autorevole biografo ci presenta questa
osservazione, che sembra anch'essa scritta per Don Bosco: «Le
epoche di lotte chiedono uomini di alta bontà, che sopra i
contrasti di parti riescano a pacificare gli animi: uomini dalla
visione chiara, i quali sappiano ciò che vogliono e vadano
dritti al loro scopo; uomini di preghiera per assicurarsi la
pace nel loro interno e ottenere luce e forza dall'alto».
Ecco dunque che la spiritualità dei Santi,
sempre antica e sempre nuova, non subisce metamorfosi per
volgere di secoli né per mutare di costumi.
Può accadere che uomini apostolici e
cristiani versati nelle scienze sacre, sospinti spesso a
ragionare di cose spirituali, con tutta facilità s'illudano di
essere quello che dicono; ma altro è dire, altro è fare: si può
discorrere benissimo di vita spirituale senza vivere
spiritualmente.
Nelle pagine che seguono, i sacerdoti
dediti in special modo ai sacri ministeri troveranno, a Dio
piacendo, e per merito di Don Bosco, qualche lume e qualche
stimolo a mandare di conserva il facere il docere, sicché la
pratica preceda, accompagni e segua l'insegnamento. Serbatoi,
non semplici canali ci vuole san Bernardo.
I laici poi, che fra le brighe materiali
non perdano di vista gl'interessi dello spirito, leggeranno con
non lieve profitto gli esempi di un sì indefesso lavoratore,
che nel maremagno delle cure possedeva l'arte di trasformare in
preghiera le opere delle sue mani, attuando con naturalezza
incomparabile il semper orare et non deficere. Non diciamo
niente delle persone religiose, perché queste, avendo
l'intelligenza delle cose spirituali, dal pochissimo che noi
sapremo metter loro dinanzi, intuiranno il molto più che il
nostro occhio non discopre.
Lo spirito di preghiera è l'atmosfera del
cristiano. Spanderò, dice il Signore, sopra la casa di David e
sopra gli abitatori di Gerusalemme lo spirito di grazia e di
orazione, e volgeranno lo sguardo a me. La diffusione di questo
spirito, cominciata nella grande Pentecoste, è durata e dura e
durerà perenne in seno alla Chiesa, formandovi come l'aria che
vi si deve respirare dai fedeli. I Santi l'hanno respirata pura,
senza interruzione, a pieni polmoni.
Da tale flusso vivificati e virtute
corroborati in interiorem hominem, son venuti eliminando da sé
le opere della carne, enumerate dall'Apostolo nella lettera ai
Cristiani di Galazia, e accogliendo invece i frutti dello
Spirito, cioè, al dire del medesimo Apostolo, carità, gaudio,
pace, pazienza, benignità, bontà longanimità, mansuetudine,
fedeltà, modestia, continenza, castità. Questovè
ciò ch'egli chiama vivere di Spirito e camminare in Spirito; ciò
ch'egli intende, quando dice esser ripieni di tutta la pienezza
di Dio, Bellissime cose! Potessimo anche noi comprenderle bene
cum omnibus sanctis, ma qui con Don Bosco e alla sua scuola!
Quanto all'ordine della trattazione, ecco.
La via dei giusti è paragonata dallo Spirito Santo alla luce
che comincia a risplendere, s'avanza e cresce fino al giorno
perfetto. Veri figliuoli della luce, i Santi sono luminaria in
mundo, progredendo di virtù in virtù fino alla perfezione, e
arrivando con le loro ascensioni lassù, dove fulgebunt sicut
sol in conspectu Dei.
Terremo dunque dietro con tutta semplicità
alla vita di Don Bosco dall'aurora al meriggio e al tramonto, o
meglio al passaggio dal firmamento della Chiesa militante ai
caeli caelorum, agli altissimi cieli della Chiesa trionfante.
Toccheremo per ultimo dei doni soprannaturali gratuiti, che
rifulsero in lui e che, se non sono mezzi necessari per giungere
all'unione con Dio, servono almeno, quando siano reali, a
rivelarne sempre più il grado.
Il nostro cuore intanto trabocca
dell'allegrezza, pensando che dalla gloria dei Beati il nostro
caro Padre non ci rischiarerà più solamente le vie dell'esilio
con la luce de' suoi insegnamenti ed esempi, ma ci si porgerà
valido intercessore presso Dio, affinché a noi pure sia dato di
raggiungere felicemente la patria celeste.
CAPO I. - In famiglia.
Nella vita spirituale trasvolano momenti di
grazia, in cui l'anima ha intuizioni improvvise, rapide e
salutari. Improvvise diciamo quanto all'atto in se stesso della
facoltà conoscitiva; ma, sebbene lo Spirito spiri dove vuole,
tuttavia , ordinariamente parlando, in cose di tal genere quel
percepire immediato e sicuro suole presupporre preparazioni
interiori più o meno lunghe, più o meno avvertite, consistenti
soprattutto nella fedele corrispondenza ai doni soprannaturali.
Fanciullo undicenne, Giovannino Bosco ebbe
uno di questi lampi rivelatori. Per arcane inclinazioni del
cuore affezionatosi a un degno sacerdote e messosi con filiale
confidenza nelle sue mani, da quella scuola di corta durata
riportò un durevole insegnamento: capì essere buono per
l'anima «fare ogni giorno una breve meditazione». Due frutti
colse da questa chiara visione: «gustare che cosa sia vita
spirituale» e non agire più come prima, cioè «piuttosto
materialmente e come macchina, che fa una cosa senza saperne la
ragione».
Così scrisse egli stesso in certe sue
"Memorie" stese per ordine di Pio IX a vantaggio de'
suoi figli. Ma nel luogo qui citato non dobbiamo sorvolare su
due parolette assai significative, sfuggitegli dalla penna. Una
è là dove dice che cominciò non a conoscere od a
sperimentare, ma addirittura a «gustare che cosa sia vita
spirituale».
Ecco lo squisito dono della sapienza, che
san Bernardo chiama «saporosa cognizione» delle cose divine.
Questo dono dello Spirito Santo è veramente un gusto
soprannaturale che fa assaporare le cose divine «per una specie
di arcana connaturalità o simpatia». L'altra paroletta
rivelatrice è in quell'agire di prima «piuttosto materialmente».
É ben notevole il «piuttosto», che attenua l'avverbio vicino.
Dunque c'era già nel piccolo l'idea della
spiritualità, vaga e indeterminata quanto si voglia, ma pur
distinta da ciò che è materialità nell'operare. La cosa poi
che maggiormente ci colpisce si è il vedere in età si tenera
la nozione precoce della forma di pietà che dovrà essere la
sua e de' suoi: armonico accordo di ora et labora, ossia
l'orazione anima dell'azione.
Prima d'allora aveva appreso dalla madre
l'amore alla preghiera. Nella famiglia rurale piemontese del
buon tempo antico il costume cristiano, serbandosi inviolato
attraverso infiltrazioni forestiere, si perpetuava pacificamente
di generazione in generazione intorno al vecchio focolare,
testimonio come di gioie intime e semplici e feconde, così
delle comuni preci quotidiane, con cui genti laboriose e oneste
chiudevano le loro giornate, recitando il rosario dinanzi
all'immagine della Vergine Consolatrice.
La casa meritava davvero il nome di
santuario domestico. In ambiente così sano una donna d'alti
sensi, quale ci consta essere stata la madre di Giovanni, era
maestra insuperabile di religiosità vissuta, massime quando,
come nel caso nostro, alla forza educativa dell'esempio poteva
unire la comunicativa efficacia della parola.
Sappiamo infatti che con la spontaneità
propria del linguaggio materno essa gli venne instillando fin da
piccino il sentimento vivo della presenza di Dio, la candida
ammirazione delle opere sue nel creato, la gratitudine per i
suoi benefici, la conformità a' suoi voleri, il timore di
offenderlo. Mai forse scuola di madre incontrò natura più
docile di figlio a riceverne gli ammaestramenti.
Così allorché dall'umile casolare nativo
il fanciullo cominciò ad ascendere alla Casa santa del Signore,
anche le ascensioni infantili del cuore presero slanci nuovi
verso le cose celesti. Il seguito della sua vita mirabile ci fa
arditi di applicare a lui le parole dell’Ecclesiastico: Ancora
giovinetto, prima d'inciampare in errore, io cercai la sapienza
con l'orazione. Io la domandava dinanzi al tempio, ed ella fiorì
in me di buon'ora, come l'uva primaticcia.
Nei dì festivi i divini uffici, a cui
andava sempre con gioia e assisteva con divozione, lo
infervoravano talmente, che l'impressione soave gli vibrava
nell'anima per tutta la settimana. Abbondano infatti le
testimonianze di persone che lo conobbero fanciullo e che
deposero come durante le sue occupazioncelle campestri, a cui fu
avviato per tempo, egli prorompesse sovente in preghiere e della
sua voce argentina facesse echeggiare il colle solitario col
canto di laudi sacre. Allestiva pure altarini, come sogliono i
piccoli, ornandovi di fiori e frondi l'immagine della Madonna,
ma, come non sogliono altri della sua età, chiamandovi quanti
più poteva compagni a pregare, a cantare, a imitare divotamente
le cerimonie vedute nella chiesa.
Lo attraeva la parola di Dio. A catechismi
e a prediche non perdeva sillaba. Poi ogni occasione era buona
per radunar gente e montare sopra una panca e nell'umile vestire
del contadinello, ma con fedeltà di memoria e con piena
padronanza di sé rifare i sermoni domenicali del pievano o
narrare fatti edificanti appresi e tenuti in serbo a tale
intento. Né tralasciava d'intercalarvi preghiere e, se ne fosse
l'ora, faceva anche dire alla piccola turba di villici le
orazioni della sera.
Tanto zelo di bene veniva nel fanciullo
suscitato e avvivato dal suo filiale affetto a Dio. Questo
affetto già in si tenera età ne moveva il cuore non solo ad
amare Dio, tenendolo a Dio unito con dolce e sempre più stretto
vincolo d'amore, ma anche a desiderare di vederlo amato e di
contribuire a farlo amare.
Mezzo efficacissimo per promuovere tale
unione si considera dai maestri della vita spirituale la
mortificazione cristiana, che è il morire a se stesso per
vivere della vita di Gesù Cristo in Dio. Ora le anime, che
verso Dio si sentono più fortemente trasportate, si danno alla
mortificazione quasi per irresistibile istinto d'amore.
Al vedere i Santi gioire fra volontarie
privazioni e sofferenze, il mondo ignaro si chiede trasognato: -
Ut quid perditio haec? A che pro tanto sprezzo di beni e agi
materiali? - La risposta è antica quanto la domanda; la diede
da gran tempo san Paolo: Quei che sono di Cristo, hanno
crocifisso la loro carne. I risorti con Cristo alla vita dello
Spirito sacrificano volentieri la carne per vivere secondo lo
Spirito. L'esperienza poi insegna che così sviluppasi lo
spirito di preghiera, come di lì procede buona fecondità di
azione.
Ed ecco che il piccolo Giovanni aveva già
spontaneamente compreso questo gran segreto della perfezione
cristiana prima ancora d'imbattersi nel sacerdote che gl'insegnò
a meditare; infatti scrive nelle prelodate "Memorie":
«Fra le altre cose, mi proibì tosto una penitenza che io era
solito fare, non adattata alla mia età e condizione». Lo
incoraggiò invece a frequentare i sacramenti della penitenza e
dell'eucaristia.
L'anno innanzi al felice incontro, egli
aveva fatto la prima Comunione. La fece dunque a dieci anni. Ci
volle uno strappo bell'e buono alla rigida consuetudine di non
ammettervi nessuno prima dei dodici o quattordici anni; ma
stavolta il comunicando si presentava alla sacra mensa così ben
preparato, che il parroco chiuse un occhio. Giovannino vi si
preparò confessandosi tre volte e poi in tutto quel giorno
benedetto non si occupò di alcun lavoro materiale, ma solo in
leggere libri divoti. Scriverà poi nelle citate
"Memorie": «Mi pare che da quel giorno vi sia stato
qualche miglioramento nella mia vita».
Purtroppo però la santa e fruttuosa
familiarità col degno ministro di Dio, che lo istradava bel
bello alla pietà e al sapere, gli fu bruscamente troncata dalla
morte. Dure prove attendevano il caro figliuolo di Margherita.
Fino allora tutto casa e chiesa, dovette andarsene dal tetto
materno e ridursi sotto un padrone a servire quale garzoncello
di campagna. Ricco d'ingegno e straricco di memoria, si vide
costretto a logorare si promettenti energie nei grossolani
lavori della terra. Dio voleva così, perché innalzasse un
edificio di sode virtù sulla sicura base dell'umiltà.
Confesserà più tardi che ne sentiva il bisogno.
La preghiera gli era alimento e conforto.
La preghiera, e qualcos'altro. Ogni sabato chiedeva
rispettosamente licenza ai suoi padroni di recarsi la mattina
dopo a una borgata distante un'ora di strada per ascoltarvi la
prima messa, che vi si celebrava per tempissimo. Perché tanta
premura, se più tardi interveniva sempre alla messa
parrocchiale e alle altre funzioni? Andava là di buon mattino
per confessarsi e fare la santa comunione. Perseverò così
tutte le domeniche e feste per due anni interi. Gran cosa per un
fanciullo sbalestrato lungi dai suoi e in quelle condizioni di
vita e non certo animato a tanto da esempi o suggerimenti
altrui.
Si grande amore per Gesù Sacramentato è
segno manifesto di non comune avanzamento nello spirito di
preghiera. Le interne disposizioni indotte nell'animo da tale
spirito si rivelano poi di leggieri nella condotta, negli
atteggiamenti e nelle parole di un giovane. Le prove fornite nei
processi dai superstiti della famiglia, presso cui il caro
garzoncello prestava servizio, non lasciano luogo a dubbio di
sorta sul suo conto per questo riguardo.
Essi non avevano mai non pure avuto, ma
neanche immaginato un servitore così obbediente, laborioso ed
esemplare. In casa si adempivano i doveri del buon cristiano con
la regolarità delle inveterate consuetudini domestiche, tenaci
sempre nelle famiglie campagnuole, tenacissime a quei tempi di
vita sanamente paesana; il servitorello però d'ordinario
pregava in ginocchio, pregava più spesso degli altri, pregava a
lungo.
Fuori di casa, mentre guardava le mucche al
pascolo, fu trovato ora raccolto in preghiera, ora concentrato
nella lettura del catechismo, suo libro di meditazione; una
volta fu visto in ginocchio, immote, a capo scoperto, sotto la
sferza del sole, così assorto che, chiamato ripetutamente, non
die' segnò d'intendere, e quando venne scosso e ammonito di non
dormire al sole, rispose che non dormiva.
Un giorno il vecchio capo di casa,
rientrando stanco dalla campagna, e scorto il giovinetto che
inginocchiato diceva tranquillamente l'Angelus, n'adontò e
gliene mosse lamento, quasi che dimenticasse il lavoro per
pensare, diceva, al paradiso. Giovanni, finita divotamente la
prece, gli rispose con rispetto avvicinandosi: - Sapete bene, se
io mi risparmio. Certamente però si guadagna più a pregare che
a lavorare. Pregando, si seminano due grani, e nascono quattro
spighe; non pregando, quattro grani si seminano, ma due sole
spighe si mietono.
Penetrato da tali sentimenti, qual
meraviglia se, come ne fecero fede testimoni oculari,
osservavasi in lui calma di modi, eguaglianza di umore, senno di
osservazioni, riserbo nel tratto, aborrimento da tutto quanto
potesse, non che appannare il candore dell'anima, sembrare anche
solo disdicevole a giovinetto schiettamente cristiano? Né
trascurava colà di adoperarsi a bene dei fanciulli,
divertendoli, catechizzandoli, conducendoli a pregare.
Quel tal parroco, da cui andava a
confessarsi le domeniche, piangeva di consolazione al vedere
come, grazie alle industrie di un povero garzoncello, rifiorisse
la pietà nella porzione più eletta del suo gregge. Il fatto
sta che, dopo la partenza del piccolo apostolo, l'ottimo pastore
non ebbe che da continuare egli stesso quelle adunanze per
crearsi un vero oratorio festivo.
Di Domenico Savio dodicenne san Giovanni
Bosco scriverà di essere rimasto «non poco stupito
considerando i lavori che la grazia divina aveva già operato in
così tenera età». Il medesimo sentimento sorge in noi nel
riandare, su testimonianze giurate di contemporanei e di
conterranei, tutta la condotta di Giovannino Bosco.
Giovanni partì di là, perché giorno e
notte lo assillava il pensiero degli studi; ma la via crucis fu
ancora lunga e dolorosa. Nello scoraggiante avvicendarsi di
speranze e di delusioni egli esperimentò, più che mai per
l'innanzi, l'efficacia dell'esortazione di san Bernardo: Respice
stellam, voca Mariam. Aveva succhiata col latte la divozione a
Maria Santissima. In circostanze solenni e in momenti critici la
madre gli raccomandava: - Sii divoto di Maria! A mano a mano che
approfondiva il conoscimento delle cose divine, gustava sempre
meglio la dolcezza di questa divozione, fatta di assoluta
confidenza e di filiale amore, tanto predicata e praticata dai
Santi, tanto cara alle anime pie.
Una solinga chiesetta dedicata alla Vergine
sull'alto del colle che domina Castelnuovo, divenne allora per
lui meta di frequenti visite. Si recava lassù o da solo o più
spesso in compagnia di giovani amici. Dei quali pellegrinaggi
fatti nella sua prima adolescenza al santuarietto mariano egli
portò indelebilmente scolpito in mente il ricordo, tanto che
sul declinare degli anni, ripensandovi, s'inteneriva.
Prima di addentrarci nel nostro qualsiasi
studio, sembra opportuno aprire una breve parentesi per fissare
chiaramente il concetto fondamentale di preghiera. Che nella
vita cristiana la preghiera sia di suprema necessità, nessuno
lo metterà mai ragionevolmente in dubbio; quindi è che san
Paolo, scrivendo a Timoteo, gliela raccomanda primum omnium,
prima di tutto. La preghiera poi è stato ed è atto. Come
stato, essa consiste nell'orazione, continua dal medesimo
Apostolo, quando dice: Sine intermissione orate. Non
si può certo stare sempre attualmente fissi in Dio, ma si sta
sempre nella disposizione della preghiera mercè l'abito della
carità; l'anima del giusto, possedendo la grazia santificante,
e perciò presentando in sé la condizione richiesta affinché
si avverino le parole di Gesù: Verremo da lui e faremo dimora
presso di lui, dalle tre Persone della Santissima Trinità con
la loro presenza la comunicazione della loro vita, sicché
allora si prega veramente senza interruzione.
Della preghiera così intesa, oltre agli
stati ordinari e comuni, vi sono stati elevatissimi e di pochi,
stati mistici, stati di puro privilegio. Come atto, la preghiera
prende quattro forme, come c'insinua il medesimo san Paolo, dove
inculca a Timoteo di fare obsecrationes, orationes,
postulationes, gratiarum actiones; cioè, suppliche o preghiere
di domanda per noi, orazioni o preghiere di adorazione, voti o
preghiere di domanda per gli altri, e ringraziamenti per i
benefici ricevuti. La teologia della preghiera si riduce
sostanzialmente tutta qui. Vedere in qual modo l'abbiano vissuta
i Santi, è spettacolo che edifica e rapisce.
CAPO II. - Alle scuole.
La vita di Giovanni Bosco subì una brusca
mutazione quand'egli, spiccatosi dai luoghi nativi, si portò a
Chieri, di paesanello contadino divenuto in un subito cittadino
e studente. Chieri non era Torino; ma tutto è relativo a questo
mondo. C'erano pur sempre le insidiose novità di un ambiente più
raffinato; c'era l'indipendenza; c'era l'età.
Un giovincello campagnuolo, cresciuto sotto
gli occhi de' suoi, più o meno vicino, ma sempre attorno al
domestico nido, inesperto di tutto che non sia occupazioni e
soddisfazioni rusticane, avvezzo a non intrattenersi se non con
le solite gentine primitive, ecco, piomba di botto in un centro
così detto civile, fra abiti e abitudini d'un altro mondo,
sconosciuto in mezzo a sconosciuti; poniamo che questo
giovincello tocchi allora il punto critico dell'adolescenza, che
abbia ingegno vivace, che si senta qualche spirito in corpo;
immaginiamo ancora che un tale adolescente arrivi dai campi alla
città per tuffarsi in una popolazione sbrigliatella di scolari
delle classi secondarie: e si dica se non ci sia più di quanto
basti, perché si rinnovi il caso di Ercole al bivio. Buon per
Giovanni che ai rischi improvvisi si affacciava premunito, oltre
ché da scopo santo e da umile povertà, anche da quella pietà
illuminata, la quale copre la gioventù d'uno scudo contro cui
s'infrangono i dardi ostili.
Tale pietà, è buona a tutto, perché ci
mostra tutte le cose nella luce vera, è la luce divina, ne guidò
tosto i primi passi, che sogliono essere i più pericolosi,
conducendolo a fare la sua prima conoscenza e scortandolo ne'
suoi primi accostamenti ai compagni.
Apprendiamone da lui stesso il come. «La
prima persona che conobbi fu un sacerdote di cara e onorata
memoria. Egli mi diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi
lontano dai pericoli; m'invitava a servirgli la messa, e ciò
gli porgeva occasione di darmi sempre qualche buon suggerimento.
Egli stesso mi condusse dal prefetto delle scuole... e mi pose
in conoscenza con gli altri professori. In mia mente aveva
divisi [i compagni] in tre categorie: buoni, indifferenti,
cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre, appena
conosciuti; con gl'indifferenti trattenermi per cortesia e per
bisogno; coi buoni contrarre amicizia, ma famigliarità
solamente con gli ottimi, quando se ne incontrassero che fossero
veramente tali. Questa fu la mia ferma risoluzione. Tuttavia ho
dovuto lottare non poco con quelli che io non conosceva per
bene. Io mi sono liberato da questa caterva di tristi col
fuggire rigorosamente la loro compagnia di mano in mano che mi
veniva dato di poterli scoprire».
Orientatosi abbastanza nelle relazioni più
indispensabili, fu dalla stessa pietà molto bene indirizzato
nella ricerca della cosa che maggiormente gli premeva.
«La più fortunata mia avventura, scrive,
fu la scelta di un confessore stabile nella persona di un
canonico della Collegiata. Egli mi accolse sempre con grande
bontà, ogni volta che andava da lui. Anzi m'incoraggiava a
confessarmi e comunicarmi con maggior frequenza. Era cosa assai
rara in quei tempi trovare chi incoraggiasse alla frequenza dei
sacramenti. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più d'una
volta al mese, era giudicato dei più virtuosi, e molti
confessori non lo permettevano. Io però mi credo debitore a
questo mio confessore, se non fui dai compagni trascinato a
certi disordini, che gl'inesperti giovanetti hanno purtroppo a
lamentare nei grandi collegi». S'intenda qui collegi nel senso
di pubbliche scuole, non di convitti, secondo una denominazione
locale del tempo.
Non solo i compagni non trascinarono lui a
disordini, ma egli ne tirò e tenne un bel numero sulla retta
via. Un giovane pio che primeggi nella scuola e non abbia ombra
di ostentazione, solo che sia un po’ disinvolto, si guadagna i
cuori dei condiscepoli con facilità incredibile. Così Giovanni
in breve tempo si conciliò tanta stima e benevolenza tra
l'elemento giovanile di Chieri, che gli riuscì di fondare
un'associazione denominata Società dell'Allegria, il cui
regolamento si componeva di due articoli: evitare ogni discorso,
ogni azione che disdicesse a un buon cristiano, e adempiere
esattamente i doveri scolastici e religiosi.
Ciascun socio aveva obbligo di cercare
libri e introdurre trastulli atti a far stare allegri i
compagni: proibito checché causasse malinconia, massime
qualunque cosa non conforme alla legge di Dio. Tutte le feste i
membri della Società andavano al catechismo nella chiesa dei
Gesuiti; lungo la settimana si adunavano in casa or dell'uno or
dell'altro, con libero intervento di quanti volessero
parteciparvi, e se la passavano ivi in amene ricreazioni, in pie
conferenze, in letture religiose, in preghiere, in darsi buoni
consigli e in notarsi a vicenda i difetti personali, che taluno
avesse osservato direttamente o di cui avesse udito parlare.
Oltre a questi amichevoli trattenimenti, «andavamo,
scrive Don Bosco, ad ascoltare le prediche, spesso a
confessarci, a fare la santa comunione». L'allegria dunque
veniva cercata da lui come buon mezzo per servire il Signore.
È alieno dal nostro compito il prendere un
tono di enfasi, avendosi qui per iscopo soprattutto
l'edificazione; ma l'ammirazione sorge dai fatti. Di giovani pii
se n'incontrano, grazie a Dio, con frequenza consolante; ma
giovani d'una pietà così operosa che, non paghi essi di
ambulare cum Deo, in sé l'impulso abituale, quasi il bisogno
imperioso di portare Dio nelle anime altrui o di avvicinarle
maggiormente a Dio, capita rarissime volte d'incontrarne.
Giovanni Bosco nutriva dentro una pietà
fatta come il bene, del quale si dice che è per natura
diffusivum sui.
Vedere una persona e pensare subito a
renderla buona o migliore nel senso più strettamente cristiano
della parola, doveva essere un giorno il programma della sua
vita sacerdotale; ma era già la tendenza de' suoi verdi anni.
L'abbiamo visto all'opera fra coetanei e condiscepoli; a voler
tutto esporre ci dovremmo ripetere di soverchio, e poi non si
tesse qui una biografia: ci premeva soltanto mettere in evidenza
l'annunciarsi lontano di quella che fu nota caratteristica della
sua spiritualità.
A questo punto, chi sa? lettori diffidenti,
rilevando nel giovane Bosco la propensione innata a mettersi in
pubblico e riandando le clamorose sue prodezze di giocoliere e
di acrobata, sarebbero forse tentati di esprimere qualche
riserva sul movente segreto di tali manifestazioni. Non vi
farebbero capolino per caso ambizioncelle di popolarità e gusti
teatrali, troppo mal conciliabili con le esigenze della vita
interiore e con il rumores fuge l'ama nesciri dell'ascetica
tradizionale? A dissipar simili dubbi basterebbe ponderare fini,
modi, circostanze, effetti. Omettiamo ciò: limitiamoci
piuttosto a un dato di fatto.
A tu per tu con persone di vario genere è
sempre identico in lui lo spirito animatore: l'ardore di
un'anima pia, che è sollecita del bene spirituale altrui. Il
figlio della padrona di casa, sbarazzino numero uno, è la
disperazione di tutti; Giovanni se lo affeziona, lo tira pian
piano alle pratiche religiose, finché non ne cava fuori un
ragazzo per bene.
Frequentando il duomo, vi fa conoscenza col
sagrestano maggiore, già adulto, affatto digiuno di studi,
corto d'ingegno e di mezzi, distratto dalle sue occupazioni,
eppure bramoso di diventar prete; Giovanni, senza verun
compenso, con eroismo di carità si presta a fargli un po' di
scuola ogni giorno, e la dura così due anni, finché non l'ha
preparato all'esame per la vestizione chiericale. Stringe
amicizia con un ebreo, giovane diciottenne, lo invoglia a
ricevere il battesimo, lo istruisce, di nascosto, vince
opposizioni ostinatissime di parenti e di altri correligionari,
finché non lo assiste al sacro Fonte.
È ben precoce tutta la fecondità di
apostolato, che abbiamo potuto ammirare fin qui. Essa ci
somministra una prova di non meno precoce unione con Dio. Si sa
come poco serva il saper agire e parlare, se manchi il previo
raccoglimento nella preghiera, che è con l'esempio mezzo
indispensabile nelle opere di zelo.
Il significativo proverbio Dimmi con chi
vai e ti dirò chi sei porta buon rincalzo all'argomento, se lo
si applica all'amicizia di Giovanni con uno studente santo. Tale
la fama, che aveva preceduto l'arrivo di Luigi Comollo a Chieri.
Avutane appena notizia, Giovanni ardeva di conoscerlo;
conosciutolo, agognava di entrare in relazione con lui;
riuscitovi, trovò che la realtà superava l'aspettazione.
Spigoliamo nelle "Memorie": «L'ebbi
sempre per intimo amico. Ho messo piena confidenza in lui, egli
in me. Mi lasciavo guidare dove e com'egli voleva. Andavamo
insieme a confessarci, a comunicarci, a fare la meditazione, la
lettura spirituale, la visita al santissimo Sacramento, a
servire la santa messa». L'accenno alla meditazione ci
assicura, com'egli non ismettesse più di rinnovare
quotidianamente e arricchire la sua vita interiore con questo
valido esercizio. E il loro conversare? Dalla pienezza del cuore
parla la bocca. Conferivano insieme di cose spirituali. «Il
trattare e parlare di tali argomenti con lui, scrive Don Bosco,
tornavagli di grande consolazione. Ragionava con trasporto
dell'immenso amore di Gesù nel darsi a noi in cibo nella santa
comunione. Quando discorreva della Beata Vergine, si vedeva
tutto compreso di tenerezza, e dopo aver raccontato o udito
raccontare qualche grazia concessa a favore del corpo, egli, sul
finire, tutto rosseggiava in viso e alle volte rompendo anche in
lacrime esclamava: - Se Maria favorisce cotanto questo
miserabile corpo, quanti non saranno i favori che sarà per
concedere a pro delle anime di chi la invoca? Oh, se tutti gli
uomini fossero veramente divoti di Maria, che felicità ci
sarebbe in questo mondo!».
Al se stesso d'allora Don Bosco attribuisce
la parte di uditore; non avrà fatto l'uditore perpetuamente
muto. A ogni modo, effusioni di questa natura non è verosimile
che avvengano, e tanto meno che si ripetano così a lungo, se da
ambo i lati non siano i cuori capaci d'intenderle e di gustarle.
I quattro anni di ginnasio finirono con
esito trionfale. Ottimi risultati negli esami, affettuosa stima
di professori, entusiastica ammirazione dai compagni, generali
simpatie fra la cittadinanza; nessuno mancò insomma dei segni
forieri, per cui dall'alba si prognostica il giorno. Ma quante
angustie, quante difficoltà, quanti pericoli, quante
privazioni! La costanza non gli cadde spezzata sol perché,
mediante la preghiera, trovava rifugio nel Dio d'ogni
consolazione.
La Provvidenza così disponeva, affinché
un giorno potesse consolare coloro che si trovassero in
qualunque strettezza.
Se non che il sereno, mai non turbato «dal
vento secco, che vapora la dolorosa povertà», per dirlo con
una pittoresca frase di Dante, gli fu nel secondo biennio un
po’ offuscato da una nube. Nell'età delle crisi giovanili la
si può chiamare crisi di vocazione.
Che fino dalla puerizia aspirasse al
sacerdozio, è cosa incontestata; vi si sentiva talmente
attratto, che gli sembrava di essere nato per questo. Ma nel
penultimo anno di ginnasio, ecco che lo assalgono due timori, i
quali, quanto più si avvicina il momento decisivo, tanto più
lo spingono per entro a un mare di perplessità e di ansie. Da
un lato, ora che comprende meglio la sublimità dello stato
sacerdotale, se ne giudica indegno per la mancanza di adeguate
virtù; dall'altro, non ignorando gli scogli del mondo, ha paura
di andarvi a naufragare, se si fa chierico nel secolo.
Il travaglio spirituale di questa lotta
traspare dall'accorato accento, con cui tant'anni dopo esclama
nelle sue "Memorie": «Oh, se allora avessi avuto una
guida, che si fosse presa cura della mia vocazione, sarebbe
stato per me un gran tesoro; ma questo tesoro mi mancava».
Infatti il suo ottimo confessore, che badava a far di lui un
buon cristiano, in cose di vocazione non si volle mai mischiare.
Ridotto a trovar consiglio da sé, ricorse
a libri che trattassero di scelta dello stato. Un raggio di luce
parve balenargli allo spirito. «Se io rimango chierico nel
secolo, disse fra sé, la mia vocazione corre gran pericolo.
Abbraccerò lo stato ecclesiastico, rinuncerò al mondo, andrò
in un chiostro, mi darò allo studio, alla meditazione, e così
nella solitudine potrò combattere le passioni, specialmente la
superbia, che nel mio cuore aveva messo profonde radici».
Chiese dunque l'ammissione tra i Francescani, i quali,
intuendone l'ingegno e la pietà, lo accettarono di buon grado.
Ma egli non aveva il cuore tranquillo.
Vi si aggiunse che persone benevole e
serie, a cui aveva aperto l'animo suo, si adoperavano a tutto
potere per distorlo dal proposito di farsi frate, esortandolo
vivamente a entrare in seminario. Così le ansietà crescevano.
La Provvidenza dispose che si lasciasse
indurre a interrogare il beato Giuseppe Cafasso, allora giovane
sacerdote, ma già in grande riputazione per il dono del
consiglio. Don Cafasso, ascoltandolo attentamente, gli disse di
andare avanti negli studi e alla fine di passare nel seminario.
Durante queste ambasce interne la sua vita
esteriore si svolgeva come se nulla fosse, fra studi, esercizi
divoti, opere di zelo e lavori manuali per guadagnarsi da
vivere, sicché nessuno aveva sentore delle sue pene.
Il pensiero di Dio, quando signoreggia
un'anima, la rende padrona di sé e quindi abitualmente calma
nelle sue manifestazioni esteriori, quand'anche nel proprio
segreto si senta conturbata.
L'autorità di Don Cafasso li per li impose
silenzio alle dubbiezze; ma in seguito, facendo nuove letture
sulla vocazione, fu da capo alle prese con se medesimo. Sarebbe
tornato a picchiare dai Francescani, se un caso occorsogli, non
sappiamo quale, non avesse accelerato l'epilogo; egli ci dice
solo che, stante il moltiplicarsi di ostacoli duraturi, deliberò
di esporre tutto al Comollo. Veramente reca un po' di meraviglia
il vedere, come, per mettere l'amico a parte del suo dramma
interiore, ci fosse voluto tanto tempo e si ponderata
deliberazione. Però l'intimità buona non costituisce di per sé
un titolo di competenza in materie così delicate; d'altro
canto, Giovanni, con tutta la sua ricchezza d'idee e facilità
nel comunicarle, era tutt'altro che un giovane loquace.
Allora dunque insieme pregarono, insieme si
accostarono ai santi sacramenti, di comune accordo consultarono
per iscritto un esimio sacerdote, zio del Comollo. Questi,
proprio l'ultimo giorno d'una novena alla Madonna, così
rispondeva al nipote: «Considerate attentamente le cose
esposte, io consiglierei il tuo compagno di soprassedere
dall'entrare in un convento. Vesta egli l'abito chiericale, e
mentre farà i suoi studi, conoscerà vie meglio quello che Dio
vuole da lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione,
perciocché con la ritiratezza e con le pratiche di pietà egli
supererà tutti gli ostacoli». Studio, ritiratezza, pietà: non
era stata sempre questa la sua vita di Chieri? Come Don Cafasso,
come lo zio del Comollo, così anche il suo parroco opinava per
l'ingresso nel seminario, rimandando a età più matura il
decidersi o no per la vita religiosa. Tutto questo valse a
rasserenare l'orizzonte; quindi «mi sono seriamente applicato,
scrive, in cose che potessero giovare a prepararmi alla
vestizione chiericale».
Vestirsi chierico non fu per Giovanni Bosco
mera cerimonia. Dal raccoglimento e dalla preghiera, in cui si
seppe concentrare senza isolarsi - attendeva infatti a una
cinquantina di giovinetti che lo amavano e gli obbedivano, ce lo
dice egli stesso, come se fosse loro padre - uscì
spiritualmente preparato e tutto compreso dell'importanza di
quel sacro rito. I pii sentimenti avuti durante la funzione
palpitano vivi nella paginetta delle "Memorie" che per
buona sorte ce ne ha serbato il ricordo.
«Quando il prevosto mi comandò di levarmi
gli abiti secolareschi con quelle parole: Exuat te Dominus
veterem hominem cum actibus suis, in cuor mio: - Oh, quanta roba
vecchia, c'è da togliere! Mio Dio, distruggete in me tutte le
mie cattive abitudini. Quando poi nel darmi il collare aggiunse:
Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est
in iustitia et sanctitate veritatis, sentii tutto commosso e
aggiunsi tra me: - Sì, o mio Dio, fate che in questo momento io
incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che
la giustizia e la santità siano l'oggetto costante dei miei
pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia. O Maria,
siate la salvezza mia ».
A coronare l'opera, egli si scrisse e
prescrisse un regolamento di vita chiericale in sette articoli;
il sesto era così concepito: «Oltre alle pratiche ordinarie di
pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di
meditazione ed un poco di lettura spirituale». Affinché quindi
i buoni propositi non restassero lettera morta, vi si volle
astringere con vincolo solenne; perciò, inginocchiatosi davanti
a un'immagine della Beata Vergine, vi lesse i singoli articoli e
dopo una fervida preghiera fece «formale promessa a quella
Celeste Benefattrice di osservarli a costo di qualunque
sacrificio».
Si sarà notato qui sopra, che pietà e
spirito di preghiera si alternano indifferentemente, quasi
fossero una cosa identica. A ben chiarire le idee giovi
osservare, come lo spirito di preghiera si esplichi
ordinariamente in quel complesso di atti, con cui si onora Dio e
che nell'uso corrente vanno sotto la denominazione generale di
pietà; cosicché o quello si risolve in questa o, se vi si vuol
ravvisare una differenza, diremo spirito di preghiera una pietà
profonda, abituale e sentita.
Giacché poi siamo entrati in
quest'argomento, aggiungeremo ancora un'osservazione, opportuna
per noi. Secondo che nella pietà si attribuisca a un elemento
la prevalenza su gli altri, la pietà stessa permetterà di
venir contrassegnata con qualificativi specifici. Sotto questo
riguardo si è creduto di poterne fare classificazioni per
ordini religiosi, chiamando, ad esempio, liturgica la pietà
benedettina, affettiva la francescana, dogmatica la domenicana,
pietà delle massine eterne quella dei Liguorini.
Conformandoci al medesimo criterio, quale
diremo annunciarsi fin d'ora nella pratica di Giovanni Bosco la
futura pietà salesiana? Non sembra già scorgere alla lontana
le prime linee di una pietà destinata a guadagnarsi il titolo
di sacramentale, per la parte sovreminente che vi sarà fatta
alla confessione e alla comunione? Mercè appunto questi due
sacramenti, ricevuti con frequenza non mai usata per l'addietro,
il fondatore dei Salesiani dischiuderà sopra le sue istituzioni
le cateratte della grazia.
CAPO III. - Nel seminario.
Il seminario dell'archidiocesi torinese era
allora a Chieri; Giovanni Bosco vi entrò il 30 ottobre 1835 in
età di vent'anni.
Osservatore pronto e sagace, il giovane
chierico in un batter d'occhio si fece un'idea esatta del luogo,
delle persone e delle cose. Vi s'informò premurosamente degli
esercizi di pietà. Bene per la messa, la meditazione, la terza
parte del rosario, quotidiane; bene anche per la confessione,
settimanale; meno bene invece per la comunione, che si poteva
ricevere soltanto nelle domeniche e in solennità speciali.
Per andarvi qualche altra volta lungo la
settimana bisognava commettere una disobbedienza: si doveva
cogliere l'ora di colazione e infilare di soppiatto la porta che
metteva in una chiesa attigua. Ma poi, appena finito il
ringraziamento, non c'era tempo da perdere per raggiungere i
compagni, che tornavano allo studio e alla scuola; sicché in
tali casi fino a pranzo si restava con lo stomaco digiuno.
Questa infrazione di regolamento sarebbe stata a buon diritto
proibita; ma nel fatto i superiori vi davano tacito consenso,
giacché lo sapevano benissimo e a volte anche vedevano e non
dicevano nulla.
Così gli fu possibile frequentare a suo
piacimento la santa eucaristia, che egli dichiara essere stata
il più efficace alimento della sua vocazione.
Nutrito col pane degli Angeli, lo spirito
ecclesiastico del buon seminarista si veniva formando sotto il
soave influsso della sua divozione a Maria Santissima. Portava
egli profondamente scolpite nella memoria e nel cuore le ultime
parole dettegli dalla madre prima che partisse per il seminario.
Popolana illetterata, essa possedeva però
in grado eminente quel sensus Christi, che è sapienza infusa
dall'alto e attitudine a giudicare veracemente delle cose
divine, quale si riscontra in tante anime semplici con
meraviglia dei profani, ma senz'ombra di sorpresa per chi sappia
che sono i doni dello Spirito Santo.
Giovanni dunque, com'egli racconta nelle
Memorie aveva ricevuto dall’amata sua genitrice questo grande
ammonimento: Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla
Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho
raccomandato la divozione a questa nostra Madre; ora ti
raccomando di essere tutto suo: ama i compagni divoti di Maria;
e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga mai sempre la
divozione di Maria». Memore del saggio avviso materno, egli
ebbe cura di associarsi a compagni «divoti della Vergine,
amanti dello studio e della pietà».
Parecchi di quei compagni a lui
sopravvissuti deposero chi su gl'irresistibili suoi inviti a
seguirlo in chiesa per recitare il vespro della Madonna o altre
preghiere in onore della gran Madre di Dio, chi sul suo fervore
nel tradurre e illustrare familiarmente inni liturgici
indirizzati a Maria, chi sull'amabile piacevolezza, con cui ne
celebrava le glorie, raccontando nelle ore di ricreazione esempi
edificanti. Ancora studente di filosofia, si stimò ben felice
di dover salire la prima volta il pulpito per tenere un discorso
sulla Madonna del Rosario, primizia di quella multiforme
predicazione mariana, che sarebbe stata sua delizia fino alla
vecchiaia.
Ripetute volte dopo d'allora Giovanni
Bosco, semplice chierico, montò in pergamo: giacché, vista la
sua franchezza, si ricorreva a lui in casi disperati durante le
ferie estive, né egli si sgomentava o si faceva molto pregare.
Il fatto merita attenzione. Ognuno, dice il vecchio aforismo, è
abbastanza buon parlatore nelle cose che sa bene; pectus
disertos facit, un altro aforismo non meno antico, quasi
completando il primo, la vera facondia cioè viene dal cuore.
Nel chierico Bosco entrambi gli elementi concorrevano fin
d'allora a formare l'oratore sacro.
Fra i suoi propositi della vestizione aveva
messo anche questo: «Siccome nel passato ho servito al mondo
con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire
a Dio dandomi alle letture di cose religiose». Di cose
religiose, si badi bene, non ascetiche o spirituali, non mai
intermesse. Orbene, durante il ginnasio egli aveva letto
avidamente i classici italiani e latini per arricchire la sua
cultura profana o letteraria che si voglia dire, mosso da quegli
alti sensi ond'è ispirata un'intelligenza come la sua verso
tutto ciò che sia idealmente bello e grande; nel seminario
invece faceva usura del tempo per divorare opere anche
voluminose di storia ecclesiastica, di catechetica e di
apologia.
È poi risaputo che, data la sua memoria
tenacissima, per lui «leggere era ritenere»; lo asserisce egli
medesimo. Tante letture per altro non gli giovavano solo a
procacciarsi un'arida e sterile erudizione, ma soprattutto per
«servire a Dio», in quanto che al contatto della sua anima
ardente d'amor divino le cose lette gli si convertivano in
calore vitale di fede e di zelo. Onde in lui scienza della
religione e scienza dei Santi traevano reciproco vantaggio da
tali sussidi, procedendo normalmente di conserto; ecco perché,
presentandosi occasioni di predicare anche all'improvviso, non
gli mancava né materia né ardore, ma pochi istanti di
raccoglimento e di preghiera gli bastavano per sentirsi pronto.
Del resto, Giovanni Bosco non predicava
continuamente? Se, prescindendo dall'idea solenne risvegliata in
noi dal verbo predicare, facciamo astrazione da un pubblico
adunato in chiesa attorno alla cattedra di verità, e ci
restringiamo all'elemento essenziale del suo significato, che è
annunziare la parola di Dio, non sarà predicatore ogni
seminatore solerte della buona parola? In tal senso, che abile,
che instancabile predicatore non fu il chierico Bosco nel
seminario di Chieri! Osserviamolo.
Moltissimi giovinetti della città corrono
al giovedì a visitarlo; egli scende, s'intrattiene allegramente
con loro come prima, discorre di scuola e di studio, ma anche di
sacramenti, e non li licenza se non dopo averli condotti in
chiesa per una breve preghiera. Ai condiscepoli, che vedono e
che un giorno ricorderanno, suole ripetere: «Bisogna sempre
introdurre nelle nostre conversazioni qualche pensiero di cose
soprannaturali; è un seme che a suo tempo darà frutto».
Tra siffatti semi egli mescola anche
pensieri sulla vocazione allo stato ecclesiastico, secondo che
il suo sguardo scrutatore ne scorge l'opportunità. Inoltre,
insegnare la dottrina cristiana ai fanciulli si direbbe che sia
la sua passione; egli non si lascia mai sfuggire l'occasione di
far catechismi! Anzi s'ingegna di farne nascere quante più può
di tali occasioni.
Seminatore di parole buone anche entro il
recinto sacro. Nelle ricreazioni più lunghe i chierici di
miglior condotta tengono circoli scolastici; questa consuetudine
gli piace assai, perché, oltre che allo studio, la sperimenta
assai giovevole alla pietà. Si stringe così intorno a lui un
gruppo di intimi, una specie di santa lega per l'osservanza
delle regole e per l'applicazione allo studio, ma insieme per
infervorarsi l'un l'altro nella vita spirituale. Tuttavia anche
fuori di questi convegni le sue conversazioni finiscono
d'ordinario nell'argomento prediletto, quasi sale, cui con
grazia asperge ogni discorso.
- Parlava volentieri di cose spirituali, -
attesterà uno degli assidui. E poi c'è la vena inesauribile
dei racconti, coi quali incanta e incatena. Non mancò mai, nei
cinque anni che fui suo condiscepolo, dirà ancora l'incanutito
amico, alla risoluzione presa di raccontare ogni giorno un
esempio tratto dalla storia ecclesiastica, dalla vita dei Santi
e dalle glorie di Maria. La risoluzione qui accennata entrava
nel programma di vita chiericale, che già conosciamo. Insomma,
bisogna avere il cuore pieno di Dio, per parlare di Dio così,
quasi ad ogni aprir di bocca.
Il più costante degli esterni nelle visite
al chierico Bosco e il più aspettato di tutti era naturalmente
nel primo anno di seminario Luigi Comollo, che frequentava
allora l'ultima classe ginnasiale. Degni sempre l'uno
dell'altro, non avevano segreti fra loro; entrambi amanti di
Dio, si comunicavano i propri disegni per una vita da consacrare
interamente alla salute delle anime. È facile perciò
immaginare qual buona compagnia si facessero, dopo che si
ritrovarono uniti nel seminario. Qui per fortuna le fonti
d'informazione non iscarseggiano; possiamo perciò tener dietro
un po’ da presso ai due amici e così indagare meglio la vita
seminaristica di Giovanni Bosco in quello che c'interessa.
L'uniformità regolamentare fa si che le
giornate del seminarista più o meno si rassomiglino, né,
generalmente parlando, vi trovano favore le spiccate
manifestazioni di tendenze individuali. Per giunta, il chierico
Bosco, a detta d'un suo vecchio professore, progrediva bensì
notevolmente nello studio e nella pietà, ma «senz'averne le
apparenze, a cagione di quella sua bonarietà, che fu poi la
caratteristica di tutta la sua vita». Onde nel seminario agli
occhi dei più egli passò incompreso, sicché ci vollero gli
sviluppi posteriori, perché quei d'allora, richiamando alla
mente le cose remote, capissero ciò che non avevano capito
prima e dicessero quindi come disse un altro professore di
Giovanni: «Io lo ricordo, quand'era mio scolaro; era pio,
diligente, esemplarissimo. Certo nessuno a quel tempo avrebbe
pronosticato di lui quel che è adesso. Ma debbo dire che il suo
dignitoso contegno, l'esattezza con cui adempiva i doveri suoi
di scuola e di religione, erano cosa esemplare».
Peccato che di così preziosi testimoni il
tempo inesorabile abbia troppo presto assottigliato il numero o
indebolita la memoria! A buon conto, profittiamo di quanto ci è
pervenuto attraverso le notizie sicure che si possiedono circa i
suoi amichevoli rapporti col chierico Comollo.
Studio e pietà, scuola e religione: ecco
dove anzitutto i due bravi chierici andavano pienamente
d'accordo. Nei giovani di bell'ingegno l'amore allo studio
minaccia da tre lati la pietà. Primieramente, l'attività
mentale, dominando lo spirito, lo popola d'idee, la cui
associazione distrae non poco durante i pii esercizi. Poi, i
buoni risultati sollecitano la vanità giovanile, che a poco a
poco, in chi vi cede, fa svanire la soave unzione della grazia.
Infine gli studiosi appassionati cadono facilmente nella
tentazione di accorciare la durata della preghiera o di
mendicare pretesti per esimersene al possibile, proclivi come
sono a stimar perduto il tempo che non impieghino al tavolino.
Nelle Congregazioni religiose i chierici
passano agli studi dopo un periodo di apposita preparazione
spirituale, che insegna loro a mettere la pietà in capo a
tutto; ma i seminaristi, indossato l'abito chiericale,
ripigliano il giorno dopo la vita di studenti, sicché, se si
affezionano sul serio ai libri e ai maestri, non hanno quasi più
testa per la chiesa e le pratiche di pietà, o almeno stentano
grandemente a prendervi gusto.
Il chierico Bosco la vinceva sull'amico in
vigore di mente; ma nell'ardore per lo studio e per la pietà se
la intendevano fra loro a meraviglia. Riguardando lo studio come
un dovere e ben sapendo che anche nei doveri c'è una
graduatoria, assegnavano le prime parti ai doveri verso Dio.
Convinti inoltre che per ecclesiastici lo studio è mezzo, non
fine a sé, e mezzo di second'ordine per far bene alle anime,
dovendosi mandare innanzi a tutto il resto la santità della
vita, erano lungi mille miglia dal subordinare all'amor del
sapere lo spirito di preghiera; onde il mutuo aiutarsi a
progredire nella vita interiore. «Finché Dio conservò in vita
questo incomparabile compagno, scrive Don Bosco, gli fui sempre
in intima relazione. Io vedevo in lui un santo giovanetto; lo
amava per le sue rare virtù; e quando ero con lui, mi sforzava
di imitarlo in qualche cosa, ed egli poi amava me, perché lo
aiutava negli studi».
In una sola cosa accidentalissima, ma
rivelatrice, Giovanni Bosco manteneva il suo modo di vedere.
Luigi Comollo, divoto com'era di Gesù Sacramentato,
accostandosi con il massimo raccoglimento alla sacra mensa, dava
in sussulti di commozione; indi, tornato al suo posto, sembrava
che fosse fuori di sé, pregando fra singhiozzi, gemiti e
lacrime, né riavendosi da quei trasporti di pietà se non al
termine della messa. Giovanni avrebbe voluto che egli si
frenasse per non dar nell'occhio; l'altro invece rispondeva che,
se non avesse dato sfogo alla piena degli affetti, gli sarebbe
parso di soffocare. Ne rispettò l'ardente divozione, ma per
conto suo si sentiva avverso a quanto avesse aria di singolarità
o destasse ammirazione.
La pietà non meno accesa aveva differente
aspetto. Nell'andare e tornare dalla comunione, nulla di
eccezionale; dopo, nel fare il ringraziamento, restavasene
immobile, con la persona dritta, il capo leggermente chino, gli
occhi chiusi e le mani giunte dinanzi al petto. Non un segno di
emozione, non un sospiro; solo di quando in quando un tremar
delle labbra, che proferivano qualche muta giaculatoria. La fede
però ne illuminava tutto il sembiante.
Fuori del seminario, nei mesi di vacanza, i
due amici s'indirizzavano frequenti lettere e si scambiavano
visite, in cui le cose spirituali solevano formare l'argomento
favorito. Uno dei documenti più notevoli intorno alle loro
sante relazioni è la biografia del Comollo, morto in fresca età
durante il secondo anno di teologia; Don Bosco, scrivendola, vi
celò se stesso sotto l'appellativo impersonale di «intimo
amico».
La storia naturalmente deve fare le sue
riserve sull'abitudine dell'autore a rappresentare quest'«intimo
amico» sempre e solo a mezz'ombra e il Comollo in piena luce:
non mancano altrove notizie per appurar il vero; ma una
conclusione intanto ne balza fuori certissima, ed è che essi
erano proprio due anime in un nocciolo: segno evidente che li
affratellava intima conformità di spirito. Pares cum paribus.
Abbiamo fatto menzione delle vacanze. «Un
gran pericolo pei chierici, scrive Don Bosco, sogliono essere le
vacanze, tanto più in quel tempo che duravano quattro mesi e
mezzo». Egli si prefiggeva ogni volta di santificarle,
conservando integro il fervore del seminario. Tolto il primo
anno, in cui lo trascorse presso i Gesuiti a Montaldo, facendovi
da ripetitore di greco in una classe di convittori e da
assistente in una camerata, negli anni successivi il suo tenor
di vita durante le ferie, quale ci risulta da testimoni e
documenti autorevoli, si riassumeva in due parole: fuggire
l'ozio e attendere a pratiche divote.
Per non vivere in ozio divideva il tempo
fra lo studio, i lavori manuali, consigliatigli anche da bisogni
di salute, e le ripetizioni scolastiche. Da paesi vicini si
recavano presso di lui a gruppi o separatamente e in ore diverse
del giorno studenti, che desideravano esercitarsi un po’ più
nelle materie studiate o prepararsi bene ai loro nuovi corsi.
Egli vi si prestava di buon grado; ma ecco la testimonianza di
un professore che era stato del bel numero: «La prima lezione
era quella dell'amor di Dio e dell'obbedienza ai suoi
comandamenti, e non finiva mai la scuola senza esortarli alla
preghiera, al timor del Signore ed a fuggire il peccato e le
occasioni di peccare».
Quanto alle pratiche divote, nulla di
straordinario, secondo il suo costume, ma fedele osservanza di
quelle proprie della vita chiericale: meditazione, letture
spirituali, rosario, visita al Santissimo Sacramento, assistenza
quotidiana alla santa messa, frequente confessione,
frequentissima comunione. Si prestava poi volenteroso a servire
in qualsiasi funzione sacra. Tutte le domeniche faceva con zelo
ed efficacia il catechismo ai giovanetti in parrocchia. Ogni
volta che udisse la campana dare i tocchi del santo Viatico,
s'avviava prontamente alla chiesa, distante tre chilometri, si
metteva la cotta, prendeva l'ombrello e accompagnava il
Santissimo. Né si dispensava dall'assistere alle predicazioni
parrocchiali. Conscio infine dell'importanza inerente al buon
esempio, serbava dovunque e con chicchessia un contegno composto
e inappuntabile, talché i suoi conterrazzani l'avevano in
altissimo concetto.
L'assodarsi in lui dello spirito
ecclesiastico, che è interiore ed esteriore santità di vita,
emerge ancora da caratteristici episodi che ne infiorano la
biografia, ma che sarebbe fuor di luogo riferire qui anche per
sommi capi. Fa invece direttamente al nostro scopo prendere
conoscenza delle disposizioni spirituali, con cui andò
ricevendo gli Ordini sacri.
Pressoché al termine della sua carriera
mortale, parlando di quel punto decisivo che nella vita di un
ecclesiastico è il suddiaconato, egli ci palesa l'animo suo con
espressioni, in cui non sapremmo che cosa maggiormente ammirare,
o la sua estrema delicatezza di coscienza o la stima
profondissima che aveva dello stato sacerdotale, frutto l'una e
l'altra del suo vedere costantemente le cose in Dio «Ora che
conosco le virtù, scrive, che si richiedono per
quell'importantissimo passo, resto convinto che io non ero
abbastanza preparato; ma non avendo chi si prendesse cura
diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con Don Cafasso,
che mi disse di andare avanti e riposare sulla sua parola.
Nei dieci giorni di spirituali esercizi
tenuti nella Casa della Missione in Torino ho fatto la
confessione generale, affinché il confessore potesse avere
un'idea chiara della mia coscienza e darmi l'opportuno
consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al
pensiero di legarmi per tutta la vita; perciò non volli
prendere definitiva risoluzione, se non dopo aver avuto il pieno
consentimento del confessore. D'allora in poi mi sono dato il
massimo impegno di mettere in pratica il consiglio del teologo
Borel: - con la ritiratezza e la frequente comunione si conserva
e si perfeziona la vocazione -». Il buon sacerdote torinese
aveva risposto così a una domanda del chierico durante un corso
di esercizi spirituali da lui predicati nel seminario.
Concordano con queste espressioni anche le
notizie di cui andiamo debitori a un suo carissimo condiscepolo
e intimo amico, divenuto più tardi suo confessore fino al letto
di morte. Deponendo su gli esercizi spirituali fatti dal diacono
Bosco in preparazione al presbiterato, egli ne parla in questi
termini: «Li fece in modo edificante. Era compreso, in modo
straordinario, delle parole del Signore, che udiva nelle
prediche, e specialmente in quelle espressioni che indicavano la
grande dignità che avrebbe fra poco conseguita».
A ricordo perenne di quel sacro ritiro si
fissò in carta nove propositi, il penultimo dei quali diceva
così: «Ogni giorno darò qualche tempo alla meditazione e alla
lettura spirituale. Nel corso della giornata farò breve visita,
o almeno una preghiera al Santissimo Sacramento. Farò almeno un
quarto d'ora di preparazione e altro quarto d'ora di
ringraziamento alla santa messa».
Questo secondo programma di vita non
apporta nulla di sostanzialmente nuovo dopo l'altro già noto,
ma solo v'introduce modificazioni accidentali richieste dalle
circostanze. Gli è che Don Bosco non si mosse mai a tentoni,
come chi cammini al buio, neanche nei primi albori della
ragione. Se fosse lecita una piccola facezia, di quelle che
piacevano tanto a Don Bosco, diremmo che in lui non tardò come
in tanti altri a spuntare il dente del giudizio. Infatti, dacché
l'età gli accese nell'anima il primo barlume di ragione, tosto
egli scoprì quale fosse per lui la strada giusta e vi entrò
difilato, tirando avanti nei modi e con i mezzi, che di mano in
mano il suo buon discernimento naturale, avvalorato dalla divina
grazia, gl'indicava migliori. Entrambi perciò i programmi
poggiano, per dir così, sopra i quattro capisaldi, sui quali la
santità di Don Bosco si verrà erigendo: lavoro e preghiera,
mortificazione interna ed esterna, e poi, com'egli amerà
pudicamente esprimersi in seguito, la bella virtù.
Nel programma nuovo si delinea meglio la
parte dell'azione. Da sacerdote Don Bosco, stando a queste
risoluzioni, non farà mai passeggiate, se non per grave
necessità, per visite a malati e simili; occuperà
rigorosamente bene il tempo: «patire, fare, umiliarsi in tutto
e sempre, quando trattasi di salvare anime»; non darà al corpo
più di cinque ore di sonno ogni notte; lungo il giorno,
specialmente dopo il pranzo, non si concederà alcun riposo,
tranne in caso di malattia. Ma l'azione non sarà mai
scompagnata dall'orazione; come nel passato, così sempre la
meditazione avrà il suo posto nell'attività d'ogni giorno. Sì,
nella meditazione quotidiana, incontro d'ogni di con se stesso,
il sacerdote assediato dalle occupazioni attingerà lo spirito
di raccoglimento e di preghiera, di cui avrà stretto bisogno
per mantenere in sé viva la fede, per tenersi abitualmente
unito al Sacerdote Sommo Gesù Cristo, del quale è ministro, e
per riceverne copiose grazie nell'esercizio del sacro ministero.
Non mai dunque Marta senza Maria nella vita
sacerdotale di Don Bosco. Sarà ora Marta orante, ora Maria
operante: Marta in orazione finché durerà per lui il periodo
dell'attività più intensa, e Maria nell'azione, verso il
tramonto dei suoi giorni, quando quell'attività sarà ridotta
ai minimi termini; ma nell'un tempo e nell'altro, non fu mai
dimenticato da lui il sine intermissione orate.
CAPO IV. - Nei principi della sua missione.
I fisici, per istabilire quale sia la
costituzione sostanziale di un astro, usano un mirabile
procedimento. Fanno passare attraverso un prisma la luce che
irraggia dall'astro; il fascio dei raggi luminosi, attraverso il
prisma, si scompone, producendo una traccia allungata e
variamente colorata, che va a cadere su d'uno schermo bianco e
si chiama spettro. L'analisi delle tinte componenti lo spettro
permette allo scienziato di cogliere nel segno; a tanta immensità
di lontananza non c'è fino ad oggi altro mezzo per venirne a
capo.
In Don Bosco, anima piena di Dio, lo
spirito di preghiera non aveva manifestazioni tali che dessero
la percezione immediata della sua natura e intensità; per
conoscere il carattere e misurarne il grado è dunque necessario
sottoporre a diligente esame gli atti della sua vita ordinaria.
Pochi uomini furono così straordinari
sotto così ordinarie apparenze. Nelle cose grandi come nelle
piccole, sempre la medesima naturalezza, che di primo tratto non
rivelava in lui nulla più d'un buon prete.
Nei primordi, solo chi per consuetudine di
vita poteva aver agio d'osservarne l'abituale presenza a se
stesso in qualsiasi momento o incontro o accidente o intrapresa
e aveva insieme occhio acuto per discernere l'efficacia del suo
operare ovvero chi possedeva il difficile intuito che distingue
prontamente uomo da uomo, come fu del Papa Pio XI, concepiva di
Don Bosco tutta quanta l'ammirazione ch'ei si meritava. Qual
meraviglia perciò, se alcuni non lo compresero tosto e se altri
perfino lo fraintesero o lo intesero a rovescio? Pochi invero
questi ultimi, e sempre più rari con l'andar del tempo; ma vi
furono in realtà dei cotali.
Per restringerci al nostro assunto, diremo
che negli anni della sua massima attività non tutti s'avvidero
che uomo d'orazione fosse Don Bosco; anzi, oseremmo aggiungere
che non sempre neppur coloro che scrissero delle cose sue,
penetrarono a fondo il suo intimo spirito di preghiera,
solleciti di narrarne i fatti grandiosi. Per altro, il materiale
biografico a noi trasmesso si presta egregiamente alle indagini
di chi si accinga a scrutarne la vita interiore. È il
tentativo, nel quale modestamente insisteremo con queste pagine.
Spontanea espansione soprannaturale
dell'anima di Don Bosco appena fatto sacerdote fu l'oratorio
festivo. Non creò di sana pianta la cosa, non coniò di primo
getto il vocabolo. C'erano i catechismi domenicali ai giovani
delle singole parrocchie; esistevano oratori di san Filippo Neri
e di san Carlo Borromeo.
Don Bosco, quando per le condizioni dei
tempi tanti giovani non conoscevano più parrocchie, organizzò
oratori interparrocchiali, dove raccogliere le pecore randagie;
Don Bosco ai catechismi coordinò tutta una serie di pratiche,
le quali riempissero l'intero giorno del Signore. Dal suo grande
amor di Dio veniva a Don Bosco un sentimento vivissimo
dell'evangelico sinite parvulos, più che allora vedeva
prepararsi alla gioventù insidie da molte parti e in molti
modi; «la mia delizia, dic'egli descrivendo i primordi del suo
sacerdozio, era fare il catechismo ai fanciulli, trattenermi con
loro, parlare con loro». Sembrerebbe perfino che i fanciulli
medesimi sentissero istintivamente il fascino di quella
dilezione salvatrice; poiché, stabilito che ci fu a Torino, «subito,
scrive, mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano per
i viali e per le piazze». Sicché l'adunarne in gran numero gli
costò fatica assai minore che non l'avere dove raccoglierli.
Il suo zelo mira a un fine solo: unirli
tutti a Dio mediante l'obbedienza ai divini comandamenti e alle
leggi della Chiesa. Onde procurava anzitutto di ottenere che
osservassero il precetto di ascoltare la messa nei giorni
festivi; che imparassero poi e dicessero le orazioni del mattino
e della sera; che per ultimo fossero preparati a confessarsi e
comunicarsi bene. Frattanto avviava bel bello l'istruzione
religiosa per mezzo di catechismi e predicazioni che si
confacessero alla capacità loro.
Contemporaneamente inventava tutta una
varietà di trastulli, che agissero da calamite per aumentare il
numero e assicurare la frequenza; sebbene la calamita più
attraente fosse egli stesso con la sua inesauribile bontà. Così
il giorno festivo poteva dirsi in tutto il senso della parola
dies sanctificatus. E ottimamente si attagliava a questi
convegni festivi il nome di oratori prescelto fra diversi altri
da Don Bosco, perché appieno rispondente al suo ideale.
Il termine, divenuto popolarissimo in
Italia, aspetta ancora dai dizionari della lingua la
significazione nuova accanto alla vecchia di piccolo edifizio!
L'oratorio di Don Bosco è domus spiritualis, su de viventibus
saxis, sono centinaia di fanciulli, di giovinetti, di
adolescenti, affollantisi dovunque vi sia chi se li chiami
attorno nei giorni del Signore ad adorar Dio e ad imparare ad
adorarlo per tutta la vita.
E come la pietà di Don Bosco si effondeva
nel fare il suo Oratorio! Cominciò l'8 dicembre del 1841 con un
giovane solo. Ebbene, avanti d'impartirgli la prima lezioncina
di catechismo, si pose in ginocchio e disse un'Ave Maria alla
Madonna, perché lo aiutasse a salvare quell'anima. Commovente e
feconda preghiera! L'8 dicembre dell'85, tenendo conferenza ai
Cooperatori e paragonando il già fatto con lo stato delle cose
di quarantaquattro anni addietro, dichiarerà essere tutto opera
di Maria Ausiliatrice in grazia proprio di quell'Ave Maria «detta
con fervore e con retta intenzione». E realmente i primi
effetti non si fecero aspettare a lungo.
La domenica dopo, quell'uno tornò, e non
più solo, ma con un gruppetto di compagni, poveri ragazzi di
strada come lui, da Don Bosco accolti e intrattenuti con la sua
amabilità piena d'incanto. Da una settimana all'altra il numero
di catechizzandi cresceva, e col numero la docilità e
l'allegria non venivano meno.
Nella solennità del Natale parecchi già
fecero la santa comunione; poi, in due feste di Maria
Santissima, la Purificazione e l'Annunziata, bei cori di voci
giovanili, da lui abilmente addestrate, eseguirono canti in lode
dell'Augusta Madre di Dio, e bei drappelli dei più istruiti si
accostarono ai santi sacramenti. Don Bosco toccava proprio il
cielo col dito.
Queste prime rumorose adunanze si tenevano
in luogo di silenzio, se non claustrale, almeno solo rotto a
tempo debito e con moderazione, nel Convitto Ecclesiastico di
Torino, ove si dava l'ultima mano alla formazione ecclesiastica
di novelli sacerdoti piemontesi, mediante lo studio approfondito
della teologia orale e pastorale e l'esercizio del sacro
ministero, sotto la scorta di espertissime guide, fra cui
primeggiò il beato Giuseppe Cafasso.
Lo zelante apostolo della gioventù non
poteva trovar di meglio per allenarsi alla sua missione. I tre
anni ivi trascorsi contribuirono potentemente a formare lo
spirito in maniera definitiva. La grazia, che la Provvidenza gli
fece col metterlo vicino a quel santo plasmatore di anime
sacerdotali, non restò infruttifera.
Alla scuola del Beato egli succhiò
avidamente quella pietà, che per soprannaturale intuito egli
aveva già pregustata a dispetto dell'andazzo dei tempi, pietà
fatta di «confidenza illimitata nella bontà e amorevolezza di
Dio verso noi»; dalle sue conferenze teologiche e dalla sua
direzione spirituale apprese la maniera di ascoltare le
confessioni «con pietà, scienza e prudenza»; nelle sue
lezioni di eloquenza sacra si sentì ribadire, che in pulpito
non si va a dar prova di bravura, ma che «paradiso vuol essere,
osservanza dei divini comandamenti, preghiera, divozione alla
Madonna, frequenza dei santi sacramenti, fuga dell'ozio, dei
cattivi compagni, delle occasioni pericolose, carità col
prossimo, pazienza nelle afflizioni, e non terminare alcuna
predica senza un cenno sulle massime eterne».
Condivise al suo fianco l'assistenza
religiosa dei carcerati e partecipò con lui a corsi d'esercizi
spirituali, infervorandosi alla vista della sua pietà ardente
fra le opere di zelo. Anche nelle quotidiane conversazioni ne
beveva i saggi ammaestramenti sulla «maniera di vivere in
società, di trattare col mondo senza farsi schiavo del mondo, e
diventar veri sacerdoti forniti delle necessarie virtù,
ministri capaci di dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio
quello che è di Dio».
Ma a Dio non si sottrae solo per dare
indebitamente a Cesare. L'essere sempre in moto per far bene può,
a lungo andare, purtroppo illudere, lasciando supporre che il
prodigarsi a vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di
trattare assiduamente e interiormente con Dio.
È di questo tempo un codicillo,
chiamiamolo così, aggiunto da Don Bosco al suo noto programma
di vita sacerdotale e dettatogli molto probabilmente da quella
maestra di assennatezza che è, per chi la sa intendere,
l'esperienza. Lo riferiamo tale quale si legge in un suo
libretto; eccolo: «Breviario e confessione. Procurerò di
recitare divotamente il Breviario e recitarlo preferibilmente in
chiesa, affinché serva come di visita al Santissimo Sacramento.
Mi accosterò al sacramento della penitenza ogni otto giorni e
procurerò di praticare i proponimenti che ciascuna volta farò
in confessione. Quando sarò richiesto di ascoltare le
confessioni dei fedeli, se vi è premura, interromperò il santo
ufficio e farò anche più breve la preparazione ed il
ringraziamento della messa, a fine di prestarmi ad esercitare
questo sacro ministero».
Lo spirito di orazione, quando sia passato
in consuetudine, dà alla persona un'impronta di serena
compostezza e un vigile senso della giusta misura, che saltano
facilmente agli occhi di osservatori non troppo superficiali.
Era il caso di Don Bosco.
Al Convitto si recavano periodicamente dal
beato Cafasso per la loro direzione spirituale uomini d'affari,
pezzi grossi della politica e della nobiltà torinese,
personaggi del gran mondo insomma. Orbene da parte di quella
gente navigata Don Bosco richiamò sopra di sé l'attenzione a
tal segno, che lo riguardavano fin d'allora come «un uomo tutto
del Signore» e l'avevano «in grande venerazione», secondo che
lo storico di lui potè raccogliere direttamente dalle labbra
d'alcuni di quei signori.
CAPO V. - Nella seconda tappa della sua
missione.
In seminario Don Bosco aveva fatto una
conoscenza, che gli doveva riuscire preziosa: un teologo Borel
di Torino, venuto ivi a dettare gli esercizi spirituali. «Egli
apparve in sacrestia, scrive Don Bosco, con aria ilare, con
parole celianti, ma sempre condite con pensieri morali». Dicono
che la prima impressione sia la vera; può darsi che non sia
sempre così, tanto di soggettivo suol entrare in
un'impressione; ma quella fu ottima e verissima. Infatti si ebbe
la riprova. Il prete si rivela prete in iis, quae sunt ad Deum;
lì si discerne, se il prete è uomo di pietà o povero
abitudinario.
Il chierico Bosco, avendone osservato «la
preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il
fervore nella celebrazione», si accorse «subito» che era «degno
ministro di Dio». Notevole quel «subito», che ci fa pensare
all’intelligenti pauca. In cose di pietà, il chierico Bosco
era buon intenditore e capiva a volo. Quando poi lo udì
predicare, lo giudicò senza più «un santo»; volle quindi «conferire
con lui sulle cose dell'anima». Volle, dunque vi s'indusse di
sua spontanea volontà: e che cosa volle?
Volle non solo confessarsi, com'è uso, ma
conferire, che è avere colloqui intimi e importanti; e questi
versarono su cose dell'anima, vale a dire intorno ai bisogni
della vita spirituale.
Il ricordo di quegli esercizi rimase
profondamente scolpito nell'animo di Don Bosco; onde nei tre
anni del Convitto si stimava felice ogni volta che avesse
occasione di scambiare qualche parola con l'esemplare sacerdote,
il quale dal canto suo, conoscendolo bene, lo invitava
volentieri a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a
predicare insieme con lui: inviti non infrequenti, data la
proverbiale attività del suo zelo, gli metteva l'argento vivo
addosso, tanto da farlo chiamare presso i colleghi «il
bersagliere di santa Chiesa». Erano proprio due spiriti nati
fatti per intendersi.
Don Bosco dunque aveva già familiarità e
con la persona del teologo e con il luogo della sua dimora,
quando si ventilò la proposta ch'egli passasse a prendere
stanza presso di lui. Questo fu allo spirare del triennale
soggiorno nel Convitto ecclesiastico. L'idea o meglio
l'ispirazione venne a quell'altra anima santa del Cafasso,
risoluto d'impedire che Don Bosco andasse via da Torino.
Il teologo abitava al così detto Rifugio,
sotto il qual nome i Torinesi designavano sommariamente tutto un
complesso di benefici istituti fondati dalla regale generosità
d'una munifica dama, la Marchesa di Barolo; colà egli faceva da
rettore e da direttore spirituale.
Con pia docilità di figlio verso il padre
dell'anima sua, Don Bosco, ravvisando nel consiglio di Don
Cafasso la pura e semplice manifestazione del divino volere,
gettate dietro le spalle altre considerazioni che gli si
affacciavano alla mente, trasferì al Rifugio il quartier
generale dell'Oratorio che s'incamminava a diventare
un'istituzione.
Quartiere generale sembrerà parola un po'
grossa, se la si applica all'angusto quartierino assegnatogli
per sua abitazione; non così se si pensi che ivi resiedette per
tre anni il comando supremo di un bell'esercito giovanile. A
compimento dell'immaginazione marziale diremo ancora che il suo
stato maggiore era costituito dalla carità, cui facevano corona
le virtù poste al suo seguito da san Paolo nel celebre capo
tredicesimo della prima lettera ai Cristiani di Corinto.
Continue soprattutto gli spuntavano fra i
piedi le occasioni di rammentare a se stesso, che caritas
patiens est. I suoi
da trecento a quattrocento monelli urtarono i nervi alla Matrona
del Rifugio, che un bel giorno, stanca di sopportare, lo
costrinse a metterli alla porta, e da ultimo si rassegnò con
rammarico a privarsi definitivamente dell'utilissima opera sua,
vedendolo sempre fermo in non voler abbandonare l'impresa;
urtarono l'amore del quieto vivere o le pretensioni esorbitanti
di cittadini domiciliati nei pressi delle località, dove
successivamente egli diede convegno alla sua turba domenicale;
urtarono le ombrose suscettibilità di autorità civili e
politiche, le quali, tenendo bordone a privati, lo sfrattavano
ora da un luogo ora dall'altro o lo invigilavano quasi fosse
persona pericolosa all'ordine sociale; urtarono secolari
consuetudini parrocchiali, destando preoccupazioni sulle
conseguenze che sarebbero potute nascere da tali non mai viste
novità; urtarono infine il maltalento di gente che aveva
interessi più o meno confessabili a gettargli bastoni fra le
ruote, massime allorché, respinto da ogni parte, si ridusse a
tenere le sue adunanze in un gran prato, che era a un bel tiro
fuor dell'abitato.
Impensierito ma non abbattuto, afflitto ma
irremovibile, opponeva a sempre rinascenti ostilità
quell'eroica fortezza d'animo che è dono dello Spirito Santo.
Una fortezza di si eccelsa origine fa che l'uomo sia pronto a
tutto, intrepido contro tutti e scevro di ogni ostentazione,
come si vedeva per l'appunto in Don Bosco. Oh, non era certo una
delizia, umanamente parlando, trascorrere le domeniche intere
fra tanti ragazzi rozzi, chiassosi, rissosi, talora sconoscenti
e villani; non era una delizia nemmeno istruire, com'egli
faceva, giovinastri ottusi o caparbi o svogliati. Oggi anche
ragazzi d'infima condizione nei dì festivi ti compaiono davanti
lindi e puliti, che paiono signorini; ma allora quanta
ragazzaglia analfabeta e scapigliata scorazzava per vie e piazze
nei sobborghi della capitale piemontese! Si sarebbe dovuto
ammirare e favorire Don Bosco, o almeno lasciarlo in pace fra i
suoi birichini, di cui amava proclamarsi il capo; ma le opere di
Dio sorgono e crescono bersagliate da nemici e da amici. Egli
soffriva calmo, levando gli occhi al cielo, donde aspettava
aiuto e conforto; già allora, quanto s'incontrasse di più
arduo e ripugnante alla natura, sembrava in lui facile e soave.
La fortezza dei Santi è d'altra tempra che
quella stoica, dura e inflessibile: i Santi, fidenti nel
concorso soprannaturale della grazia, pregano, pazientano e
vincono. La fortezza filosofica si esaurisce nell'egoistica
soddisfazione dell'amor proprio, da cui piglia ispirazione e
norma; la cristiana aguzza l'ingegno a escogitare sempre nuove
vie, umili talora e umilianti, pur di raggiungere la meta
vagheggiata, senz'altra ambizione che di promuovere gl'interessi
della gloria divina e procurare il bene del prossimo.
Oratoriani della prima ora, che non si
staccarono più da Don Bosco, ma vissero sempre o con lui o non
lungi da lui, accanto al ricordo di quegli anni eroici serbarono
viva in cuore la sua immagine veramente paterna, cioè cara e
buona, cara perché buona, ma buona di quella bontà che il
giovane del Vangelo lesse in volto a Gesù, quando gli chiese:
Maestro buono, che cosa farò io per acquistare la vita eterna?
un uomo così complesso e completo come Don Bosco la bontà non
aveva nulla di certa sensibilità che degenera facilmente in
debolezza; la bontà di Don Bosco, illuminata da intelligenza e
da fede e infiammata nell'abituale contatto con Dio, si
traduceva in soprannaturale benevolenza, uguale con tutti, e per
tutti elevante.
Ecco perché in mezzo alle fortunose
vicende, di cui quei primi allora intravidero appena e solo più
tardi compresero la ripercussione dolorosa sull'animo suo, lo
scorgevano costantemente tranquillo e sereno farsi tutto a tutti
nell'espansione di un affetto operativo e spiritualissimo. Così
egli rubava i cuori dei giovani, che, dovunque si recasse a
confessare, non volevano più sapere d'alcun altro, facendogli
ressa intorno ilari e confidenti. Ecco perché, contesogli un
palmo di suolo entro le mura e spinto a trasferire l'Oratorio in
aperta campagna, vedeva i giovinetti, anche durante gl'inverni
torinesi, seguirlo con tanta fedeltà, che, portando seco il
mangiare, stavano con lui fino al tramonto. Quei primi, fatti
adulti, rivedendolo nel pensiero quale l'avevano visto allora
nella realtà, esclamavano: - Era in mezzo a noi un angelo!
Questo giudizio ci richiama al protomartire
santo Stefano, del quale, tempestato di accuse, narrano gli Atti
che nel tribunale gli astanti vedevano il suo volto come volto
d'angelo, tanta era la calma dignitosa che vi traspariva,
essendo il suo spirito pieno di grazia e di fortezza.
La prodigiosa condotta di Don Bosco in
mezzo a tante traversie non aveva altra origine. Lo sanno i
Santuari suburbani della Vergine, dov'egli guidava in
pellegrinaggio le nomadi schiere a impetrare con la preghiera e
i sacramenti le benedizioni celesti; lo sa il Santuario della
Consolata, la cui taumaturga immagine ascoltò le tante volte
lui e i suoi figli, irradiandolo di superni incoraggiamenti; lo
sapevano il teologo Borel e altri degni ecclesiastici, testimoni
del religioso fervore trasfuso dallo zelante apostolo nelle
mobili anime giovanili; lo seppero anche certi giovinetti più
inclini a pietà e perciò da lui tratti in disparte e uniti più
strettamente a sé nella preghiera e guidati per la via di una
maggiore perfezione.
Sono fatti che bisogna rievocare, se si
vogliono intendere a pieno queste parole delle sue
"Memorie": «Era meraviglia il modo, col quale si
lasciava comandare una moltitudine poco prima a me sconosciuta,
della quale in gran parte poteva dirsi con verità che era sicut
equus et mulus, quibus non est intelectus.
Devesi aggiungere che in mezzo a quella
grande ignoranza ammirai sempre un gran rispetto per le cose di
Chiesa, pei sacri ministri, ed un gran trasporto per imparare i
dogmi e i precetti della religione». Per cavallini matti e per
muletti bizzarri non c'era male davvero! Ma il domatore o
dominatore loro possedeva per tutti in copia quel dono
dell'intelletto, che prima ad essi mancava e che poi in essi
veniva penetrando. Ora ci spieghiamo più facilmente come il
beato Cafasso ribattendo le recriminazioni che si portavano
dinanzi a lui contro Don Bosco, finisse invariabilmente col
ritornello: - Lasciatelo fare! Lasciatelo fare!
Ma la domenica era un giorno solo della
settimana; e gli altri sei? Non si creda che il vero Oratorio
festivo importi occupazioni soltanto domenicali; l'Oratorio,
quale Don Bosco l'ha concepito, è sede di un'autorità paterna,
che, cattivandosi l'animo dei fanciulli, dappertutto li segue e
direttamente interviene presso parenti, padroni, maestri,
dovunque sia possibile esercitare un salutevole influsso sulla
loro condotta. Poi per Don Bosco c'erano istituti religiosi,
collegi, scuole pubbliche e private, carceri, ospedali, scuole
serali, prediche, studi, pubblicazioni, oltre il Rifugio: un
campo di lavoro quotidiano che non aveva confini.
Tanta attività lo metteva naturalmente in
rapporto con ogni ceto di persone, molte delle quali, bisognose
dell'opera sua o della sua parola, gli davano quasi la caccia,
dov'egli si recava a celebrare il divin sacrificio. Prova ne sia
anche un proponimento scritto da lui appunto nel 45; lo
riferiamo qui, non per usurparne il compito ai biografi, ma
perché giova al nostro scopo. Dice: «Siccome giunto in
sacrestia per lo più mi si fanno tosto richieste di parlare per
aver consiglio o di ascoltare in confessione, così prima
d'uscire di camera procurerò che sia fatta una breve
preparazione alla santa messa».
Notizia preziosa e significativa, la quale,
mentre con quel «breve» esclude qualsiasi scrupolo di
coscienza, col resto ci rivela come Don Bosco, anziché
rifugiarsi dietro il comodo paravento del lasciar il Signore per
il Signore, preferisce piamente anticipare la debita
preparazione.
Appartengono pure a questo tempo certi
cartoncini, usati da lui per quarant'anni come segnacoli del
breviario, autografi parlanti dei pensieri che voleva a sé
familiari. Undici sentenze bibliche gli richiamavano alla mente
la Provvidenza divina, la fiducia in Dio, la fuga delle
occasioni, il distacco dai beni della terra, l'allegrezza della
buona coscienza, la liberalità del Signore coi generosi, il
riflettere prima di parlare, il divin tribunale, l'amore dei
poveri, l'onore dovuto ai superiori, l'oblio delle offese.
Cinque massime patristiche gli ricordavano
il frequente esame della coscienza, l'adesione umile e intera
agl'insegnamenti della Chiesa, la gelosa custodia dei segreti,
l'efficacia del buon esempio, lo zelo per le anime altrui e per
la propria. Tre citazioni dantesche, tratte dalla fine delle
singole cantiche, lo sollevavano alle «stelle», ossia alla
considerazione del paradiso. Venivano ultimi quattro versi di
Silvio Pellico, meritevoli di essere riferiti, non perché siano
peregrini, ma perché ci sembra che stessero li ad ammonire,
quale politica dovesse avere per sua l'uomo di Dio in un periodo
di si roventi passioni pubbliche: la politica cioè dell'Italia
una nella fede, speranza e carità:
Ad
ogni alta virtù l'Italo creda,
Ogni
grazia da Dio lo Stato speri,
E
credendo e sperando ami e proceda
Alla
conquista degli eterni veri.
Il Pellico e Don Bosco si conoscevano molto
bene. Per Don Bosco il poeta aveva composta la notissima lode
che comincia: Angioletto del mio Dio, nutriva per lui sincera
stima. Essendo segretario della Marchesa di Barolo, gli toccò
certamente di minutare la lettera, con cui la nobile signora
comunicava al rettore del Rifugio le sue decisioni sul conto di
Don Bosco, ripetendo in termini diplomatici il brusco aut aut già
intimato a lui stesso senza mezzi termini oralmente: o lasciare
l'Oratorio o lasciare il Rifugio.
La lunga lettera, recante la firma
dell'aristocratica gentildonna, ma redatta nell'amabile stile
del segretario, ci è carissima per via di questo periodetto,
che ne costituisce il punto più luminoso: « [Don Bosco]
piacque anche a me dal primo momento e gli trovai quell'aria di
raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante». Lo
scrittore vestì di forma eletta l'altrui giudizio, che
rispondeva sicuramente anche al suo.
CAPO VI. - Nella sede stabile della sua
missione.
Oggi, dir Oratori è menzionare
un'istituzione tanto comune in Italia da sembrare che sia stata
sempre così, né si sente il bisogno di cercare a chi se ne
debba saper grado; ma il nome di Don Bosco va inscindibilmente
congiunto con un Oratorio, con l'Oratorio per eccellenza,
l'Oratorio di Valdocco.
Non senza misteriosi disegni provvidenziali
è avvenuto che il centro propulsore delle opere di Don Bosco
portasse un nome consacrato dall'uso a indicare luogo di
orazione. Un luogo si denomina da ciò che ivi si fa di
principale; se dunque un luogo di tanta azione si chiama luogo
di orazione, questo vorrà dire che nelle opere di Don Bosco
prima ci dev'essere l'orazione e poi l'azione. Ce lo confermano
perentoriamente le parole stesse di Don Bosco.
Non mancarono infatti sul principio persone
ben intenzionate, le quali trovarono a ridire circa l'opportunità
di tante funzioni sacre e di tante pratiche divote, quante se
n'erano ivi introdotte; ma Don Bosco a tutti chiudeva la bocca,
rispondendo sempre a un modo: - Diedi il nome di Oratorio a
questa casa per indicare chiaramente, come la preghiera sia la
sola potenza, su cui dobbiamo fare assegnamento.
E la pietà nell'Oratorio si respirava con
l'aria; la pietà si leggeva in volto ai giovani; la pietà
pulsava in tutti e in tutto. Questo per altro non fa parte del
nostro disegno; vi abbiamo accennato solo per dire che li era il
riflesso dell'anima sacerdotale di Don Bosco. Un sacerdote, che
abbia grande spirito d'iniziativa, ma che non possegga in pari
grado lo spirito di preghiera, potrà benissimo nella Chiesa
organizzare de limo terrae, non certo infondere spiraculum
vitae; che se da altri non si rimedi al difetto, organizzazioni
simili non saranno vitali.
Per Don Bosco, Dio era il principio e il
fine di tutto. L'incalzarsi delle occupazioni non gli lasciava
libere lunghe ore da dedicare alla preghiera; la madre però,
che dormiva in una stanza attigua alla sua argomentava da buoni
indizi, ch'ei vegliasse pregando una parte della notte.
Sull'ingresso della sua cameretta un cartone stampato lo
invitava a dire Sia lodato Gesù Cristo; dentro , un altro
cartone della parete gli rimembrava che Una cosa sola è
necessaria, salvar l'anima; un terzo gli rinfrescava il ricordo
del motto caro a san Francesco di Sales e preso per sé nei
primordi del sacerdozio: Da mihi animas, cetera tolle.
Aspirazioni, esprimenti desiderio della
propria salvezza eterna e augurio di salvezza per tutti, gli
erano abituali. Che dire di quelle frequenti manifestazioni
d'intima pietà religiosa, che erano il rispetto, l'amore e la
stima per ogni atto di culto, per ogni pratica divota,
approvata, promossa, raccomandata dalla Chiesa? Tali, ad
esempio, l'uso dei sacramentali, l'assistenza alle funzioni
ecclesiastiche, la recita del rosario in comune, l'aggregarsi a
pii sodalizi, l'Angelus, la benedizione della mensa, la Via
Crucis. Quanta divozione nutriva per i misteri della passione e
morte di Gesù! Ne meditava con sì vivo affetto i dolori, che,
discorrendone, s'inteneriva, gli morivano le parole in bocca e
muoveva gli uditori al pianto.
Riguardo ai pii sodalizi, non è da tacere
che poco dopo aver stabilita la sua dimora in Valdocco, si
ascrisse al terz'ordine francescano, vestendone l'abito e
facendone noviziato e professione. Del resto, ch'ei fosse
sacerdote esemplarmente pio, saltava agli occhi di chiunque lo
osservasse, allorché pregava ad alta voce, pronunciando le
parole con una specie di vibrazione armoniosa, che dava a
conoscere il fervore della sua carità. Perciò l'umile poeta
che nel 46 compose per musica alcune strofette in suo onore,
onde celebrarne il ritorno da non breve convalescenza, si rese
interprete del sentimento unanime, inneggiando al giorno che
aveva ricondotto all'Oratorio «l'uomo saggio, l'uomo pio,
l'uomo adorno di virtù».
A questo coro di voci contemporanee fanno
eco deposizioni assai posteriori, ma rese da testimoni oculari e
degnissimi di fede. Correvano allora per Don Bosco anni di
grandi rompicapi: mandar avanti l'Oratorio festivo di settecento
ragazzi; erigerne e dirigerne due nuovi in Torino; creare e
avviare l'ospizio; aprir le porte a poveri chierici sbandati per
la violenta chiusura dei seminari, riempiendo oltre il credibile
la non ampia casa; risolvere il problema del pane quotidiano;
gettare le basi della futura Congregazione; fra gli
sconvolgimenti pubblici che davano immenso filo da torcere alle
autorità ecclesiastiche, condividere per alto spirito
evangelico le ansie del suo Pastore, fatto segno a fiere
contraddizioni: tutto questo indurrebbe a supporre che da mane a
sera Don Bosco fosse in orgasmo e la sua testa somigliasse a una
caldaia sotto pressione.
Niente di più lontano dal vero. Un
venerando sacerdote, che lo vedeva da presso, ci dice che nella
fisionomia di lui traspariva così evidente il pensiero della
presenza di Dio, da sentirsi correre alla mente, osservandolo,
quelle parole dell'Apostolo: Nostra conversatio in caelis est.
Dappertutto , anche a mensa e in camera, lo trovava composto
negli atti, raccolto negli sguardi e chino il capo, come chi
stia al cospetto di un gran personaggio o dinanzi al Santissimo
Sacramento. Per via poi lo scorgeva andare tutto concentrato, ma
in guisa da mostrare chiaramente che stava assorto nel pensiero
di Dio. Il medesimo ci fa sapere che taluno a volte lo
richiedeva di consigli spirituali in momenti, in cui sembrava
distratto da affari di tutt'altro genere, e che rispondeva
sempre da uomo che viva immerso nella meditazione delle cose
eterne.
Un secondo teste, vissuto sotto la
direzione di Don Bosco nei primissimi tempi dell'Oratorio,
tenendo gli occhi su di lui mentre si dicevano le orazioni in
comune, notava con che gusto proferisse le parole Padre nostro
che sei ne' cieli, ne distingueva la voce nel concerto generale
per un suono indefinibile, che moveva a tenerezza chi l'udiva.
Benché poi nulla si ravvisasse di straordinario nel suo
atteggiamento, pure al teste non isfuggì, che in sagrestia o in
chiesa egli aveva l'abitudine di non appoggiare i gomiti, ma
accostava soltanto l'avambraccio all'orlo del banco o
dell'inginocchiatoio, tenendo le mani giunte o reggendo un libro
sulle palme. Nemmeno quel celebre moralista che fu monsignor
Bertagna potè mai dimenticare il contegno di lui nella
preghiera, sicché, volendone dare un'idea giusta in poche
parole, si esprimeva col dire, che Don Bosco, pregando «aveva
dell'angelo».
Non faremo punto sull'argomento
dell'aspetto esteriore di Don Bosco, senz'aggiungere, a rincalzo
del fin qui detto, qualche altra osservazione, non inutile alla
comprensione completa del suo spirito di preghiera. Scrittori e
disegnatori giocano a volte un po' troppo all'infantilità
intorno alla figura esterna dei Servi di Dio; c'è cui piace un
Don Bosco, diremmo così, giulebbato. Noi che l'abbiamo visto,
non consentiremo mai a un Don Bosco di maniera; tanto meno
ritroveremo il vero Don Bosco sotto cotali sembianze.
Un uomo superiore che sia insieme un gran
santo, conosce il sorriso, non però quello perenne o
insignificante o meramente istintivo, ma un sorriso voluto e
irradiato di pensiero: un sorriso diretto a un fine, e
rientrante, non appena il fine sia raggiunto. Nel Santo la
benignità soave e amabile non si scompagna da tranquilla e
serena dignità: doppio elemento, questa benignità e questa
dignità, che forma un visibile contrassegno e quasi suggello
della presenza del Creatore nella creatura. Quindi la vista di
un Santo, nell'atto che ispira confidenza, eleva e fa pensare.
Nota: Che i mistici non ridano, crediamo
sia cosa incontestabile. L'impressione che ricevono nei loro
contatti con Dio, non si dilegua dal loro spirito, ma li tiene
avvinti al pensiero della divina presenza. Quando poi sorridono
al prossimo, quel sorriso, che non ha fremiti, non altera la
compostezza dei lineamenti prodotta in essi dall'abituale
raccoglimento interiore. Mentre rivedevo queste bozze per la
prima edizione raccolsi dalla bocca di Don Francesia le parole
seguenti: - Don Bosco infondeva l'allegria negli altri; ma egli
per sé tendeva a portare il volto atteggiato come si vede nelle
persone meste. Il salesiano Don Vismara diceva con felice
espressione che il sorriso di Don Bosco si vedeva, non si
sentiva. Fine nota.
Riguardo a Don Bosco, si parla anche, è
vero, di bonomia, giammai però di debolezza; e poiché questa
suol essere sorella germana di quella, bisognerà inferirne che
la bonomia di Don Bosco va intesa senza ricorrere al dizionario;
chiamiamola semplicità evangelica, la semplicità dell'est est
non non, condita sì di bontà, ma spirante fermezza, e l'avremo
imbroccata. L'uomo insomma che comunica interiormente con Dio,
impronterà sempre di gravità pacata lineamenti e
atteggiamenti. Tale si figura Don Bosco chiunque lo studi
attraverso le genuine manifestazioni della sua personalità.
Analogo al portamento era in lui il
parlare. Conversava con calma, adagio, aborrendo da discorsi
profani, da modi troppo vivaci, da espressioni risentite e
concitate e dando importanza a ogni parola. Scrive chi visse
lunghi anni nella famiglia, anzi nella familiarità dell'uomo di
Dio: «Spesso dicevamo fra noi: - Come fa piacere andar vicino a
Don Bosco! se gli parli un istante, tu ti senti pieno di fervore
-».
Ma abbiamo un'altra testimonianza del
massimo valore. Ci viene dal Servo di Dio Don Michele Rua, il
quale parla così nei processi: «Ho vissuto al fianco di Don
Bosco per trentasette anni. Mi faceva più impressione osservare
Don Bosco nelle sue azioni, anche più minute, che leggere e
meditare qualsiasi libro divoto».
A chi ha la pazienza di leggere non sia
discaro che si divaghi un tantino, ma non senza perché. Voglio
riportare una rilevante citazione, donde appaia quanto sia
legittimo e sicuro il metodo di rifarci da un certo esteriore di
Don Bosco per giudicare di un determinato suo interno. Del
resto, se per Don Bosco vi fosse un'altra via più diretta, chi
non la infilerebbe volentieri? Parli dunque san Vincenzo de'
Paoli. In uno di quei mirabili sermoncini che rivolgeva a
Missionari, egli osserva: «Quand'anche voi non diceste una
parola, se siete tutti immersi in Dio, toccherete i cuori con la
sola vostra presenza. I Servi di Dio hanno apparenze che li
distinguono dagli uomini carnali. È un certo atteggiamento
esterno umile, raccolto e divoto, che opera sull'anima di chi li
mira. Vi sono qui persone così piene di Dio, che io non le
guardo mai senza restarne colpito. I pittori nelle immagini dei
Santi ce li rappresentano cinti di raggi: sta di fatto che i
giusti, i quali vivono santamente sulla terra, spandono al di
fuori una certa luce tutta loro propria». Anche l'insigne
biografo di san Bonaventura, dopo aver detto che «ci mancano
notizie per conoscere il suo progresso nella preghiera e il dono
sublime della contemplazione», passa a considerare «i frutti
della sua vita interna e della sua continua unione con Dio» e
tra l'altro nota che «essa imprimeva nel suo sembiante quella
pace ineffabile, quella grazia beata che rapiva chiunque lo
riguardava»; a conferma di che allega la testimonianza di un
contemporaneo, il quale a proposito del concilio di Lione, dove
il Santo mandò gli ultimi raggi della sua serafica luce,
scrisse: «Il Signore gli dette questa grazia, che tutti coloro
che lo miravano, gli erano cordialmente affezionati». Basta
mutare il nome, e si ha qui tutto Don Bosco.
Il Santo degli esercizi spirituali per
ordinandi e per ordinati è venuto in buon punto a ricordarci
quanto Don Bosco fosse alto estimatore della grande pratica
ignaziana. Don Bosco amò gli esercizi spirituali: li amò per
gli altri, li amò per se stesso. Precursore anche in questo,
inaugurò nel 47 i ritiri chiusi per giovani operai; a suo tempo
introdusse nei collegi salesiani la consuetudine di fare per
pasqua un corso di esercizi, ben preparati, ben predicati, e
finiti in santa allegria; nella sua Congregazione poi, non
occorre dirlo, non fu da meno di altri fondatori. Ne era caldo
promotore, ma insieme li faceva per proprio conto.
Finché le circostanze non glielo
vietarono, saliva ogni anno al romito santuario alpino di
Sant'Ignazio sopra Lanzo Torinese, dove nella solitudine e nella
pace dei monti confortava lo spirito con la preghiera e la
meditazione delle verità eterne. In un foglietto,
diligentemente da lui conservato, leggiamo non senza emozione i
«proponimenti fatti negli esercizi spirituali del 1847». Sono
questi:
Ogni
giorno: Visita al SS. Sacramento.
Ogni
settimana: Una mortificazione e confessione.
Ogni
mese: Leggere le preghiere della buona morte.
Domine,
da quod iubes, et iube quod vis.
Il
sacerdote è il turibolo, della divinità (Teodoto).
È
soldato di Cristo (S. Giov. Cris).
L'orazione
al sacerdote è come l'acqua al pesce, l'aria all'uccello, la
fonte al cervo.
Chi
prega, è come colui che va dal Re.
Abbiamo veduto già per la terza volta
proponimenti di Don Bosco riferentisi alla vita di preghiera,
pur non ignorando che dal dire al fare c'è di mezzo il mare.
Bisogna però tenere nel debito conto il carattere di Don Bosco.
Don Bosco non era un cerebrale, non era un emotivo: era un
volitivo, dalle idee chiare e dagli affetti puri. Simili
temperamenti, fermi e tenaci, quando vogliono, vogliono. Non così
gli speculativi, le cui risoluzioni rimangono facilmente campate
in aria; non così i passionali, che risolvono, risolvono, non
finiscono mai di risolvere, perché alle impressioni sono mobili
come piume al vento. Don Bosco ebbe volontà ferrea.
Qui piuttosto affiora un problema d'altro
genere. Ammessa la padronanza di sé che è propria dei
volitivi, come si spiega il fatto che Don Bosco non di rado si
vedeva piangere? Piangeva ora celebrando la messa, ora
distribuendo la comunione, ora semplicemente benedicendo il
popolo dopo il divin sacrificio; piangeva nel parlare ai giovani
dopo le orazioni della sera, nel tener conferenza a' suoi
aiutanti e nel dare i ricordi degli esercizi spirituali;
piangeva accennando al peccato, allo scandalo, alla modestia, o
toccando delle ingratitudini umane verso l'amore di Gesù Cristo
per noi o esprimendo timori circa la salute eterna di alcuno.
Dice un testimonio, a proposito delle
baldorie carnevalesche: «In compenso di tanti disordini ci
esortava a ricevere la santissima Eucaristia e a fare ore di
adorazione innanzi al Tabernacolo; e mentre parlava, pensando
agl'insulti che riceveva Gesù Sacramentato, specialmente in
quei giorni, piangeva e faceva piangere anche noi».
Dice un altro testimonio di prim'ordine, il
cardinal Cagliero: «Mentre Don Bosco predicava sull'amor di
Dio, sulla perdita delle anime, sulla passione di Gesù Cristo
nel venerdì santo, sulla santissima Eucaristia, sulla buona
morte e sulla speranza del paradiso, lo vidi io più volte, e lo
videro i miei compagni, versare lagrime ora di amore, ora di
dolore, ora di gioia; e di santo trasporto, quando parlava della
Vergine Santissima, della sua bontà e della sua immacolata
purità». La stessa cosa gli accadeva anche nelle chiese
pubbliche. Un testimonio lo vide prorompere in pianto nel
santuario della Consolata, mentre faceva la predica del giudizio
universale, descrivendo la separazione dei reprobi dagli eletti;
un secondo testimonio lo osservò più volte lagrimare
specialmente quanto trattava della vita eterna, sicché moveva a
compunzione peccatori ostinati, i quali dopo la predica
cercavano di lui per confessarsi.
Il coscienzioso suo biografo finalmente
scrive: «Noi stessi che stendiamo queste pagine fummo testimoni
con mille altri di questo dono divino, che a Don Bosco fu dato,
fin da quando fondava l'Oratorio e anche prima; e durò fino
alla sua morte». Ora la questione sarebbe se qui si tratti
realmente di mistico dono e in caso affermativo, se esso ci dia
il diritto di asserire che Don Bosco godesse della grazia di
un'orazione passiva. Ritorneremo a miglior agio sull'argomento;
per intanto restringiamoci a notare che nelle circostanze
enumerate le lacrime di Don Bosco erano prova della sua grande
unione con Dio; e poiché unione con Dio è orazione, si vede
che alto spirito di orazione dovette animare Don Bosco in mezzo
all'intensità crescente della sua azione.
Nell'ascetica di Don Bosco un parte
preponderante spetta all'Eucaristia, amore di tutta la sua vita
e oggetto perenne del suo zelo sacerdotale. Quindi fu giorno di
somma allegrezza per lui, quando ottenne che il Re del Cielo
prendesse stanza nel suo Oratorio. Sì segnalata grazia egli
ricevette nel 52, dopo l'erezione della chiesa dedicata a san
Francesco di Sales; dal qual tempo il sacro edificio diventò il
centro delle sue affezioni. Non si può descrivere con qual
giubilo ne diede agli alunni la lieta notizia. In seguito, ogni
volta che gli restava un po' di respiro, andava là ad adorare
il divin Salvatore, standovi in atteggiamento più di serafino
che d'uomo.
A tutte le cose poi che riguardassero ivi
il culto divino, annetteva sempre la massima importanza: sempre
sollecito a esigere nettezza e ordine nei vasi sacri e nelle
sacre paramenta; sempre attento, perché dì e notte vi ardesse
la lampada; sempre da capo a raccomandare che si riflettesse
bene da tutti chi fosse Colui che degnavasi abitare in quel
tabernacolo; amava perfino di torre con le proprie mani i
ragnateli, spolverar l'altare, scopare il pavimento, lavare la
predella. Niente gli sfuggiva di quanto fosse necessario al
decoro delle sacre funzioni; nelle maggiori solennità non
voleva musici profani, perché, non essendo avvezzi a stare come
si deve nella casa di Dio, perdevano il rispetto alla presenza
reale di Gesù. Il suo biografo, ottimo testimonio, scrive che
in chiesa la fede e la carità verso la reale presenza del divin
Salvatore gli si riverberavano sul viso.
Se tale l'orante, quale sarà stato il
celebrante? Celebrava composto, concentrato, divoto, esatto;
proferiva le parole con chiarezza e unzione; gustava
visibilmente di distribuire le sacre specie, mal riuscendo a
celare il fervore dello spirito. Nulla però di affettato o che
desse nell'occhio: ma né lento né celere, procedeva dal
principio alla fine con calma e naturalezza in tutti i
movimenti. I fedeli che non lo conoscessero, ne restavano tosto
edificati; altri, saputo dove avrebbe celebrato, accorrevano
alla sua messa; famiglie, aventi il privilegio dell'oratorio
domestico, se lo disputavano per accogliervelo a celebrare.
Quante volte tornò a inginocchiarsi
davanti all'altare della sua prima messa nella chiesa di san
Francesco d'Assisi, presso il Convitto Ecclesiastico,
rinnovandosi i proponimenti di quel caro giorno! Si conserva
ancor la copia delle Rubricae missalis, ch'ei portava
abitualmente seco, logora per lungo uso; anzi di quando in
quando pregava suoi confidenti che lo osservassero nel
celebrare, e vedessero bene, se mai cadesse in difetti. Al
mattino, recandosi dalla camera in chiesa, se incontrava alcuno
che lo salutasse e gli baciasse la mano, rispondeva con un
sorriso, ma senza dir verbo, tutto assorto nel pensiero della
prossima celebrazione. Dovendo viaggiare, pur di non omettere il
divin sacrificio, o abbreviava il riposo, celebrando anche per
tempissimo, o si sobbarcava a non lievi incomodi, celebrando a
ora anche molto tarda. Così lo videro all'altare i Salesiani
della prima generazione, così lo vedevamo noi, ultimi venuti.
Il cuore di Don Bosco, formatosi alla vita
spirituale nel precoce e costante amore della santa Eucaristia,
era naturalmente portato o meglio provvidenzialmente preparato a
darci in lui sacerdote l'apostolo della comunione frequente. Di
quanta luce risplende in questa santa missione il suo serafico
zelo!
Ombre giansenistiche aduggiavano ancora il
forte Piemonte. Nel Convitto Ecclesiastico si apprestavano bensì
le sane dottrine morali, miranti a fugarle dalle menti degli
uomini di chiesa; ma il campo del padrone evangelico avrebbe
continuato a intristire chi sa fino a quando senza il possente
soffio dell'esempio venuto da Don Bosco. Egli agiva, non apriva
polemiche. Personalmente l'aveva risolta da un pezzo la
questione della frequenza; onde si affacciava al sacro ministero
con idee nette su tale materia.
Ci fa oggi qualche impressione il rileggere
questo tratto delle sue "Memorie": «Sul principio del
secondo anno di filosofia, andato un giorno a far visita al
Santissimo Sacramento e non avendo il libro di preghiera, mi
feci a leggere De imitatione Christi: lessi alcuni capi intorno
al Santissimo Sacramento». Tocco dalla «sublimità dei
pensieri» e dal «modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed
eloquente, con cui si esponevano quelle grandi verità»,
s'invaghì talmente dell'aureo libro, che se ne fece una delle
sue letture predilette.
Orbene, leggendo e rileggendo appunto
quella parte che si aggira per intero intorno al Sacramento
dell'altare, dovette fermare la sua attenzione sopra il secondo
periodo del capo decimo, dove il pio autore osserva come il
nemico, ben sapendo quanti e quali frutti si ricavino dalla
santa comunione, sia solito dar di piglio a ogni mezzo per
ritrarne fideles et devotos, non solo cioè i semplici fedeli,
ma anche le anime pie o a Dio consacrate.
Vecchio flagello dunque nella Chiesa, avrà
esclamato fra sé e sé il riflessivo lettore, vecchia peste
questa maledetta infiltrazione diabolica! E tanto più
avidamente dovette sorbire e convertire in succo e sangue il
soavissimo nettare del libro sublime, anelando al giorno, in cui
si sarebbe fatto araldo della pia exhortatio ad sacram
Communione in mezzo alla gioventù di tutto il mondo. Sì, in
mezzo alla gioventù; perché, a non voler edificare sull'arena,
bisognava prendere le mosse dai giovani e condurli presto al
banchetto eucaristico, condurveli in gran numero, ricondurveli
con gran frequenza, e abituare a simili spettacoli gli occhi del
gran pubblico. Appunto così egli fece.
Fioccavano osservazioni di qua e di là; ma
Don Bosco non perdeva tempo a discutere: preparava bene folte
schiere di giovanetti alla prima comunione, moltiplicava le
comunioni generali, istituiva società e compagnie con l'intento
di assuefarne i membri alla comunione frequente e quotidiana,
confessava comunicandi per ore infinite. Dio solo sa i sacrifici
impostisi da Don Bosco per promuovere efficacemente la frequenza
dei giovani alla santa comunione; ma non passava inosservata la
gioia sincera che gl'inondava il petto nel contemplare le file
interminabili di giovani andare e venire dalla sacra mensa. Che
avrebbe infatti potuto desiderare di meglio chi viveva con lo
spirito fissamente rivolto a Gesù Sacramentato?
A questo capo mancherebbe un elemento
importante, se non dicessimo ancora, in qual modo usasse Don
Bosco della confessione durante quegli anni. Nella vita
spirituale la scelta di un buon direttore è condizione
ordinaria per fare veri progressi.
Vi allude san Bernardo con quel celebre
detto: Qui se sibi magistrum constituit, stulto se discipulum
facit; prendere se stesso a proprio maestro è farsi discepolo
di uno stolto. Il santo Dottore scrive così non già a un
qualsiasi principiante, ma a un povero ecclesiastico; anzi,
nella medesima lettera conferma la sua dottrina, allegando in
prova il suo esempio: «Non so, dice, che cosa pensino gli altri
di se stessi su quest'argomento; io parlo per esperienza, e
quanto a me dichiaro che mi torna più facile e più sicuro
comandare a molti che guidare me solo».
Lo Scaramelli, maestro insigne di direzione
spirituale, appellandosi all'autorità di S. Basilio, afferma
che «dopo i primi desideri di perfezione e dopo le prime
risoluzioni di conseguirla, il mezzo più necessario per fare
grandi progressi in questo cammino spirituale è senza fallo la
scelta di una buona guida».
Don Bosco, che aveva già mostrato assai
per tempo di comprendere questa necessità, appena trasferitosi
a Torino, si mise sotto la direzione del beato Cafasso, andando
ogni settimana ad aprirgli la sua coscienza. Lo trovava nella
chiesa di san Francesco d'Assisi, col confessionale assiepato da
penitenti che aspettavano il loro turno. Inginocchiatosi per
terra, di rimpetto, vicino a un pilastro, si veniva preparando,
in attesa che il confessore lo vedesse. Questi, per non
obbligarlo a perdere troppo tempo, gli accennava alzando la
tendina; egli allora a capo chino e in atteggiamento devoto si
appressava, ponevasi in ginocchio sul dinanzi del confessionale,
e con edificazione dei presenti faceva la sua confessione. A
maestro santo, santo discepolo.
CAPO VII. - Nel periodo delle grandi
fondazioni.
Durante questo periodo della sua vita Don
Bosco gradatamente riempie del suo nome il mondo intero.
Giornali di vario colore, opuscoli illustrativi, fotografie
sparse a larga mano perché assai ricercate, conferenze, tutte
insomma le trombe della fama gareggiano a divulgare notizie
intorno alle sue opere. Nessun apostolo aveva mai avuto per il
suo apostolato tanti mezzi di pubblicità.
I fortunati successi poi che ne coronavano
ardue imprese, contribuivano a confermare nelle menti l'opinione
ch'egli fosse, un gran santo, dicevano gli uni, un grand'uomo,
dicevano altri. Si aggiunga che egli stesso nel fare appello
all'universale beneficienza bandiva ai quattro venti la propria
missione, indirizzando a uomini d'ogni qualità o nazione
circolari scritte in più lingue. Una taciturna modestia esulava
dai suoi metodi. Non mancò chi ne pigliasse scandalo: ma fu
scandalo di pusilli: tante volte gli stessi censori si videro
costretti a imitarlo.
Abbiamo un giudizio pronunciato da Don
Cafasso nel 53 per mettere le cose a posto dinanzi a dotti
ecclesiastici, che nicchiavano un po' sul conto di Don Bosco,
giudizio, il cui valore trascende le piccole contingenze, nelle
quali venne proferito. Disse allora il direttore spirituale di
Don Bosco: «Sapete voi bene chi è Don Bosco? Per me, più lo
studio, meno lo capisco! Lo vedo semplice e straordinario, umile
e grande, povero e occupato in disegni vastissimi e in apparenza
non attuabili, e tuttavia benché attraversato e, direi,
incapace, riesce splendidamente nelle sue imprese. Per me Don
Bosco è un mistero! Sono certo però ch'egli lavora per la
gloria di Dio, che Dio solo lo guida, che Dio solo è lo scopo
di tutte le sue azioni».
Il riserbo prudenziale del beato Cafasso
era molto spiegabile allora; ma quando la fama che Don Bosco
fosse un santo, entrò nel dominio del pubblico, non ci furono
più argini che valessero. La rinomanza però, mentre risuona
agli orecchi dei lontani, non sempre ha dalla sua la realtà
spicciola della vita, quale si svolge dinanzi agli occhi dei
vicini. Appunto per questo un nostro proverbio dice che
confidenza fa perdere riverenza, e con immagine più
rappresentativa i Francesi: «Non c'è uomo grande per il suo
cameriere».
Ma ecco la singolarità nel caso di Don
Bosco: tutti coloro che ne godettero la familiarità, hanno
attestato unanimi che quanto più da presso lo conoscevano,
tanto maggiormente si confermavano nella convinzione, ch'egli
fosse davvero un santo; quelli stessi che, addetti per lungo
tempo alla sua persona, ebbero ogni agio d'investigare
direttamente il tenore dell'intima sua vita quotidiana, si
sentivano compresi per lui di una venerazione che rasentava il
culto.
La domestichezza lungi dallo sciogliere
l'incanto dell'ignoto, riducendo a più modeste proporzioni la
voce che correva celebratrice per le bocche della gente, serviva
anzi a darle maggior consistenza. Ora, chiunque non sia profano
in fatto di vita spirituale sa due cose: che nessuna opinione di
santità potrebbe formarsi e durare, se il supposto santo non
apparisse uomo d'orazione, e che a screditarlo in questo non ci
vorrebbe molto, ma basterebbe vederlo fare malamente il segno
della croce.
E Don Bosco viveva la sua vita sotto gli
sguardi di moltissimi, sicché le sue azioni potevano essere
sindacate da osservatori discreti e indiscreti; e poi fra le
mura dell'Oratorio la vera pietà si conosceva egregiamente. In
Don Bosco dunque lo spirito di orazione era quel che nel buon
capitano lo spirito marziale, nel buon artista o scienziato lo
spirito di osservazione: una disposizione abituale dell'anima,
attuantesi con facilità, costanza e visibile diletto.
Fra i cresciuti alla scuola di Don Bosco
meritano distinta menzione coloro che, prima plasmati lentamente
da lui, indi suoi collaboratori, divennero pietre fondamentali
della Società Salesiana. Noi li abbiamo conosciuti quegli
uomini così differenti d'ingegno e di cultura, così disuguali
nelle loro attitudini; in tutti però spiccavano certi comuni
tratti caratteristici, che ne costituivano quasi i lineamenti
d'origine.
Calma serenatrice nel dire e nel fare;
paternità buona di modi e di espressioni; ma particolarmente,
per restare nel nostro tema, una pietà, la quale ben si capiva
essere nel loro concetto l'ubi consistam, il fulcro della vita
salesiana.
Pregavano molto, pregavano divotissimamente;
ci tenevano tanto a che si pregasse e si pregasse bene; sembrava
che non sapessero dire quattro parole in pubblico o in privato,
senza farci entrare in qualche modo la preghiera. Eppure, non
eccettuato nemmeno Don Michele Rua, la cui figura ascetica e in
certi momenti quasi mistica, richiamava l'attenzione riverente
dei riguardanti, quegli uomini non mostravano di possedere
grazie straordinarie d'orazione; infatti noi li vedevamo
compiere con ingenua semplicità nulla più che le pratiche
volute dalle regole o portate dalle nostre consuetudini.
Ma che diligenza nel loro modo di trattare
con Dio! E con quale naturalezza, parlando delle cose più
disparate, v'insinuavano pensieri di fede! Erano vissuti a lungo
con Don Bosco; quella convivenza aveva lasciate nel loro vivere
tracce indelebili. Potrebbe fare molto bene al caso ciò che
l'Apostolo scriveva ai Cristiani di Corinto: chi avesse
desiderato di conoscere quale spirito di preghiera fosse stato
in Don Bosco, ecco, c'erano i suoi discepoli, quasi sua lettera
autentica, in cui parlava egli stesso.
L'assenza dunque delle grandi esteriorità,
che generalmente spesseggiano nel pregare dei Santi, non valse a
far passare inosservato in Don Bosco lo spirito di preghiera
nemmeno durante il periodo più operoso della sua vita, quando
brighe d'ogni fatta se ne disputavano tempo e pensieri,
mettendone prevalentemente in vista l'attività indefessa.
Troppo radicata portava nell'anima l'idea della presenza di Dio,
perché ressa di negozi ne ostacolasse l'intima e perpetua
unione con Lui; anzi, il sentire sempre Dio presente, mentre di
continuo lo teneva vigile e intento all'unico fine di servire a
Lui solo, gli era anche fonte perenne di allegrezza nel mare
delle occupazioni; giacché in tutto il suo agire non cercava se
non l'attuazione perfetta del divin volere.
Perciò, scrivendo a un virtuoso sacerdote
per chiamarlo in suo aiuto nell'amministrazione e disciplina
dell'ospizio, gremito già d'interni, usava un modo di dire
lepido, ma conforme allo stile dei Santi: «Venga ad aiutarmi a
dire il Breviario».
Passare senza posa da occupazione a
occupazione era per Don Bosco quasi un continuo salmeggiare;
poiché in tutte le cose che faceva, Don Bosco dava lode a Dio,
eseguendone amorosamente i voleri. In realtà, il libro che dal
sacerdote si sfoglia nella preghiera rituale, gli dice che del
pari egli deve svolgere giorno per giorno la sua attività
davanti a Dio in spirito di preghiera. Analoga immagine ricorre
in sant'Agostino. Il grande Dottore, volendo che il cristiano
converta l'intera sua vita in inno di lode alla gloria di Dio,
ripensa al musicale strumento davidico e dice: Non tantum lingua
canta, sed etiam assumpto honorum operum psalterio; non cantare
a Dio soltanto con la lingua, ma pigliando anche in mano il
salterio delle buone opere. Ecco il Breviario di Don Bosco.
Fin qui era abbozzato questo capo quando si
lesse il discorso pronunciato dal Papa Pio XI il 19 marzo 1929
per il decreto sui miracoli di Don Bosco, e nel discorso ecco un
ricordo personale, che arrivava proprio in buon punto. Diceva il
Santo Padre che, passando qualche giorno della sua vita con Don
Bosco, sotto lo stesso tetto, alla stessa mensa, e gustandovi più
volte la gioia di potersi intrattenere lungamente col Servo di
Dio, benché sempre occupatissimo, ne aveva notata una delle
caratteristiche più impressionanti: «una calma somma, una
padronanza del tempo, da fargli ascoltare tutti quelli che a lui
accorrevano, con tanta tranquillità come se non avesse
null'altro da fare».
Vi sarebbe materia da riempire un grosso
volume, se si volessero narrare tutti i fatti e riferire tutte
le testimonianze che confermano la giustezza di questa
osservazione. La quale osservazione va applicata non solo al
dominio del tempo, ma anche a quello dei contrattempi; poiché
la stessa calma e tranquillità lo assisteva inalterata di
fronte a ostacoli, a inciampi, a disgrazie, che, per quanto
gravi, non lo facevano scomporre.
È ancor viva fra noi la memoria di un
detto ripetutoci dal primo successore di Don Bosco, che cioè
quando il caro Padre appariva più gaio e più contento del
consueto, i suoi collaboratori, edotti dall'esperienza, si
sussurravano con pena all'orecchio: - Oggi Don Bosco dev'essere
in qualche imbarazzo ben serio, giacché si mostra più lieto
dell'ordinario. «In queste circostanze, depone il medesimo Don
Rua nei processi, la sua forza era la preghiera». Difatti,
anche prescindendo da sì autorevole testimonianza, non vi
sarebbe altra spiegazione del fatto.
Il pio autore dell'Imitazione fa appunto
derivare la pace e serenità perfetta dello spirito da una causa
sola, dall'abbandono in Dio, proprio di chi vive a lui
strettamente unito: Tu, parole dell'anima al suo Diletto, tu
facis cor tranquillum et pacem magnam laetitiamque festivam.
Bella prova di abituale unione con Dio è
la facilità a parlare di Lui con sentimento verace. Ben
sapevano di tale facilità i suoi figli, con i quali conversando
soleva avere questi spunti favoriti: «Come è buono il Signore,
e quanta cura si prende di noi! Dio è un buon padre, e non
permette che noi siamo tentati sopra le nostre forze. Dio è un
buon padrone, e non lascia senza mercede neppure un bicchier
d'acqua dato per suo amore. Amiamo Dio! amiamolo! Vedete com'è
stato buono con noi? Creò tutto per noi; istituì la santissima
Eucaristia per stare con noi; a ogni istante ci colma di
benefici! Quando si tratta di servire Dio, che è ì buon padre,
bisogna esser pronti a qualunque sacrificio. Ricordatevi che la
fede senza le opere è morta. Facciamo tutto quello che si può
alla maggior gloria di Dio. Tutto per il Signore, tutto per la
sua gloria!». Le occupazioni anche più materiali non gli
scemavano questa facilità.
Dice il venerando Don Rua: «Talvolta,
quando lo accompagnavamo ad ora tarda a riposo, si fermava a
contemplare il cielo stellato e c'intratteneva, immemore della
sua stanchezza, a discorrere dell'immensità, onnipotenza e
sapienza divina. Altre volte per la campagna ci faceva osservare
le bellezze dei campi e dei prati, l'abbondanza e ricchezza dei
frutti, e così conduceva il discorso sulla divina bontà e
provvidenza, di modo che ben sovente si esclamava coi discepoli
di Emmaus: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum
loqueretur in via?». Una identica facilità egli mostrava con
estranei, in casa e fuori di casa, fossero persone umili o
altolocate, ecclesiastici o laici. A Marsiglia in casa di
un'insigne benefattrice, presa una viola del pensiero e rivolto
alla signora: - Ecco, disse, Le do un pensiero, il pensiero
dell'eternità. Con o senza fiori, non dimenticava mai di
lasciare pensieri somiglianti, chiunque fosse chi lo avvicinava.
Una delle sue massime era questa: «Il sacerdote non dovrebbe
mai trattare con alcuno senza lasciargli un buon pensiero».
Prova ancor più lampante di abituale
unione con Dio è la facilità a parlare con unzione del
paradiso. Don Bosco, afferma il cardinal Cagliero, «parlava del
paradiso con tanta vivacità, gusto ed effusione, da innamorare
chiunque l'udiva. Ne ragionava come un figlio parla della casa
del proprio padre; il desiderio di posseder Dio lo accendeva più
ancora che la mercede da lui promessa».
Udendo lamenti da' suoi per tribolazioni,
fatiche, uffici, incoraggiava col dire: «Ricordati che soffri e
lavori per un buon padrone, quale è Dio. Lavora e soffri per
amore di Gesù Cristo, che tanto faticò e soffrì per te. Un
pezzo di paradiso aggiusta tutto». A chi gli annunciava
difficoltà o atti ostili rispondeva: «Di questo, nulla in
paradiso! Sono momentanei i patimenti di questa vita, ma durano
eterni i gaudi del paradiso».
Ad un ricco sfondolato e miscredente, ma
incantato per le cose udite di lui e recatosi a visitarlo per
pura curiosità, rivolse nell'accomiatarlo queste parole: «Guardiamo
che un giorno Lei con i suoi denari e io con la mia povertà
possiamo trovarci in paradiso». Al sentir menzionare vacanze
autunnali era un suo motto questo: «Le vacanze le faremo in
paradiso». Tornando stanco dalla città dopo questue laboriose,
invitato a riposare alquanto prima di mettersi al tavolino o nel
confessionale, rispondeva amabilmente: «Mi riposerò in
paradiso». Al termine di lunghe discussioni concludeva: «In
paradiso non vi saranno più controversie; saremo tutti dello
stesso pensare».
Sue esclamazioni frequenti: «Che piacere,
quando saremo tutti in paradiso! Siate solamente buoni, e non
temete! E che! credete voi che il Signore abbia creato il
paradiso per lasciarlo vuoto? Ma ricordatevi che il paradiso
costa sacrifici». A un teologo danaroso, ma in fama di avaro
parlò con tanta unzione del cielo, che quegli corse allo
scrigno, ne prese quante pezze d'oro potevano le mani contenere
e gliele consegnò con il miglior garbo del mondo.
Un giorno, sedendo a mensa fuori di casa
con parecchi sacerdoti, pigliato argomento dalla bellezza e bontà
di certi frutti recati in tavola, venne a parlare del paradiso
con tanto calore, che i commensali, sospeso il mangiare
pendettero estatici dal suo labbro. «Se alcuno, asserisce un
teste bene al corrente, gli avesse domandato a bruciapelo: - Don
Bosco, dov'è incamminato? - egli avrebbe risposto: - Andiamo in
paradiso». Il continuo desiderio del paradiso è, al dire di
Sant'Agostino, continua preghiera.
Prova sovranamente dimostratrice di
abituale unione con Dio è la stessa facilità a dire sempre una
buona parola. Anche colto all'impensata, anche affaccendato in
tutt'altro, Don Bosco, dice il suo secondo successore, «sembrava
che interrompesse i suoi colloqui con Dio per dare udienza e che
da Dio gli fossero ispirati i pensieri e gl'incoraggiamenti che
regalava». Di tanta facilità a parlar del Signore in
circostanze per nulla propizie, gli esempi abbondano; ma,
rinviando ai biografi per più ampie notizie, ci limiteremo a un
particolare solo, che si ripeteva di frequente.
Spesso, sacerdoti dell'Oratorio, massime i
superiori, andavano da lui per confessarsi in ore dedicate al
disbrigo della voluminosa corrispondenza e alla trattazione di
negozi temporali. Ebbene, Don Bosco, uditane la confessione
parlava sempre al penitente con tali pensieri e con tanta
unzione, che pareva ritornato allora allora dall'altare.
Come il parlare, così l'operare. Nel suo
dire si sentiva l'accento dell'uomo avvezzo a stare unito con
Dio; nel suo agire spiccava la nota tutta sacerdotale dello
zelo. Zelo significa fervore d'animo; nel linguaggio cristiano
è tradotto da sant'Ambrogio con fidei vapor con devotionis
fervor. Zelo è dunque emanazione esteriore d'interna fede: è
veemenza di pietà verso Dio, la quale, più non contenendosi in
sé, quasi ribolle, sprigionando calore e forza viva. Zelo però
non è entusiasmo, ossia esaltazione straordinaria che presto si
esaurisce; lo zelo, retto da vedute superiori, ha procedimenti
continui e progressivi, qualunque siano le resistenze di uomini
e di cose.
Lo zelo di Don Bosco si modellava su quello
di Gesù, tutto ardore per la gloria di Dio mediante la salvezza
delle anime e la guerra al peccato, e tutto bontà nei modi, con
cui si guadagnava i cuori di piccoli e di grandi. I giovani
dell'Oratorio ne erano incantati e traducevano la loro
impressione in una frase rispecchiante la fede e pietà del
luogo, dicendo: «Don Bosco sembra Nostro Signore».
Attraverso a queste parole noi vediamo Don
Bosco andare, venire, operare con i piedi sulla terra e con le
mani al suo lavoro, ma con gli occhi sfavillanti di quella luce
che scende dall'alto, illumina l'interno dell'uomo e ne
rischiara tutta la vita. Qui bisogna cercare Don Bosco, prima
che nelle sue istituzioni.
San Bonaventura, distinte tre sorta di
preghiera, la comune, la privata e la continua, raccomanda
quest’ultima, specialmente ai superiori che siano molto
occupati. Esige essa tre cose: che si tenga il pensiero rivolto
a Dio in tutte le occupazioni, che l'anima cerchi costantemente
l'onore di Dio, e che di tanto in tanto, quasi furtivamente, si
raccolga in orazione. In questo senso, dal segno della santa
croce alla santa messa, dal motto familiare alla predica, dalle
minuzie di casa ai grandi affari, tutte le azioni di Don Bosco
erano penetrate di preghiera; nelle maggiori imprese poi questo
spirito gli si faceva propulsore gagliardo a promuovere la
gloria di Dio.
Prima d'impegnarsi a fondo in qualsiasi
attività, anziché fare i conti se ci fossero o no mezzi
materiali a sufficienza, guardava il problema sotto un angolo
visuale ignoto alla prudenza puramente umana. Diceva: «Io tengo
questa norma in tutte le mie imprese. Cerco prima ben bene, se
quella tale operai ridondi a maggior gloria di Dio e a vantaggio
delle anime; se è così, vado avanti sicuro, che il Signore non
lascerà mancare la sua assistenza; se poi non è quello ch'io
immagino o meglio quel ch'io credo, vada pur tutto in fumo, che
io sono egualmente contento».
Convertitosi poi un disegno in felice realtà,
se vogliamo sapere come vi ripensasse, ce lo dice in una
risposta al padre Felice Giordano degli Oblati di Maria Vergine,
il quale erasi mostrato curioso di conoscere come mai le sue
opere camminassero tanto bene, sebbene fossero così colossali.
«Sappia, gli disse, che io non c'entro per niente. È il
Signore che fa tutto; quando vuol dimostrare che un'opera è
sua, si serve dello strumento più disadatto. È questo il caso
mio. Se egli avesse trovato un sacerdote più povero, più
meschino di me, quello e non altri avrebbe scelto a strumento di
quelle opere, lasciando da parte il povero Don Bosco a seguitare
la sua naturale vocazione a cappellano di campagna».
Il mondo parlava delle cose sue; egli
stesso parlava delle sue cose al mondo. Lasciava che la gente
dicesse. «Si tratta, soleva ripetere, di glorificare l'opera di
Dio, non quella dell'uomo. Quante meraviglie avrebbe operate di
più il Signore, se Don Bosco avesse avuto più fede!».
Risalendo il merito delle opere a Dio, era naturale che gliene
tributasse lode egli stesso anche mediante le nuove forme di
pubblicità; nella qual cosa ecco il criterio pratico, da lui
seguito: «È giusto che coloro che vi fanno la carità,
sappiano dove vada a finire. Viviamo in tempi, in cui il mondo,
divenuto materiale, vuol vedere e toccar con mano; quindi è più
che mai necessario che le nostre buone opere siano conosciute,
affinché Dio ne venga glorificato».
Nel processo apostolico numerosi e
coscienziosi testimoni, che con le loro orecchie l'avevano udito
narrare vicende sue, esprimono tutti il medesimo pensiero,
dicendo che, nel parlare così, Don Bosco mirava ben più alto
della sua persona. L'intima persuasione di essere umile
strumento della Provvidenza divina lo sostenne in momenti di
estrema delicatezza; poiché Dio permise che non sempre gli
uomini ne giudicassero subito favorevolmente l'operato. La
stessa suprema autorità diocesana, che tardò a capire Don
Bosco, era quasi convinta di rendere onore a Dio contrariandolo
a lungo. Che amaro calice per il povero Don Bosco! Ma la sola
doglianza che gli cadesse dal labbro o dalla penna durante la
sanguinosa prova fu che tante noie l'obbligassero a perdere
tanto tempo, mentre ci sarebbe stato sì gran bene da fare per
la gloria di Dio. Questo, sempre questo il suo obiettivo
supremo.
Un giorno il suo voluminoso epistolario
documenterà a dovizia l'immensa sua sete di promuovere la
gloria di Dio e di accendere la stessa brama nei sacerdoti del
clero secolare e regolare che avessero con lui scambio di
corrispondenza epistolare, massime ne' suoi figli. I quali suoi
figli fra i moniti paterni che si trasmettono con religiosa pietà,
assegnano un posto d'onore a questa sua ingiunzione: «Se poi
trattasi di cose spirituali, le questioni si risolvano sempre
nel modo che possa tornare a maggior gloria di Dio. Impegni,
puntigli, spirito di vendetta, amor proprio, ragioni,
pretensioni ed anche l'onore, tutto deve sacrificarsi in questo
caso». Ecco il linguaggio dell'uomo abituato a passare
frammezzo agli uomini con la mente fissa in Dio.
A tutti indistintamente i Cristiani
l'Apostolo fa un dovere di cercare la gloria di Dio, ognuno
secondo la propria vocazione, il sacerdote dunque da sacerdote.
Ora la missione del sacerdote, ministro di Cristo, non può
essere diversa dalla missione del Signore, cioè salvare le
anime dalla perdizione: venit enim Filium hominis quaerere et
salvare, quod penerai.
Don Bosco, che dal giorno della sacra
ordinazione non altro volle essere se non sacerdote, e quindi
non ad altri uffici aspirò se non a mansioni strettamente
sacerdotali, né altro titolo ambì dinanzi al suo nome se non
quello solo solissimo di sacerdote, né altre insegne tollerò
mai sulla sua persona se non i distintivi del sacerdozio, non in
altro modo pensò mai di dover glorificare Dio se non in
funzione di sacerdote, e precisamente in quello, a cui,
graduando le opere intese alla gloria di Dio, il Pseu-dodionisio
ha assegnato il primo luogo, come omnium divinorum divinissimum,
cioè cooperari Deo in salutem animarum.
Su di che i Salesiani tengono da Don Bosco
stesso un magistrale insegnamento, che entra nel patrimonio vivo
delle domestiche tradizioni. Don Bosco diceva così: «Un prete
è sempre prete, e tale deve manifestarsi in ogni sua parola.
Ora esser prete vuol dire aver per obbligo continuamente di mira
il grande interesse di Dio, cioè là salute delle anime.
Un sacerdote non deve mai permettere che
chiunque si avvicini a lui ne parta senz'aver udita una parola
che manifesti il desiderio della salute eterna della sua anima».
Onde questo scopo eminentemente sacerdotale egli si prefisse in
tutte le sue grandi fondazioni, cominciando da quella destinata
a essere madre delle altre. «Ricordatevi, predicava ai suoi,
che l'Oratorio è stato fondato dalla Beata Vergine per un sol
fine, per salvare anime». Ecco perché nello stemma salesiano
incise il motto: Da mihi animas, che fu la sua parola d'ordine
per tutta la vita.
Seguirlo passo passo per questa strada non
ci sarebbe possibile; a istruzione e ad edificazione dei
confratelli nel sacerdozio altri, spigolando di proposito in
questo campo vastissimo, narri le industrie da lui escogitate,
descriva le fatiche sostenute, ne enumeri gli eroici sacrifici,
ne raccolga i gemiti, i sospiri, le preghiere. Sì, soprattutto
le preghiere, senza le quali non avrebbe avuto né la forza di
seminare fra tante lacrime, né il confronto di mietere in tanta
abbondanza.
Scrive infatti uno dei più moderni
teologi: «Dove manca la vita interiore, l'azione esterna non
ottiene che magri risultati, perché la grazia di Dio non scende
a fecondare un ministero, in cui la preghiera non ha quasi
posto; onde la necessità di avvivare le opere esterne con lo
spirito di preghiera».
Gran nemico di Dio, perché lo discaccia
dalle anime e gran nemico delle anime perché le spinge
all'inferno, è il peccato; contro il peccato Don Bosco impegnò
per tutta quanta la vita una guerra a fondo. Una notte non potè
prender sonno per aver saputo che un suo alunno aveva commesso
peccato; la sera seguente, parlandone dal pulpitino della
"buona notte", sembrava la tristezza in persona. Al
pensiero del peccato mortale de' suoi incitabatur spiritus in
ipso, gli si riempiva lo spirito di profonda afflizione, come
all'Apostolo delle genti nel vedere gli Ateniesi adorare idoli.
Nel predicare sulla gravezza del peccato
mortale il pianto ordinariamente gli stringeva la gola, talvolta
gli strozzava la parola in bocca, obbligandolo a troncare il
discorso; anche nelle conversazioni familiari, sol che venisse
in campo l'offesa di Dio, il suo volto si contraeva e l'accento
ed anche il silenzio esprimeva dolore. Perfino fisicamente
soffriva dinanzi ad atti peccaminosi, o nel ricevere l'accusa di
certe colpe più gravi; così, udendo bestemmiare, si sentiva
svenire, e ascoltando da giovani la confessione di cose impure,
era assalito da conati di vomito o provava all'olfatto
sensazioni insopportabili o pativa principi di asfissia.
Un giorno Don Francesia, vistolo dolorare
improvvisamente per mal d'occhi, gli chiese con filiale
confidenza, se avesse lavorato soverchiamente quella notte, e il
buon Padre a rispondergli che, andato a confessare nelle carceri
dove non si può dare molta penitenza, si era offerto a farne
egli stesso in luogo dei penitenti. Il peccato, quand'era
tuttavia in azione, gli causava un vero martirio, il maggiore
ch'ei si potesse immaginare; ma insieme gli centuplicava
l'ardire, sicché, se avesse avuto anche un esercito contro, non
si sarebbe, diceva, arreso giammai.
Il peccato ormai commesso, massime se di
scandalo, gli metteva i brividi, facendolo esclamare
angosciamente: «Oh, che disastro! oh, che disastro!». Il
peccato temuto gli dava certi rimescolii, per cui si augurava di
veder annientato l'Oratorio e rovinate al suolo le sue case,
qualora non avessero più corrisposto al loro fine d'impedire il
peccato. Una delle sue rare dichiarazioni personali era
concepita così: «Don Bosco è il più gran buon uomo di questo
mondo. Rompete, gridate, fate birichinate, saprà compatirvi,
perché siete giovani; ma non date scandali, non rovinate le
anime vostre e le altrui col peccato, perché egli allora
diventa inesorabile».
L'uomo di preghiera sa ricorrere di botto a
modi così suoi per impedire l'offesa di Dio, che ad altri non
verrebbero in mente nemmeno a pensarci di proposito. In casa di
certi signori un loro bambino quinquenne, rovesciataglisi la
carrozzella con cui si baloccava, s'incollerì talmente, che
pronunciò con dispetto il nome di Cristo. Don Bosco, chiamatolo
a sé, gli disse con dolce amorevolezza: - Perché hai nominato
così malamente il nome di Gesù Cristo? - Perché la
carrozzella non vuole andar bene. Ma non sai che non si deve
nominare Dio senza rispetto e divozione? Dimmi, sai i
comandamenti? - Sì, - Ebbene, fammi il piacere di recitarmeli.
Il piccolo obbedì. Don Bosco, lasciatolo arrivare al secondo:
Non nominare il nome di Dio invano, fermò e gli chiese: - Sai
che cosa vuol dire Non nominare il nome di Dio invano? Vuol
dire, mio caro, che non bisogna nominar Dio, che ci vuole tanto
bene, senza una ragione giusta e senza divozione; altrimenti
facciamo un peccato, cioè un dispiacere a Dio e questo
specialmente quando si nomina con collera, come hai fatto tu
adesso. Papà lo dice sempre! fece il ragazzino. E d'ora in
avanti non lo dirò più! interruppe il padre, li presente,
mortificatissimo.
Un'altra volta, aspettando la partenza del
treno, sentì il figlioletto del trattore balbettare ogni tanto:
Chisto! Chisto! Facendogli cenno con la mano, gli disse: - Vieni
qua, piccolino. Vuoi che t'insegni a pronunciar bene le parole?
Su, levati il cappello, e sta' attento. Si dice Cristo, non
Chisto. Così, vedi:
In nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così
sia. Sia lodato Gesù Cristo. Attento bene: non Chisto, ma
Cristo.
- Nel maggio del 60 ebbe la sgradita
sorpresa di una perquisizione personale. Uno dei tre
perquisitori, mentre Don Bosco apriva l'uscio della stanza,
lesse in tono canzonatorio le parole scritte al sommo: Lodato
sempre sia il nome di Gesù e di Maria. Bosco si arresta, si
volge e detto: E sempre sia lodato il nome…, intima ai tre con
severità imperiosa: - Toglietevi il cappello! Ma poiché
nessuno obbediva, ripigliò: - Voi avete cominciato; ora bisogna
che terminiate col dovuto rispetto, e comandò a ognuno di
scoprirsi il capo. La superiorità dell'uomo di Dio s'impose.
Quelli fecero di necessità virtù. Allora egli conchiuse.: il
nome di Gesù, Verbo incarnato.
Sono detti e fatti che spiegano tante altre
cose; per esempio, le ore interminabili spese a cancellare
peccati; le immagini di Domenico Savio con la scritta La morte,
ma non peccati; il metodo educativo, mirante a prevenire i
peccati.
Spiegano pure come nell'Oratorio dominasse
un sacro orrore del peccato, non solo mortale, ma anche veniale;
come fosse ivi generale lo spirito di riparazione, che muoveva
tanti giovani a risarcire i peccati altrui non solo pregando, ma
anche mortificandosi; come dappertutto e sempre una premurosa
sollecitudine spronasse i migliori a invigilare per impedire che
il peccato s'insinuasse o si annidasse fra i compagni.
Certo è cosa che commuove il constatare
nei processi canonici l'unanimità, con cui i testi,
ecclesiastici o laici, vissuti già in quell'ambiente, mettono
in rilievo questo lato dello zelo di Don Bosco e non col
linguaggio scolorito di chi tragga dalla memoria vecchi ricordi,
ma col tono vivace di chi sente ridestarsi dentro impressioni
profonde e care.
Un bel passo di san Tommaso proietti qui il
fascio della sua luce chiarificatrice. Argomenta l'Angelo delle
scuole: «L'amore di amicizia ha questo di proprio, che cerca il
bene dell'amato. Perciò siffatto amore, quando sia ardente,
muove chi n'è acceso, a reagire contro tutto ciò che si
opponga al bene dell'amico; nel qual senso si dice che ha zelo
per l'amico chiunque si studi d'impedire quanto possa in parola
o in azioni ledere gl'interessi dell'amico.
Parimente si proclama zelante verso Dio chi
si adopera a tutto potere per opporsi a quanto vada contro
l'onore o il volere di Dio, e diciamo divorato da santo zelo chi
fa del suo meglio per rimediare al male che vegga commettersi
oppure nel caso d'impossibilità lo sopporta gemendo». Ecco
dunque perché i peccati ferivano così dolorosamente il cuore
di Don Bosco.
Don Bosco ardeva del divino amore e in ogni
peccato sentiva l'offesa fatta al suo Dio. Non poche volte fu
udito sfogare la piena degli affetti con accenti simili a
questi: «Come è possibile che una persona assennata, la quale
crede in Dio, s'induca a offenderlo gravemente? E perché
trattar così male il Signore? Ma vedete come Dio è buono! Ci
colma ogni giorno de' suoi benefici. Come mai offenderlo?
Bisogna proprio dire che chi offende il Signore, dimostra con ciò
solo di non essere in se stesso». Tali e altrettali sonavano le
espressioni orali; ma chi ci ridirà le impressioni della sua
anima seraficamente innamorata di Dio?
Nel fianco della casa paterna di Don Bosco
si aperse una cappellina, che è un simbolo. Ve la allestì il
buon Padre nel 48 per comodità propria e dei giovanetti, quando
o solo o accompagnato da alunni dell'Oratorio si conduceva colà
a respirare per alcuni giorni l'aria nativa. Tutto si mantiene
ivi nello stato primiero.
Alla parete destra di chi entra un
venerando seggiolone, su cui egli sedeva confessando; di fronte,
nel centro dell'altare, il tabernacolo, non già decorativo, ma
solido per racchiudere l'augustissimo Sacramento; su in alto il
quadro della Beata Vergine. Ecco belli e parlanti i tre massimi
fattori di santificazione, sempre da Don Bosco usati per sé,
applicati ai suoi, additati a tutti: frequente confessione,
frequente comunione, divozione a Maria Santissima: Maria
Santissima che chiama, chiama a Gesù attraverso il sacramento
della riconciliazione e dell'amore.
In una lettera del 13 febbraio 1863 Don
Bosco diceva a Pio IX: «Vostra Santità secondi l'alto
pensiero, che Iddio Le ispira nel cuore, proclamando ovunque
possa la venerazione al Santissimo Sacramento e la divozione
alla Beata Vergine, che sono le due ancore di salute per la
misera umanità». Il moltissimo ch'egli fece durante gli anni
delle sue maggiori fondazioni per instillare nei vicini e
propagare fino agli estremi limiti della terra il culto amoroso
della Santa Vergine non avrebbe avuto una causa sufficiente, se
non ci fosse stata in lui una divozione fervida verso la madre
di Dio; questa divozione infatti contribuì grandemente alla sua
formazione spirituale e allo sviluppo della sua vita interiore.
Mariam cogita, Mariam invoca, ci esorta
colui che la Chiesa saluta maestro dei maestri nella divozione a
Maria. Il pensiero di Maria, l'invocazione di Maria non tacquero
mai nel cuore e sul labbro di Don Bosco; nel che pure la pietà
di lui si rannodava al filo non mai interrotto della genuina
tradizione cattolica.
La sua lingua celebrava sempre le glorie
antiche e recenti della Madonna, mirando a trasfondere negli
altri la confidenza filiale che nutriva in cuor suo verso di
lei; dalla sua lingua si levavano continue le filiali
invocazioni alla celeste Patrona; sulle sue labbra tornavano
spesso pubbliche azioni di grazie per innumerevoli benefici
ch'ei riconosceva dalla potenza della grande Ausiliatrice. «Quanto
è buona Maria!», esclamava con tenerezza in molte occasioni.
Lodato per le sue opere, ne soffriva e tosto rettificava: «Questa
buona gente non sa chi sia Don Bosco; chi fa Tutto, è Maria
Ausiliatrice.
Nel predicare le grandezze di Maria gli
avvenne di commuoversi fino alle lacrime. Fu udito ripetere
insistentemente di non aver dato un passo senza far ricorso a
Maria. Per avere i lumi in momenti decisivi, pellegrinò almeno
tre volte al celebre santuario d'Oropa sopra Biella.
Nella sua corrispondenza epistolare
ricorrono spesso frasi come questa: «La Santa Vergine ci
conservi sempre suoi». A chiusura d'un bel raccontino sulla
Madonna, scritto non sappiamo da chi, egli ci mise di suo pugno
sulle bozze di stampa che si conservano, questa calda
esortazione più che non dal calamaio, sgorgatagli dall'intimo
del cuore: «Lettore, ovunque tu sia, qualunque cosa tu faccia,
tu puoi con una preghiera ricorrere alla Santa Vergine Maria. Ma
ricorri con fede, che Ella è una madre pietosa, la quale vuole
e può beneficare i suoi figliuoli. Pregala di cuore, pregala
con perseveranza, e sta' sicuro che Ella sarà anche per te una
vera provvidenza, un pronto soccorso nei tuoi bisogni spirituali
e temporali».
Altrove si descrive l'apparizione di Maria
a santo Stanislao Kostka, quando il giovane angelico ne
ricevette il comando di entrare nella Compagnia di Gesù;
orbene, parimente sulle bozze, Don Bosco aggiunse: «Cristiani,
che amate di essere cari a Maria, pregatela di cuore che vi
ottenga questa bella grazia di consacrarvi totalmente a Dio.
Ditele che Ella così vi tolga dai grandi pericoli del mondo;
che vi faccia, poiché Ella può tutto, di questi comandi che
fece a Stanislao, e voi prontissimi l'obbedirete. Questa grazia
di essere chiamato allo stato religioso richiedeva sempre fin da
fanciullo il venerabile padre Carlo Giacinto a Maria e la
ottenne». Veri sfoghi l'uno e l'altro di spontanea e vivissima
pietà verso la Madonna.
In argomento si dolce non facciamoci
scrupolo di allungare il discorso. Come il cuore di Don Bosco si
dilatava al pensiero di Maria, così il nostro animo si allieta
a raccoglierne le espansioni, e tanto più avidamente, quanto
minore soleva essere in lui il gusto di mettere altri a parte
degl'interni suoi moti. Vi sono però circostanze, in cui anche
da temperamenti pieni di riserbo la emotività prorompe.
Abbiamo una lettera di Don Bosco, datata da
Oropa il 6 agosto 1863 e indirizzata ai suoi «carissimi
figliuoli studenti», che ribocca di un vero lirismo pio. Il
buon padre li chiama tutti a condividere seco in ispirito i
soavi trasporti, a cui egli si abbandona in quell'atmosfera
mariana, in quella regale dimora della Santa Madre di Dio.
L'alta religione del luogo si è
impossessata siffattamente del suo spirito meditativo, il
giubilo causatogli dallo spettacolo di tanta pietà verso la sua
celeste Regina lo inonda a segno, che, dato di piglio alla
penna, sente per prima cosa il bisogno di far vibrare nei figli
la sua stessa commozione. «Se voi, o miei cari figliuoli, vi
trovaste sopra questo monte, ne sareste certamente commossi. Un
grande edificio, nel cui centro havvi una divota chiesa, forma
quello che comunemente si appella Santuario d'Oropa. Qui havvi
un continuo andirivieni di gente. Chi ringrazia la Santa Vergine
per grazie da lei ottenute, chi dimanda di essere liberato da un
male spirituale o temporale, chi prega la Santa Vergine che
l'aiuti a perseverare nel bene, chi a fare una santa morte.
Giovani e vecchi, ricchi e poveri, contadini e signori,
cavalieri, conti, marchesi, artigiani, mercanti, uomini, donne,
pastori, studenti d'ogni condizione vi si vedono continuamente
in gran numero accostarsi ai santi Sacramenti della confessione
e comunione e andare di poi ai pie' d'una stupenda statua di
Maria Santissima per implorare il celeste di Lei aiuto».
La sua gioia però si vela ben tosto di
tristezza, perché non si vede, come nell'Oratorio, circondato
da' suoi Figli, per condurli tutti con sé a rendere divoto
omaggio alla benedetta Madre. «Ma in mezzo a tanta gente il mio
cuore provava un vivo rincrescimento. Perché? Non vedeva i miei
cari giovani studenti. Ah! sì, perché non posso avere i miei
figli qui, condurli tutti ai pie' di Maria, offerirli a Lei,
metterli tutti sotto alla potente di Lei protezione, farli tutti
come Savio Domenico o altrettanti san Luigi».
A questo vivo dispiacere di non poter
onorare la Santa Vergine in forma più solenne mediante la
partecipazione de' suoi figli, Don Bosco trova conforto in una
promessa e in una preghiera. «Per trovare un conforto al mio
cuore, sono andato dinanzi al prodigioso altare di Lei e Le ho
promesso che, giunto a Torino, avrei fatto quanto avrei potuto
per insinuare nei vostri cuori la divozione a Maria. E,
raccomandandomi a Lei, ho dimandato queste grazie speciali per
voi. Maria, Le dissi, benedite tutta la nostra casa, allontanate
dal cuore dei nostri giovani fin l'ombra del peccato; siate la
guida degli studenti, siate per loro la sede della vera
Sapienza.
Siano tutti vostri, sempre vostri, e
abbiateli sempre per vostri figliuoli e conservateli sempre fra
i vostri divoti. Credo che la Santa Vergine mi avrà esaudito e
spero che mi darete mano, affinché possiamo corrispondere alla
voce di Maria, alla grazia del Signore».
Finalmente il cuore di Don Bosco si riposa
in un sentimento di ferma fiducia, quasi vedesse la Madonna che,
esaudendone le suppliche, di lassù dai bei monti di Oropa alzi
la destra a benedire il caro Oratorio di Valdocco, stendendo il
manto della sua materna protezione sopra tutti coloro che vi
abitano. «La Santa Vergine Maria benedica me, benedica tutti i
sacerdoti e chierici e tutti quelli che impiegano le loro
fatiche per la nostra casa; benedica tutti voi. Ella dal cielo
ci aiuti, e noi faremo ogni sforzo per meritarci la sua santa
protezione in vita e in morte. Così sia».
Partendo dal sacro luogo, Don Bosco
dovette, con l'occhio della mente fisso nell'avvenire, mormorare
fra le labbra intenerito e fiducioso: Levavi oculos meos in
montes, unde veniet AUXILIUM mihi, giusto allora che stava in
procinto di erigere a Maria Ausiliatrice il suo Santuario.
Per il qual Santuario Don Bosco aveva
ideato un quadro stupefacente. Al centro, sull'alto, Maria
Santissima fra i cori angelici; torno torno e più vicino a lei,
gli apostoli, indi martiri, profeti, vergini, confessori; in
basso, emblemi, delle vittorie di Maria e i popoli della terra
supplici. Egli ne coloriva il disegno con tanta copia di parole
e dovizia di particolari, che sembrava ritrarre uno spettacolo
da lui realmente veduto. È vero che il pittore gli fece toccare
con mano l'impossibilità di aggruppare entro spazio si limitato
un numero si stragrande di figure; ma la grandiosa concezione di
Don Bosco e più la sua maniera di esporla riproducevano al vivo
un soggetto di contemplazione, che doveva essere familiarissimo
al fervente divoto di Maria e instancabile propagatore delle sue
glorie.
CAPO VIII. - Nelle tribolazioni della vita.
Tutti quelli che piacquero a Dio, passarono
per molte tribolazioni, mantenendosi fedeli. Guardando a
distanza, chi non avrebbe creduto che Don Bosco andasse avanti
per un cammino sparso di rose? Eppure la sua vita fu tutta
quanta seminata di pungenti spine. Spine in famiglia: la povertà
e le opposizioni, che prima gli sbarrarono, poi gli resero aspra
la strada del sacerdozio, obbligandolo a dure e umilianti
fatiche. Spine in fondare l'Oratorio: da ogni parte gli si
gridava la croce addosso, da privati, da parroci, da autorità
municipali, politiche, scolastiche. Spine e peggio per causa dei
protestanti: con le sue Letture Cattoliche metteva ogni mese il
dito su qualche piaga, inde irae. Spine a fasci per mancanza di
mezzi: aver sulle braccia tanti giovani e tante opere e non aver
mezzi sicuri di sussistenza. Spine dal suo stesso personale:
sacrifici per formarselo e diserzioni dolorose. Triboli e spine
per via dell'autorità diocesana: malintesi, opposizioni,
contrarietà senza fine.
Un calvario la fondazione della Società
Salesiana, tanto che a cose fatte Don Bosco disse: «L'opera è
compiuta. Ma quante brighe! quanti rompicapi! Se avessi ora a
cominciare, non so se avrei più il coraggio di accingermi
all'impresa». Un martirio prolungato le sofferenze fisiche.
Sostenersi fra tante tribolazioni e giungere con serena
sicurezza alla meta è possibile soltanto a chi, secondo
l'insegnamento di san Paolo, fissa gli occhi sull'autore e
consumatore della fede, Gesù, che, propostosi il gaudio,
sostenne la croce, non facendo caso dell'ignominia. Dove si vede
in sostanza che questi sono trionfi riserbati alle anime
interiori.
Accostiamoci un po’ a Don Bosco per
osservarlo da presso in qualche momento più critico della sua
vita. Sant'Agostino, dopo aver detto che il Salmista, in mezzo a
pene causategli da uomini tristi, si rifugia nella preghiera,
orat multa patiens, esorta anche noi, quando fossimo similmente
in tribolazione, a fare come lui orazione: ut, communicata
tribulatione, coniungamus orationem. È la gran lezione che ci
danno i Santi, gli unici veri maestri dopo Gesù nell'arte di
ben soffrire.
Al Huysmans che in un suo succinto, ma
geniale schizzo su Don Bosco aveva necessità di omettere
moltissime cose, non parve soverchio destinare un pagina per la
domenica delle Palme del 46. Una giornata realmente di passione
per Don Bosco! Cacciato e ricacciato da ogni angolo della città,
ma seguito fedelmente da gregge sempre più numeroso, erasi
ridotto a fare in un prato perfino ciò che normalmente si
compie nelle chiese.
Ma anche là era sonata l'ora dello
sfratto. Nessuna dilazione concessa; non un barlume di speranza;
tutte le ricerche vane. Le diffidenze sollevategli contro gli
facevano chiudere la porta in faccia, dovunque si presentasse.
Il cuore si spezzava. Confessati i suoi birichini là nel
margine del prato, li condusse in pellegrinaggio al santuario
della Madonna di Campagna, distante un paio di chilometri. Che
fervore di canti, di preci, di comunioni! La celebrazione della
messa lo corroborò; ma gli si acuiva il rammarico al vedere la
schietta pietà di quei figliuoli, vicini a sbandarsi dopo tanti
sacrifici suoi per adunarli e tenerseli uniti. Nel discorsetto
li paragonò a uccelli, cui veniva gettato a terra il nido; pregassero
molto la Madonna, che ne avrebbe preparato loro un altro
migliore e più sicuro.
Durante il pomeriggio la ricreazione
ferveva nel prato; ma Don Bosco aveva il pianto nell'anima. Al
cadere del giorno, nulla di nulla; un tentativo estremo per
trarsi d'imbarazzo, fallito. Allora la natura volle
imperiosamente i suoi diritti; Don Bosco sentì un gran bisogno
di piangere. Oppresso dall'afflizione, fu visto appartarsi,
raccogliersi tutto in sé e dir alto, lagrimando, la sua
preghiera. I più grandicelli che, conoscendone le abitudini,
non si davano pace al vederlo così mesto e l'avevano seguito,
udirono quella preghiera del dolore e della speranza: - Dio mio,
Dio mio, sia fatta la vostra volontà; ma non permettete che a
questi poveri figliuoli manchi un rifugio. Il pregare non fu
vano; apparve quasi immediato l'effetto. La domenica dopo si potè
festeggiare con allegrezza la Pasqua.
Uno dei baldi giovanotti che stettero ivi a
fianco del padre nell'ora della desolazione e che ha lasciato
nella storia dell'Oratorio un nome assai simpatico, si chiamava
Giuseppe Brosio, braccio destro di Don Bosco in frequenti
occasioni. Dobbiamo alla sua penna ingenua il racconto che
segue.
Una domenica, finite le funzioni, Don Bosco
non si vedeva nel cortile fra i ragazzi. L'insolita assenza non
poteva passare inosservata. L'affezionatissimo Brosio andò in
cerca di lui, finché non lo rinvenne in una camera, molto
triste e quasi piangente. Alle sue incalzanti domande Don Bosco,
che gli voleva tanto bene, rispose che un tal oratoriano l'aveva
oltraggiato in modo da recargli grave dispiacere. Per me,
soggiunge, poco importa; mi duole soltanto che l'ingrato corre
alla perdizione. Brosio, ferito nel cuore, più non si tenne,
ma, con la furia del popolano che va in bestia, si avventava
fuori per correre e dare all'insolente una lezione sonora. Don
Bosco, mutato aspetto, fece in tempo a fermarlo, dicendo
pacatamente: - Tu vuoi punire l'offensore di Don Bosco; hai
ragione faremo insieme la vendetta: sei contento? - Sì, rispose
con energia il garzone, cieco di collera. Don Bosco soave soave
lo piglia per mano, lo conduce in chiesa, lo fa pregare accanto
a sé, e rimane a lungo in orazione. Dovette aver pregato anche
per il vicino, che in un attimo passò dall'ira all'amore.
Usciti che furono, Don Bosco paternamente gli disse: - Vedi, mio
caro, la vendetta del cristiano è perdonare e pregare per
l'offensore.
Quante occasioni, anche tragiche, si
presentarono all'uomo di Dio per mettere in pratica il santo
ammonimento! Dal 48 al 54 furono anni di attentati veri e propri
alla sua esistenza. Una palla di fucile, a lui diretta mentre
faceva il catechismo, gli forò la manica fra il braccio
sinistro e il petto. Due sicari, appostati all'oscuro in un
canto di Piazza Castello, erano li lì per pugnalarlo, quando
accorse gente.
Due volte, chiamato al letto di finti
moribondi, mandò a vuoto con la sua presenza di spirito
diabolici tentativi di sopprimerlo, avvelenandolo o
massacrandolo. Per ben tre volte scansò, vittima designata, la
ferocia di un terribile accoltellatore prezzolato. In camera sua
minacciato con arma da fuoco, dovette la salvezza all'irrompere
di chi, sospettando, stava alle vedette. Sulla strada di
Moncalieri un formidabile colpo di randello gli avrebbe
fracassato la nuca, se l'aggressore, nell'atto di
assestarglielo, non fosse andato, per un suo provvidenziale
spintone, a ruzzolare nel borro vicino.
E i quattro mortali pericoli, da cui lo
scampò il cane misterioso? I mandanti, malfattori d'alto bordo,
appiattati nell'ombra, armavano mani omicide e moltiplicavano
gli assalti, perché Don Bosco non intendeva disarmare nella sua
lotta implacabile, ma leale pro Ecclesia et Pontifice, mezzo
soprattutto delle temute Letture Cattoliche. Tanti e si brutti
rischi, che avrebbero sgomentato uomini non privi di coraggio, a
lui non scemavano nemmeno la calma nelle ordinarie occupazioni,
sicché entro casa e poco e da pochi si conoscevano le sue
peripezie. Quale spirito superiore lo animasse nell'azzardosa
campagna, egli stesso ce l'apprende.
Nel 53, a due signori che, ricevuti
cortesemente, erano trascesi a truculente minacce per forzarlo a
smettere quella pubblicazione periodica, disse chiaro e tondo:
«Facendomi sacerdote, io mi sono consacrato al bene della
Chiesa Cattolica e alla salute delle anime, particolarmente
della gioventù. Loro non conoscono i preti cattolici;
altrimenti non si abbasserebbero a queste minacce. Sappiano che
i sacerdoti della Chiesa Cattolica, finché sono in vita,
lavorano volentieri per Iddio; che se nel compiere il proprio
dovere avessero a soccombere, riguarderebbero la morte come la
più grande fortuna e la massima gloria».
Ci tenne pure a dichiarare che egli non
avrebbe mai opposto violenze a violenze, perché «la forza del
sacerdote sta nella pazienza e nel perdono». Infatti chi dopo
simili incontri avesse cercato Don Bosco, l'avrebbe trovato a
ringraziare il Signore e la Vergine, a pregare per gli
sciagurati persecutori, a pensare dinanzi a Dio come rendere
bene per male e a ritemprare l'animo nella comunicazione col suo
Signore.
Le aggressioni a mano armata
s'intercalavano ad assalti più prosaici, ma assai più
numerosi: a quelli dei fornitori e dei creditori. Nel condurre
avanti opere di religione e di carità, Don Bosco si vedeva
sovente ridotto in durissime strettezze: le quali però non gli
toglievano di trarre dalle profondità della fede alimento
perenne a una santa allegrezza e pace. Dio è un buon padre,
diceva; egli provvede agli uccelli dell'aria e non lascerà
certamente di provvedere a noi. Quanto a sé e alla sua
missione, ragionava così: - Di queste opere io sono soltanto
l'umile strumento; l'artefice è Dio. Spetta all'artefice e non
allo strumento provvedere i mezzi di proseguirle e condurle a
buon fine. Egli lo farà, quando e come giudicherà meglio; a me
tocca solo di mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani.
Tale abitudine a guardare le cose dai tetti
in su gli faceva dire nei sermoncini della sera: «Pregate,
coloro che possono, facciano la santa comunione secondo la mia
intenzione. Vi assicuro che prego anch'io! anzi prego più di
voi. Mi trovo in gravi imbarazzi! Ho bisogno di una grazia. Vi
dirò poi quale sia». Alcune sere dopo manteneva la parola,
raccontando, per esempio, di un ricco signore venuto a portargli
la somma sufficiente, e soggiungeva: «La Vergine Santissima
oggi, oggi stesso, vedete, ci ha ottenuto un sì segnalato
beneficio. Ringraziamola di cuore. Intanto continuate a pregare;
il Signore non ci abbandonerà. Ma se nella casa entrasse il
peccato, poveri noi! Il Signore non ci soccorre più. Attenti
dunque a respingere le insidie del demonio e a frequentare i
sacramenti».
Sono spizzichi di parlatine che giovani
interni scrivevano letteralmente sera per sera e che i nostri
archivi custodiscono gelosamente, perché eco fedele della voce
paterna, e documento prezioso della verità di quanto egli
asseriva pubblicamente nel 76: «Non abbiamo mezzi umani; ma noi
siamo soliti alzare gli occhi in su». Se non che, la prova
migliore che un uomo ha continuamente il cuore in Dio e Dio nel
cuore, sta in quel mutare fortitudinem, in quel pigliare sempre
nuove forze, dove tutto parrebbe congiurare a prostrarle:
stabilità, che è partecipazione intima dell'immutabilità
divina. «Durante trentacinque anni io, attesta il Cagliero, non
mi ricordo di averlo veduto un sol istante infastidito
scoraggiato e inquieto per il sostentamento de' suoi giovanetti».
Alla ferocia delle violenze passeggere,
all'assillo delle angustie quotidiane, s'aggiungano fatti
dolorosi, che lo colpivano nei sentimenti più cari. Valga per
tutti il brutto caso occorsogli nel centenario di san Pietro.
Uno dei grandi amori di Don Bosco fu sempre
il Papa. In tempi ostilissimi al Papato egli spiegò per il
Romano Pontefice uno zelo operosissimo, messo a dure prove, ma
conosciuto pienamente dall'una e dall'altra sponda. Toccare Don
Bosco nell'amore al Vicario di Gesù Cristo era ferirlo nella
pupilla degli occhi. Eppure Dio permise che neanche questa
tribolazione gli fosse risparmiata.
Per la solenne ricorrenza mondiale aveva
egli dato alle stampe nelle Letture Cattoliche un suo fascicolo
sul Principe degli Apostoli, operetta che incontrava molto
favore; quando, che è che non è, si viene a sapere che il suo
libro è stato da taluno deferito alla sacra Congregazione
dell'Indice. Un fulmine a ciel sereno! Egli ricevette poi
d'ufficio la relazione di un Consultore: una requisitoria grave,
severa, financo rude verso la persona dell'autore, quasi che
avesse attentato a infirmare l'autorità pontificia con erronee
dottrine. Don Bosco molto pregò, molto si consigliò, poi mise
in scritto una rispettosa risposta.
La notte prima d'inviarla a Roma, chiamò
uno de' suoi per la trascrizione calligrafica; la qual
circostanza ci ha permesso di conoscere cosa che altrimenti
sarebbe rimasta sepolta nelle tenebre di quelle ore. Nel
silenzio notturno il calligrafo udiva commosso dalla camera
attigua i sospiri e le parole tronche di Don Bosco: erano
accenti d'infocate preghiere. A mezzanotte, aperto dolcemente
l'uscio e osservato il lavoro: - Hai visto? domandò. Sì, ho
visto com'è trattato Don Bosco. Allora il caro Padre, guardando
il Crocifisso: - Eppure, o mio Gesù, esclamò, tu lo sai che ho
scritto questo libro con buon fine! Ah!
tristis est anima mea usque ad mortem ! Fiat voluntas tua! Non
so come passerò questa notte. O
mio Gesù, aiutatemi voi! Come Don Bosco abbia passato il resto
della notte, Dio solamente lo sa; noi sappiamo che alle cinque,
il segretario, rimessosi al tavolino per ultimare la copia,
vedeva Don Bosco tutto sereno e tranquillo scendere, secondo il
solito, a confessare e a celebrare; dopo di che egli sembrava
proprio un altro, tanta giovialità gli brillava in viso.
La difesa partì. Pio IX stesso arrestò la
procedura. Intanto, riesaminatosi l'affare, tutto si ridusse a
due ritocchi da eseguirsi in una nuova edizione. Grossa tempesta
dunque in un bicchier d'acqua; ma per Don Bosco fu un colpo
fierissimo. La preghiera umile che ne aveva rinfrancato lo
spirito nei giorni della tristezza, si mutò in azione di grazie
alla Madonna, tostoché il cielo si rifece sereno.
Ma che è un incubo di quattro mesi
rispetto a un'oppressione protrattasi immutabile per lo spazio
di ben dieci anni? Disperda il vento ogni amara parola; le
polemiche ripugnano troppo anche all'indole di questo lavoro. La
storia farà il dover suo; anzi è già in cammino a farlo.
L'eroismo della santità di Don Bosco giganteggia in quei due
lustri. Per noi, sarebbe una grave lacuna, dove si discorre
dell'unione di Don Bosco con Dio nelle tribolazioni, passare
sotto silenzio proprio la tribolazione che fu per lui la più
sensibile e la più sentita. Noi abbiamo qui da una parte Don
Bosco che cerca ogni via per appianare i dissensi, e dall'altra
persone che sembrano studiarle tutte per moltiplicare
gl'incidenti e inasprire le cose.
Dieci anni di questi dolorosi contrasti
sono lunghi e dovrebbero stancare la pazienza di Giobbe. Eppure
il nostro buon Padre, sempre mite, ogni volta che fosse
costretto a parlare dell'angosciosa vessazione, un desiderio
solo, un solo rammarico aveva da esprimere; quello scritto in
una sua lettera al cardinal Nina: «Non ho mai domandato, non
mai domanderò se non pace e tranquillità, a fine di lavorare
nel sacro ministero in favore delle anime esposte a tanti
pericoli». Per Don Bosco non c'erano che anime; il resto, buon
nome, riputazione, interessi contingenti, non contavan nulla.
Abbeverato di amarezze, che faceva egli dunque? Effondersi in
preghiera è il conforto del giusto perseguitato, dice il Salmo;
unire alla pazienza nella tribolazione l'assiduità
nell'orazione è, secondo l'Apostolo, la pratica dei Santi.
Negli Atti processuali, c'imbattiamo in tre
righe, nelle quali quel periodo infausto è definito «il
crogiuolo che purificò l'oro della sua virtù da ogni scoria
mondana, rendendolo eminente soprattutto nello spirito di fede e
nell'unione con Dio». Riguardo agli autori delle tribolazioni,
«io so», depone Don Rua, «che non si contentava di
perdonarli, ma pregava e ci faceva pregare per loro».
Per una cosa Don Bosco non pregò mai, per
la guarigione dalle infermità che lo travagliavano, pur
lasciando che pregassero gli altri a esercizio di carità. Le
sofferenze fisiche accettate con si perfetta conformità al
volere di Dio sono atti di grande amor divino e penitenze
volontarie; ma bisogna vedere fino a che grado! Non furono né
pochi né lievi i malanni, a cui Don Bosco, andò soggetto in
tutto il tempo del suo vivere. Non è davvero iperbole il dire
anche di lui che la sua carne non ebbe mai sollievo. Sputi
sanguigni, cominciati sul principio del suo sacerdozio e
rinnovantisi periodicamente. Dal 43, mal d'occhi con bruciore e
in ultimo perdita completa di quello destro. Dal 46, enfiagione
alle gambe e ai piedi, cresciutagli di anno in anno,
obbligandolo all'uso di calze elastiche, perché la carne
afflosciata, come vide chi gli rendeva il pietoso ufficio di
aiutarlo a scalzarsi, scendeva a coprirgli l'orlo delle scarpe!
Dio sa come facesse a resistere in piedi ore e ore! Egli chiamò
questa gonfiezza la sua croce quotidiana. Forti dolori al capo,
si da parergli che il cranio gli si fosse dilatato; atroci
nevralgie, che gli torturavano per intere settimane le gengive;
ostinate insonnie; digestioni a volte assai laboriose;
palpitazione di cuore fino a sembrare che una costa avesse
ceduto all'impulso.
Negli ultimi quindici anni, febbri
intermittenti con eruzioni cutanee; poi sull'osso sacro
un'escrescenza di carne viva, grossa come una noce,
immaginiamoci con quanta sua pena sedendo o posando in letto. Di
questa tribolazione, per motivi facili a intendersi, non fiatò
mai con chicchessia, neppure col medico, che mediante un piccolo
taglio vi avrebbe tosto rimediato, come fu fatto nell'ultima sua
malattia. Ai familiari, accortisi d'un suo disagio a star
seduto, si contentò di dire: - Sto meglio in piedi o
passeggiando. Mi dà fastidio il sedermi.
Un'altra di queste croci, della quale si
ebbe vaga notizia, ma senza che mai se ne conoscesse l'entità,
fu rivelata dopo la sua morte. La portava fin dal 45. Essendo in
quell'anno scoppiata al Cottolengo l'epidemia petecchiale, Don
Bosco, che vi faceva frequenti visite di carità, contrasse il
morbo, conservandone poi sempre le tracce. Il curatore della
salma vide cosa da far pietà: una specie di èrpete diffusa su
tutta la cute massime nelle spalle. Più orribile cilicio non
l'avrebbe potuto straziare!
Nel quinquennio estremo, indebolimento
della spina dorsale, per cui lo vedevamo andar curvo penosamente
sotto il peso di tante croci, sorretto con filiale pietà da
braccia vigorose.
Una celebrità medica francese nell'80,
visitatolo infermo a Marsiglia, disse che il corpo di Don Bosco
era un abito logoro, portato dì e notte, non più suscettivo di
rammendamenti e da riporsi per conservarlo come stava. Un altro
medico, il suo medico curante, lasciò scritto che «dopo il
1880 circa, l'organismo di Don Bosco era quasi ridotto ad un
gabinetto patologico ambulante».
Orbene, con tutta questa serqua di mali,
mai un lamento, mai il menomo indizio d'impazienza; anzi,
lavorare al tavolino, confessare a lungo, predicare, viaggiare,
come chi gode perfetta salute; più ancora, sempre di buon
umore, sempre giulivo nell'aspetto e incoraggiante nel parlare.
Invitato a pregare il Signore, perché lo liberasse da un
incomodo rispose: - Se sapessi che una sola giaculatoria
bastasse a farmi guarire, non la direi. Don Bosco, guardando i
suoi mali in Colui che glieli mandava, li trovava tanto più
amabili, quanto maggiore ne era il numero e il travaglio.
Questo solo fatto ci discopre tale un
abisso d'interiorità, che quasi non ci si crederebbe, se non si
sapesse quanto sia ammirabile Dio ne' suoi Santi. Esso ci porge
il destro di richiamare una ben fondata dottrina del Taulero.
Dice il Doctor sublimis: «Di tutte le preghiere fatte da Gesù
nella sua vita mortale, la più alta ed eccellente è quella
innalzata al Padre, quando disse: Padre mio, si faccia non la
mia, ma la tua volontà. Preghiera la più glorificatrice del
Padre e a Lui più accetta; preghiera la più giovevole agli
uomini e la più terribile ai demoni.
Mercè questa rassegnazione della volontà
umana di Gesù, noi tutti, volendo, ci salviamo. Ecco perché la
maggiore e più perfetta letizia dei veri umili sta nel fare
esattissimamente la volontà di Dio». Ed ecco dunque una
preghiera che Don Bosco seppe fare a perfezione durante il corso
della tanto tribolata sua esistenza.
CAPO IX. - In contrattempi di vario genere.
Due pericoli minacciano seriamente gli
uomini di azione; sono quelli indicati da Gesù nel sollicita es
nel turbaris, che Egli rimproverò a Marta, cioè preoccupazione
di pensieri e inquietudine di sentimenti: due cose tanto facili
a riscontrarsi nelle persone costrette a spartire la loro
attività erga plurima. Per non incapparvi ci vuole l’unum
necessarium prescelto da Maria, cioè non perdere di vista
l'unione con Dio. La nave con tutto il carico solca diritta e
sicura le onde, finché il metacentro è al suo posto; allora
essa possiede stabilità di equilibrio non solo, ma anche
energia, diciam così, a ritornarvi, ogni volta che
momentaneamente a causa del mareggio sia sbandata. Metacentro
della vita attiva è appunto questa unione con Dio, che o
impedisca sbandamenti o ristabilisca presto il regolare
equilibrio.
Quante ondate colpiscono improvvise la
nostra povera navicella! Non patire in simili contrattempi
nemmeno il più piccolo sobbalzo visibile è privilegio molto
raro d'uomini così uniti al Signore da essere letteralmente un
solo spirito con lui, secondo l'espressione di san Paolo. Che
Don Bosco sia stato uno di questi uomini privilegiati, ci porta
a crederlo anche il suo fare e il suo dire in presenza di
accidenti fortuiti, repentini e fastidiosi, i quali, pur
contrariandolo bruscamente e di sorpresa, non ne scotevano né
punto né poco la vigile calma consueta: cosa propria di chi
dovunque e sempre si trovi nel suo centro.
Don Bosco ebbe grossi contrattempi per
subiti disastri in opere murarie. Nel 52, nottetempo, crollò
buona parte d'una fabbrica in costruzione, tirata su Dio solo
potrebbe dire con quanti e quali sacrifici. I giovani, svegliati
di soprassalto, scapparono dai dormitori; ma s'imbatterono in
Don Bosco che, raccoltili intorno a sé, li condusse in chiesa a
ringraziare Dio e la Vergine, che li avevano scampati da
maggiori pericoli. Poche ore dopo, durante la ricreazione, ecco
nella rimanente fabbrica, arrivata già fino al tetto, piegarsi
i pilastri, sfasciarsi le pareti e il tutto precipitare in un
cumulo di macerie. Alla nuova disgrazia che annientava
repentinamente sforzi e speranze di gran rilievo, Don Bosco,
attonito ma sereno, celiando disse: - Abbiamo giocato a
mattonelle! Indi con la massima pace in volto e con accento
paterno proseguiva: - Sicut Domino placuit; sit nomen Domini
benedictum. Pigliamo
tutto dalla mano del Signore; egli terrà conto della nostra
rassegnazione. Piuttosto, ringraziamo Dio e la Beata Vergine,
perché nelle dolorose vicende che opprimono oggi l'umanità, vi
sia sempre la mano benefica che mitiga le nostre sventure.
Una sua lettera, scritta di li a tre
giorni, ci rivela, insieme con la pena provata, anche la santa
pace che gli regnava nell'anima: «Ho avuto una disgrazia: la
casa posta in costruzione rovinò quasi interamente, mentr'era
già quasi tutta coperta. Tre soli furono lesi gravemente, niuno
morto; ma uno spavento, una costernazione da far andare il
povero Don Bosco all'altro mondo. Sic Domino placuit».
Nel 61, a mezzanotte, un formidabile
rimbombo scosse dalle fondamenta l'Oratorio. Un fulmine,
penetrato nella camera di Don Bosco, vi mise tutto a soqquadro,
lasciando lui mezzo fuori dei sensi. Il suo primo pensiero volò
ai giovani che dormivano nel piano superiore, e li raccomandò
fervidamente alla Madonna. Ce n'era bisogno! La scarica
elettrica, passata anche di là violentissima, aveva squarciata
la volta e riempito di terrore gli animi, sicché il panico
minacciava di fare ciò che il fulmine non aveva fatto.
In una confusione babelica di urli,
fracassi e tenebre, ecco su per calcinacci e mattoni avanzarsi
con il lume in mano la figura dolce e sorridente di Don Bosco.
Non abbiate paura, dice con voce rassicurante, abbiamo in cielo
un buon Padre e una buona Madre che vegliano su di noi. Come Dio
volle, il trambusto si sedò; Don Bosco, accertatosi che le vite
erano salve, diede in un Deo gratias, che
gli veniva proprio dal cuore, e poi continuo: - Ringraziamo,
ringraziamo il Signore e la sua santissima Madre! Ci hanno
preservati da un grave pericolo. Guai se la casa pigliava fuoco!
Chi si sarebbe salvato? - Né d'altro più sollecito in quei
primi istanti, fattili inginocchiare ivi stesso dinanzi a
un'immagine di Maria, recitò con loro le litanie lauretane.
Più tardi i chierici salirono a fargli
visita, desiderosi di assicurarsi se il buon Padre avesse
sofferto. Era già la terza volta che il fulmine gli dava briga;
ma questa volta con effetti assai più sensibili e duraturi che
non le altre due. Si restrinse però a dire:
- Questa di oggi è una delle maggiori
grazie ottenuteci dalla Madonna. Ringraziamola di cuore! Infatti
ulteriori indagini misero in chiaro, che era mancato un nonnulla
a succedere un'ecatombe.
Fu fatta la proposta di collocare un
parafulmine. Sì, rispose Don Bosco, lassù collocheremo una
statua della Madonna. Maria ci parò così bene dal fulmine, che
sarebbe ingratitudine confidare in altro. Una statuetta della
Vergine, vero palladio dell'Oratorio primitivo, sta ancora là
ad attestare la filiale pietà di Don Bosco verso la potente
Regina del Cielo.
Prima che quell'anno finisse, il cedimento
di un voltone sotterraneo in una recente fabbrica gettò negli
animi gran trepidazione. Don Bosco, ricondotta ne' suoi la
calma, osservò senza scomporsi:
- Il demonio ha voluto di nuovo mettere qui
la sua coda; ma avanti, e niente paura!
Il medesimo abbandono nelle mani di Dio
ritroviamo in lui già vecchio, di fronte a un contrattempo
analogo ai precedenti. Ventiquattr'anni dopo, proprio durante il
solenne pranzo d'addio a una schiera di missionari, scoppiò nel
laboratorio dei legatori l'incendio. Non lungi dal fuoco stavano
ammonticchiati i bagagli dei partenti. Si sa bene il finimondo
che succede in simili circostanze: una casa va tosto in
subbuglio. Don Bosco, tutt'altro che indifferente al triste
caso, non si mosse dal refettorio, ma rimase là silenzioso e
assorto. Ogni tanto chiedeva se ci fossero disgrazie personali;
udito che no, rientrava nel suo raccoglimento. Riferitogli che i
danni ascendevano a centomila lire: - È grave! esclamò. Ma il
Signore dà, il Signore toglie. Egli è il padrone.
Il Niente ti turbi di santa Teresa, con cui
Don Bosco nell'assegnare uffici di responsabilità premuniva i
suoi dagli effetti immediati delle brutte sorprese, veniva in
soccorso a lui stesso anche in certi contrattempi, che per sé
non apportano gravi inconvenienti, ma che tuttavia disturbano
non poco lì per lì e disorientano chi non ha fatto l'abitudine
a pensare sempre che non cade foglia senza che Dio lo voglia.
L'imperturbabilità è tanto più rara in
tali disappunti, quanto più sembra ivi al tutto naturale
qualche scatto nervoso; onde il conservarvisi invariabilmente e
amabilmente sereni è prerogativa d'uomini immersi con tutta
l'anima in Dio. Chi, a mo' d'esempio, dovendo viaggiare, non ha
avuto qualche volta l'incresciosa contrarietà di perdere la
corsa? È un fatto banale; ma può essere occasione improvvisa a
rivelare il vero interno di una persona.
Un giorno Don Bosco, sceso dal treno in
Asti e trattenutosi un po' nella stazione per un affare, non
fece in tempo a prendere la corriera, che doveva portarlo a
Montemagno, sicché gli bisognava aspettare là più ore. Non si
scompose: attaccò discorso con un gruppo di giovanotti,
inducendoli a confessarsi, e a farlo subito, e a farlo nel
prossimo albergo. Un'altra volta, perduto il treno da Trofarello
a Villastellone, senza alterarsi, cavò di tasca un fascio di
bozze e fece la strada a piedi correggendo. Raggiunta la mèta,
levò pacatamente gli occhi dall'ultimo stampone, dicendo al
compagno: - È proprio vero che anche le disgrazie sono sempre
utili a qualche cosa. Nemmeno a casa avrei potuto fare tanto
lavoro, quanto ne ho fatto, grazie a questo incidente.
Una mattina, dovendosi recare per ferrovia
a un paese non guari lungi da Torino, aveva stabilito di
celebrare colà il santo sacrificio. Esce di camera, ed ecco un
chierico che ha bisogno di dirgli due parole all'orecchio; Don
Bosco si ferma e lo ascolta. Scende la scala, ed eccone un altro
che desidera parlargli; Don Bosco si ferma e lo ascolta. Giunge
all'ultimo gradino, ed eccoti un terzo chierico che lo attende;
Don Bosco tranquillo s'intrattiene con lui. Fa per attraversare
il portico, ed ecco là preti e chierici a circondarlo; Don
Bosco dà soddisfazione a ognuno. Finalmente può incamminarsi
per il cortile verso la porta: ma ecco la voce di un giovanetto,
che gli corre dietro chiamandolo; Don Bosco si arresta, si volta
e risponde alle sue domande. Il treno però non aspetta: quando
arrivò alla stazione, la locomotiva lanciava il vecchio fischio
della partenza; Don Bosco fece fronte indietro, andò a dir
messa in città e partì con la seconda corsa.
A rendere il superiore così
compassionevole e amorevole come in quest'ultimo caso, ci vuole
il commercio abituale con Dio, dice san Bonaventura; solo Colui
che è bonitatis oceanus gl'infonde nell'orazione quella soavità,
per cui egli si fa tutto a tutti.
Ma i peggiori contrattempi toccarono a Don
Bosco da parte degli uomini: da parte di umili, da parte di
ragguardevoli, da parte di autorevoli.
Umile persona il buon coadiutore che,
ottenuto di andare in America e destinato a Santa Cruz
nell'Argentina, cedette allo sconforto, abbandonò la casa e si
ritrasse nella fattoria di un colono. L'inattesa notizia
afflisse l'uomo di Dio, che ordinò di farlo tornare in Italia.
Alla difficoltà sulla forte spesa del viaggio, rispose calmo e
risoluto: - Non si badi a spesa, quando si tratta di salvare
un'anima.
Umile persona il buon cuoco dell'Oratorio.
Una sera a Don Bosco, che, finito tardi di confessare, veniva a
cena dopo la mensa comune, mandò una minestra di riso stracotto
e freddo. L'inserviente, sapendo già per esperienza che Don
Bosco non vi avrebbe fatto caso, né bastandogli l'animo di
presentargli un avanzaticcio di quella sorta, ne rampognò il
brav'omo, dicendogli risentito: - Questa roba per Don Bosco? -
Ma l'altro, fuor dei gangheri: - E chi è Don Bosco? È uno come
gli altri. L'inserviente o per la stizza o per iscagionarsi
riferì tali e quali le insane parole. Don Bosco, recando con
indifferenza il cucchiaio alla bocca, disse bonariamente: - Oh,
il cuoco ha tutte le ragioni.
Umile persona il buon refettoriere, che,
ammonito da Don Bosco stesso, perché non aveva cambiata in
tempo la tovaglia sudicetta, non sofferse il paterno rimprovero,
ma gli scrisse una lettera, insolentendo fino a dirgli che
quella era stata la prima volta che aveva visto Don Bosco col
volto serio. Il Servo di Dio, non che adontarsi, appena lo
incontrò, chiamatolo a sé e alludendo alla famigerata
espressione, che aveva fatto il giro dell'Oratorio, gli disse
con bontà: - Non sai che Don Bosco è un uomo come tutti gli
altri? - Da san Paolo a noi, ogni uomo veramente di Dio si è
stimato sempre debitore a tutti, agli stolti non meno che ai
savi. E per tornare a san Bonaventura, è il commercio con Dio
che rende umile il cuore del superiore: devotio cor humiliat.
Personaggio ragguardevole l'abate Amedeo
Peyron, filologo e orientalista di grido, professore nella Regia
Università di Torino. Presiedeva egli un'adunanza di sacerdoti,
riuniti per interessi del loro ministero. Caduto il discorso
sulle necessità di moltiplicare le pubblicazioni educative
adatte al popolo, Don Bosco, presa la palla al balzo, raccomandò
le sue Letture Cattoliche. Non l'avesse mai fatto! Il
presidente, quasi non aspettasse altro, vuotò il sacco,
inveendo contro i difetti di lingua di grammatica e di stile,
che inquinavano quei libercoli. L'autorità dell'uomo, la foga
del dire, la causticità di certe frasi fecero rimanere tutti a
bocca aperta.
Il Servo di Dio Leonardo Murialdo, che era
fra gli uditori, mortificato per la cattiva figura dell'amico,
conscio inoltre che parecchi degli astanti avevano poca simpatia
per Don Bosco, aspettava trepidante com'egli si sarebbe
contenuto e in che modo avrebbe risposto. Non ignorava nemmeno
quanta sia la suscettibilità degli autori al sentirsi
criticare, non che mettere alla berlina in pubblico. Don Bosco,
cessata la gragnuola, parlò così: - Sono qui apposta per avere
aiuto e consiglio. Mi raccomando a loro: mi dicano quanto
trovano da correggere, e io volentieri correggerò. Anzi, sarei
ben fortunato se altri, più buono scrittore di me, volesse
rivedere i singoli fascicoli. Il teologo Murialdo respirò.
Riandando poi nel 96 quel drammatico episodio diceva d'aver
pensato fra sé e sé fin d'allora: - Don Bosco è un santo.
Anche con altri ragguardevoli
ecclesiastici, non certo per malevolenza loro, ma per
preconcetti. Don Bosco ebbe noiosissimi incontri, nei quali
emerse quel totale distacco da sé, che è frutto del non mai
interrotto contatto con Dio, la cui pace sovrana domina pensieri
e sentimenti umani. Dov'è il Signore, ivi non è commozione. In
una cospicua città fuori d'Italia, ove di fresco, aveva aperto
un collegio, recatosi a visitare un importante istituto
religioso, vi ricevette dopo lunga anticamera accoglienze peggio
che glaciali. Appena rivarcata la soglia, colui che accompagnava
Don Bosco, sbottò. Sta' allegro, sta' allegro, fece Don Bosco;
saranno essi più confusi di noi per averci trattati a quel
modo. Poscia senz'ombra di turbamento passò a ragionare di cose
più importanti.
Nella medesima città, durante una visita
di Don Bosco al collegio, l'ottimo parroco locale per uno di
quegli accessi d'impulsività, non tanto infrequenti a questo
mondo fra persone ben intenzionate, investì il Servo di Dio con
inaudita violenza di linguaggio, accanendosi a lungo. Don Bosco,
data giù la burrasca, sollevò un tantino il capo
nell'atteggiamento di chi chiede umilmente di parlare e disse
così: - Signor Curato, Ella ha ragione di lamentarsi; mi
rincresce che non siasi potuto corrispondere pienamente ai suoi
desideri; Ella è nostro benefattore; io ricordo con
riconoscenza il bene da Lei fattoci; faremo sempre di tutto per
servirla. Io morrò presto; ma ho lasciato nel testamento al mio
successore che si preghi per Lei. Ogni parola di Don Bosco
scendeva mite rugiada sull'animo esacerbato del fiero
riprensore, che alla fine chiese perdono e gli fu più amico di
prima.
Apriamo un intermezzo a proposito di
giornali. Ci sarebbe con che alzare un bel monumento, radunando
e mettendo gli uni su gli altri i tegoli venuti a cadere,
improvvisi, sull'Oratorio e su Don Bosco da redazioni di
gazzette d'ogni colore. Chi scrive, ha un ricordo personale
indelebile e molto penoso. La prima volta che fanciullo intese
il caro nome di Don Bosco fu per una vignetta di un giornalaccio,
dove una figura mostruosa e una vilissima iscrizione travisavano
in modo incredibile la sua carità per la gioventù povera e
abbandonata. Ma lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti,
tanto più che, anche da vivi, Don Bosco li lasciava abbaiare
alla luna; anzi non tollerava vendette, ritorsioni o rancori
contro i denigranti, pago che in favor suo parlassero le opere.
Ai colpi obliqui della stampa egli, levando
occhi e mani al cielo, soleva ripetere con ferma fede
espressioni simili a queste: - Eh, là, pazienza! Anche questo
passerà! Buona gente, se la prendono con Don Bosco, che non
cerca se non di fare del bene! Avremo dunque da lasciare che si
perdano le anime? Avversano senza saperlo l'opera di Dio. Saprà
ben Egli sventarne le trame!
Ma più che non impronta loquacità di
gazzettieri, offende savi e santi l'atteggiamento sfavorevole di
chi è depositario dell'autorità. Don Bosco, che per sua stessa
confessione aveva sortito da natura indole focosa e altera, né
poteva soffrire resistenza, che brutti quarti d'ora dovette
passare ogni volta che, anelante solo alla gloria di Dio e al
bene delle anime, si vide attraversata od ostacolata la via da
autorevoli rappresentanti dell'una o dell'altra parte! Ma la
natura, avvalorata con le soprannaturali energie della grazia,
faceva allora di Don Bosco l'uomo più conciliante e pacifico
del mondo.
In tempi di pubbliche agitazioni, quante
volte le autorità dello Stato, istigate dalle sette,
aggravarono improvvisamente la mano su Don Bosco! e quante volte
egli, presentandosi anche ai più mal disposti, ne soggiogò gli
animi e li ridusse a miti consigli! Ma prima di scendere in
lizza, si rivolgeva a Dio nella preghiera, sperimentando quanta
fosse l'efficacia di questa a muovere i cuori dei potenti. Con
questo mezzo, diceva ai suoi, se sarà bene, si otterrà quanto
si desidera; e ciò ancorché si domandasse a chi non nutre per
noi né affetto né stima. Dio toccherà in quel momento il
cuore dell'uomo, affinchè accolga favorevolmente la nostra
proposta. Ecco la fonte del suo magnanimo ardire in contingenze
aspre e sconcertanti.
Nel 62 si voleva a ogni costo fargli
chiudere le scuole dell'Oratorio. Il regio provveditore agli
studi gli accordò un'udienza dopo due ore di attesa; poi lo
ricevette, egli pomposamente seduto in poltrona e Don Bosco di
fronte a lui in piedi. Prima che il Servo di Dio aprisse bocca,
il funzionario gli rovesciò addosso un diluvio di male parole,
scagliandosi senz'alcun ritegno contro preti e frati, contro il
Papa e Don Bosco, contro le sue scuole e i suoi libri; se non
che, al vederlo là sempre calmo e immobile e non accennante mai
a difendersi, gli diede dell'imbecille, e punto fermo.
Allora prese Don Bosco la parola. In tono
grave e mansueto lo pregò anzitutto di osservare che tutto il
detto fino a quel momento non aveva proprio nulla da fare con lo
scopo della sua venuta; quindi passò ad esporgli il perché
della visita. Il provveditore, che non aveva mai avuto occasione
di trattare con uomini come Don Bosco, non credeva a' suoi occhi
né alle sue orecchie; da ultimo si sentì dentro cresciuta di
tanto la stima e la benevolenza verso lo svillaneggiato di
poc'anzi, che, diventato un altro, lo colmò di gentilezze e gli
si mantenne ognora amico e protettore. Don Bosco potè, ma non
quella volta solamente, far sue, con le dovute modificazioni,
parole di Neemia: Ho fatto preghiera al Dio del cielo e quindi
ho detto al re... e il re mi ha conceduto ogni cosa, perché la
mano aiutatrice del mio Dio era meco.
Lo spirito di orazione, che il Servo di Dio
Contardo Ferrini chiama «festa dei santi pensieri», ha
realmente questo di proprio, che suscita nell'animo pensieri
lietamente santi e santamente lieti, anche in circostanze che
per sé imbarazzano e sconcertano. Che fastidio per Don Bosco,
«fedele e assennato servo della Chiesa», come lo proclamò Pio
XI nel discorso dei miracoli, allorché nascevano contrattempi
con autorità ecclesiastiche! Ma con che agilità di mente
sapeva, conciliare i doveri della sudditanza e i diritti della
giustiziai Egli cercava in Dio la soluzione di nodi umanamente
inestricabili.
Un documento d'archivio reca in margine
questa noticina di mano estranea: «Povero Don Bosco! Se non era
Iddio con lui, non sarebbe riuscito». Trattasi di una relazione
ufficiale stesa e trasmessa alla sacra Congregazione dei Vescovi
e Regolari da un eccellente Monsignore, incaricato ufficioso
della Santa Sede presso il Governo subalpino. Vi si dipinge la
vita dei chierici di Don Bosco a tinte così fosche da dovere
per forza far rinviare alle calende greche la tanto sospirata
approvazione della Società Salesiana.
Il buon prelato giudicava come chi, senza
comprender nulla di Don Bosco e del suo spirito, applica criteri
vecchi a metodi, che nella loro semplicità capovolgono
tradizionali concezioni pedagogiche. Messo a conoscenza della
cosa, Don Bosco intuì le disastrose conseguenze di quel
referto; ma nell'informarne il Capitolo della Società usò
termini del più delicato riguardo verso l'autore; anzi
ripetutamente lo ricevette nell'Oratorio con sincere
dimostrazioni di rispetto e, presentatasi l'occasione di fargli
del bene, lo fece Corde magno et animo volenti.
Le trattative per l'approvazione della
Società costrinsero il Servo di Dio a inghiottire pillole ben
più amare! Egli teneva già commendatizie individuali di molti
Vescovi; ma gli sarebbe giovato averne anche una collettiva
dagli Ordinari della provincia ecclesiastica torinese. Il
momento opportuno venne, quando l'Arcivescovo Riccardi convocò
i suffraganei nell'imminenza del Concilio Vaticano. Don Bosco
presentò dunque la sua supplica umilissima, perché fosse letta
nell'assemblea in cui contava alti protettori. L'esito non gli
pareva dubbio. Ma purtroppo le prevenzioni intorbidirono le
acque; onde gli toccò sorbirsi la mortificazione di una
risposta tanto più cortese nella forma quanto più evasiva
nella sostanza. Amaramente deluso: Pazienza esclamò. Sia tutto
per amor di Dio e della Santa Vergine!
Durante un soggiorno a Roma per
quest'affare dell'approvazione una sgraditissima sorpresa
gl'incolse proprio alla vigilia della partenza. A Roma era stato
oggetto di simpatia da parte di cittadini d'ogni ordine. Mentre
dunque si trovava in visita di congedo presso l'eccellentissima
famiglia Vitelleschi, ecco venir annunciato il cardinal Altieri,
al quale egli non aveva trovato il tempo di far visita. Sembra
che a quest'atto l'aristocratico Porporato ci tenesse alquanto;
fatto è che a Don Bosco, avvicinatosi ossequente, disse appena
un freddo buon giorno; durante la conversazione che seguì, in
una casa dove Don Bosco era molto venerato, non un complimento,
non una parola, non uno sguardo. Quei nobili Signori stavano
sulle spine, né dopo sapevano darsi pace, conoscendo il
carattere inflessibile del personaggio. Il più tranquillo di
tutti era ancora Don Bosco. Cosa da nulla! diss'egli. Domani sarà
tutto aggiustato. Infatti la mattina appresso, raccomandatosi al
Signore, chiese udienza, nella quale ogni nube fu talmente
dissipata, che potè mostrar loro prove tangibili di essersi
ingraziato il Cardinale.
Procedendo così per ordine gerarchico
nella via dei contrattempi, perché non ascenderemo fino al
vertice? Don Bosco ebbe un contrattempo anche con la Santità di
Pio IX. Una volta, usando del favore che godeva in Vaticano,
consentì di raccomandare per una privata udienza pontificia
l'avvocato piemontese, più tardi senatore, Tancredi Canonico.
Apparteneva questi al gruppo di quegl'infatuati che andavano
dietro al fanatico visionario polacco Towianski, precursore dei
modernisti, tutte circostanze che Don Bosco ignorava affatto.
Giunto alla presenza del Santo Padre, l'avvocato prese a
sciorinare le sue fisime, dimenticando talmente dove si trovasse
e con chi avesse l'onore di parlare, che l'angelico Pontefice lo
interruppe sdegnato e gl'intimò di uscire; il che quegli fece,
ma prima depose sul tavolino un suo scritto, contenente le cose
che aveva preveduto di non poter dire a voce. Don Bosco,
chiamato subito dopo all'udienza, udì il Papa che diceva: - O
costui è un gran birbone o Don Bosco è un gran... bonomo. Al
che Don Bosco, sorrise. Pio IX, accortosene, gli chiese: - Perché
avete fatto entrare costui? E ridete ancora del mio sdegno? Don
Bosco, sommesso e tranquillo, prontamente rispose: rido perché
è lo sdegno di un padre sempre amoroso. Espose quindi, come, il
fatto era andato, lieto di vedere alle sue candide parole
sorridere anche il Vicario di Cristo.
Un giorno Don Bosco scrisse a uno de' suoi
per confortarlo in certe disdette: «Allegria e coraggio, e
specialmente oremus ad invicem». L'orazione fu per Don Bosco il
segreto della tranquillità e della pace nelle afflizioni,
secondo l'inspirato insegnamento dell'apostolo san Giacomo.
CAPO X. - Confessore.
Il commercio intimo con Dio, quando c'è
davvero, fa si che un sacerdote non sappia solamente, ma senta
anche di essere persona sacra, senza che mai gli si appanni
nella coscienza l'idea luminosa di tale suo carattere, qualunque
cosa egli dica o faccia in privato o in pubblico, direttamente o
indirettamente, trattando con prossimi d'ogni grado, ceto o
condizione. Allora lo spirito sacerdotale si sprigiona da tutta
quanta la vita, irradiando intorno influssi soprannaturali che
sanano e purificano le anime, le fortificano nel bene, le
elevano alle cose celesti; come in Gesù l'umana natura,
congiunta ipostaticamente alla divinità, era strumento di
mirabili operazioni, così nel sacerdote, di vita interiore non
c'è parola né atto che non porti l'impronta sacerdotale e non
serva per agire salutarmente sulle anime, fino a meritare che di
lui pure si affermi che scaturisce da esso virtù salutifera per
ogni sorta di morbi spirituali: virtus de ilio exibat et sanabat
omnes.
"Questo noi ora vedremo, esaminando le
attività esplicate da Don Bosco nel confessionale, dal pulpito,
con la stampa e come educatore.
Riguardo alla confessione, la sua maniera
di amministrare questo sacramento non s'intende a pieno, se non
si tenga conto della sua pratica personale e de suoi ordinari
insegnamenti.
Don Bosco si affezionò alla confessione
fin dalla più tenera età, né alcun mutamento di vita valse ad
affievolire in lui l'amorosa propensione ad accostarvisi con
frequenza. Infatti vi andava da sé di buonissima voglia, anche
quando la madre non era più là a condurvelo, e vi andava così
spesso, come generalmente non si faceva a quei tempi, massime da
giovanetti, meno che mai da piccoli e sperduti figli dei campi.
Studente a Chieri e liberissimo di se
stesso, pensò tosto a cercarsi un confessore stabile, il quale,
sebbene lo scorgesse di umile condizione e di modi assai
semplici, pure dalla sua diligente assiduità a confessarsi ne
presagì grandi cose. Chierico nel seminario, si distinse subito
e sempre per la puntuale regolarità, con cui non preteriva
settimana senza presentarsi al tribunale di penitenza. Prete a
Torino, si confessava ogni otto giorni dal beato Cafasso. Morto
il Servo di Dio, ricorse al ministero di un pio sacerdote già
suo condiscepolo, che tutti i lunedì mattina si recava a
riceverne la confessione nella sagrestia di Maria Ausiliatrice,
confessandosi quindi a sua volta da Don Bosco stesso.
Durante i viaggi e nelle assenze del
proprio confessore ordinario si manteneva fedele alla sua cara
pratica, rivolgendosi a un Salesiano o ad altri, secondo i casi:
ad esempio, durante un soggiorno di due mesi a Roma nel 67, si
confessava settimanalmente dal padre Vasco, gesuita da lui
conosciuto a Torino. I suoi figli talora sulle prime esitavano;
ma egli: - Su, su, diceva, fa' questa carità a Don Bosco, e
lascia che si confessi.
Notevole era pure il suo modo di compiere
la santa azione: già ne abbiamo fatto altrove un cenno che
completeremo qui. Per confessarsi non sceglieva luoghi reconditi
od ore solitarie, quasi male operans, ma se ne stava esposto
alla vista di chicchessia; onde fedeli e giovani ebbero agio di
osservare "come tanto nella preparazione quanto nel
ringraziamento egli si mostrasse altamente compreso della
grandezza e santità dell'atto. Praticare con si vivo e
perseverante affetto la confessione frequente costituisce di per
sé una vigile e non mai interrotta custodia del cuore, la quale
ne rimuove di continuo ogni più piccolo impedimento
all'operazione dello Spirito Santo, sicché sempre maggiore
piove nell'anima la copia dei celesti suoi doni.
La pratica personale di Don Bosco riguardo
alla confessione si rifletteva nei suoi insegnamenti scritti e
orali su questa materia, imprimendovi una nota tutta sua, che è
la tendenza spiccata non solo ad attirarvi, ma anche ad
affezionarvi i fedeli, massime i giovani, oggetto precipuo della
sua provvidenziale missione.
L'originalità di Don Bosco quando scrive
della confessione, è non nella novità delle cose, ma nel suo
calore apostolico per far amare un sacramento da lui tanto
amato. Nella sua Vita di Magone Michele inserito una
digressione, con la quale in termini vibranti di carità
sacerdotale si rivolge prima ai giovani per incitarli a filiale
confidenza verso il padre delle loro anime, e poi ai confessori
dei giovani per esortarli a portare bontà paterna
nell'esercizio di tale ministero.
Anche in una memoria destinata ai Salesiani
vuole che il sacerdote, richiesto di ascoltare le confessioni,
«si presenti con animo ilare» e che nessuno «usi mai
sgarbatezza né mai dimostri impazienza», e raccomanda che «i
fanciulli si prendano con modi dolci e con grande affabilità»,
senza mai strapazzarli né fare le meraviglie per l'ignoranza o
per le cose confessate. Nel medesimo scritto pone questa gran
norma: «È cosa assai importante ed utile per la gioventù di
fare in modo che non mai un fanciullo si parta malcontento da
noi».
Nel Giovane Provveduto egli ci si porge
guida così amabile, che, chiunque lo segua, si confessa con
vera soddisfazione spirituale. Leggendo infatti quelle pagine
semplici e soavi, anche chi non sia più giovane, anche chi
abbia la fronte solcata dalle rughe del pensiero, sperimenta un
senso di fiducioso abbandono, che lo muove a portarsi ai piedi
del confessore con fervore di spirito e con la semplicità
serena degli anni primi. Anche nei regolamenti per Oratori, per
Istituti e per Compagnie la confessione tiene un posto d'onore,
ma è presentata sempre in una luce serena e volutamente
simpatica.
Come negli scritti, così a viva voce. Il
maggior biografo del Servo di Dio afferma che «ogni frase di
Don Bosco fu un eccitamento alla confessione».
Sorvoliamo su quello che l'espressione
possa contenere d'iperbolico riguardo all'universalità, sebbene
sarebbe da augurarsi che tutte le iperboli avessero si buon
fondamento nella realtà; ma quanto alla positiva efficacia
d'ogni suo eccitamento alla confessione, non c'è da discutere,
perchè contro il fatto ragion non vale. Diremo meglio contro i
fatti; poiché questi ci son noti in tanto numero e con tanta
varietà di circostanze, che, leggendone il racconto, si rimane
trasecolati e si ammirano i prodigi della grazia divina
nell'opera di salvazione.
Il pensiero del ritorno a Dio s'impadroniva
con forza sì irresistibile della mente di coloro, ai quali Don
Bosco ne faceva invito, ch'essi gli cadevano tosto ai piedi o
comunque gli aprivano la coscienza, fossero giovani suoi o
estranei, operai o professionisti, semplici privati o personaggi
altolocati, gente per bene o malfattori. Le vittorie di Don
Bosco in questo campo non si contano. Ora, la facilità a
trovare le vie dei cuori per indurre ad atto così arduo in sé,
più arduo in dati individui, non è possibile se non quando,
oltre una gran fede nel sacramento della penitenza e una grande
franchezza apostolica, si possegga pure un’altra qualità che
sia l'anima di tutto il resto, Quale? Don Bosco stesso se ne
lasciò sfuggire di bocca la rivelazione.
Nel 62, richiesto a nome d'un buon
sacerdote di Osimo che volesse svelare il suo segreto per
guadagnare i cuori, egli rispose: «Io l'ignoro. Se quel buon
prete ama Dio, riuscirà pure in ciò assai meglio di me».
Troviamo nel libro del Chautard un bel
commento a queste parole, che è pregio dell'opera riferire. «Fra
la bontà naturale, frutto del temperamento, e la bontà
soprannaturale d'un apostolo corre tutta la distanza che fra
l'umano e il divino. La prima potrà far nascere il rispetto,
anche la simpatia, per l'operaio evangelico, facendo talora
deviare verso la creatura un affetto che doveva andare a Dio
solo; ma non potrà mai determinare le anime a fare, e veramente
per Iddio, il sacrificio necessario per tornare al loro
Creatore. Solamente la bontà che sgorga dall'unione con Gesù
può ottenere tale effetto».
Se Don Bosco faceva così in incontri
isolati, figuriamoci come dovesse profittare dell'occasione
quando impartiva l'istruzione religiosa o dispensava la parola
di Dio. Nei catechismi non rifiniva mai di tornare da capo sulle
disposizioni necessarie per ricevere con frutto il sacramento
della penitenza, rappresentando al vivo la bontà del Signore
nell'istituirlo e i beni che esso arreca alle anime. Dall'amare
la confessione e quindi la comunione egli faceva dipendere la
possibilità di trascorrere immacolato il tempo delle passioni o
quella di rialzarsi dalle prime cadute.
Erano poi rarissime le sue parlate ai
giovani, le sue conferenze al personale, le sue prediche a ogni
qualità di ascoltatori, in cui non toccasse opportune e
importune l 'argomento della confessione sacramentale. Non
veniva egli a noi, così facendo, o non correva rischio di
urtare l'uditorio, dando, per fare ciò, in stonature? No. Chi
parla con fede e amore parla ispirato, trascinando chi ode.
Infatti il cardinal Cagliero, che lo sentì centinaia di volte,
depone che del suo tema prediletto Don Bosco «parlava sempre
con modi nuovi e attraenti». E quanto a uscire di tono, meno
che meno; poiché, qualunque persona, qualunque adunanza di
persone avesse dinanzi a sé, Don Bosco non vedeva uomini,
vedeva anime. La qual vista due sentimenti gli svegliava dentro,
uno di desiderio e l'altro di timore: desiderio di condurre
tutti in paradiso e timore che alcuno battesse la strada
dell'inferno. Ora, questi due sentimenti, armonizzati nell'amor
divino che formava tutta l'intima ragion di essere come del suo
operare così del suo parlare, davano l'intonazione fondamentale
a' suoi discorsi, pur passando per variazioni molteplici, una
delle quali, e la più ordinaria e la più abilmente
intercalata, era il richiamo al sacramento della misericordia.
Quanta e quale fosse la carità che
abitualmente infiammava il cuore di Don Bosco verso Dio, oltreché
dall'eccitare così con la penna e con la lingua alla
confessione, traluce in sommo grado dal suo modo di amministrare
questo sacramento.
Il Huysmans, da grande convertito, come si
dice in Francia, trova che per i suoi pari, i quali «tutta d'un
colpo debbono riversare la loro vita vissuta ai piedi d'un
sacerdote», sarebbe «veramente bello e buono» venire «confortati»
e «aiutati» come Don Bosco confortava e aiutava i penitenti,
tanto «il suo modo, di confessare ricorda l'insuperabile
misericordia di Gesù». Il solo vederlo nell'atto di così
santo ufficio ingenerava nei riguardanti riverenza e amore verso
l'augusto sacramento.
Con quel senso delle cose divine che gli
era proprio, accedeva al luogo delle confessioni, non già
tenendo la berretta in testa, ma stringendola fra le dita
davanti al petto, né si assideva prima d'aver pregato e fatto
un bel segno di croce. D'ordinario confessava da un seggiolone a
bracciuoli, collocato fra due inginocchiatoi. La sua positura
era quale si addice a rappresentante di Dio, cioè dignitosa e
amorevole. Ginocchia unite, piedi sopra lo sgabelletto, busto
eretto, capo leggermente chino, volto d'uomo assorto in opera
divinissima e tutto penetrato dello spirito di Dio. Si volgeva
alternatamente a destra e a sinistra, con movimento grave e
modesto. Nell'accogliere i penitenti non li mirava in faccia, né
mostrava punto di volerli conoscere; ma, appoggiato il gomito
sull'inginocchiatoio, accostava alla loro bocca il suo orecchio,
facendovi riparo con il cavo della mano. Ascoltava attento, non
mutando mai aspetto e usando una dolcezza inalterabile.
Che cosa passasse fra lui e i penitenti,
non è dato saperlo se non da quelli, a cui toccò in sorte di
averlo per confessore. Uno di essi, autorevolissimo per più
titoli, è il cardinal Cagliero, confessatosi da Don Bosco per
più di trent'anni. Egli dice nei processi e altrove: «Ammirabile
la sua bontà coi giovanetti e con gli adulti. Quasi tutti ci
confessavamo da lui, guadagnati dalla sua dolcezza e dalla sua
carità sempre benigna e paziente. Era breve, senza fretta.
Benigno al sommo e non mai severo, c'imponeva una breve
penitenza sacramentale, adatta alla nostra età e sempre
salutare. Sapeva farsi piccolo coi piccoli, darci gli avvisi
opportuni, e le stesse riprensioni sapeva condirle con tale
sapore, che c'infondeva sempre amore alla virtù e orrore al
peccato. Un ambiente angelico aleggiava sopra la sua persona e
le sue esortazioni».
Era poi voce comune che assai sovente si
vedessero persone, le quali, presentatesi a lui sfiduciate, se
ne tornavano raggianti di consolazione, quasi ricolme di fiducia
nell'infinita misericordia divina. Questo suo modo di confessare
ispirava tanta confidenza, che, chi l'aveva sperimentato, non se
ne dimenticava più. Quindi i già suoi penitenti, incontrandolo
anche dopo non pochi anni, o spontaneamente gli manifestavano
senz'altro come stessero d'anima e da quanto tempo non si
fossero confessali, o a sua domanda rispondevano con affettuosa
sincerità; molti, informati della sua presenza in dati luoghi,
volavano a lui anche da lontano, per potersi nuovamente
confessare come una volta.
Non sarebbe detto abbastanza intorno al suo
modo di confessare, se non si aggiungessero ancora due
osservazioni, che aiutano a scandagliare sempre meglio le
profondità della sua vita interiore.
In primo luogo, confessando, egli era un
uomo completamente astratto dalle cose di questo mondo. E sì
che affari ne aveva fin sopra i capelli, e di si gravi, che,
ripartiti, avrebbero occupato a sufficienza più persone di
attività non pigra! Eppure, richiesto di confessare nel bel
mezzo di qualsiasi faccenda, non si mostrava importunato, non
diceva di tornare più tardi, non indirizzava a qualche altro;
ma, sospesa ogni cosa temporale si metteva, umilmente al
servizio di quell'anima. Per solito, poi, scoccata l’ora delle
confessioni, si spiccava tostamente da tutto e da tutti: nulla
da quell'istante aveva a' suoi occhi importanza maggiore. Ciò
si ripeteva ogni sabato sera, ogni vigilia di feste e tutte le
mattine prima e durante la messa della comunità. Se ne stava
nel confessionale parecchie ore di seguito, interamente
concentrato nel suo ministero, senz'aria di noia, senza mai
sospendere per umane ragioni. Non sospendeva nemmeno quando
convenienze eccezionali sembravano consigliare di farlo. È
inutile discutere: per i Santi non esistono negozi terreni che
reggano al confronto degl'interessi celesti.
Una domenica mattina capitò all'Oratorio
il marchese Patrizi, romano, ospite desideratissimo. Lo
ricevettero come poterono meglio alcuni superiori, perché Don
Bosco era a confessare i ragazzi esterni. Il Servo di Dio,
avvisato, rispose con calma: - Bene, bene! Ditegli che sono
contento del suo arrivo e che aspetti un momento, finché abbia
terminato di ascoltare questi poverini, che desiderano di fare
la santa comunione. Quel momento durò un'ora e mezzo.
La seconda osservazione si riferisce
all'impassibilità, con cui, una volta assiso nel confessionale,
sopportava qualsiasi disagio, molestia o sofferenza. Impassibile
alla stanchezza: dopo giornate molto laboriose, quasi non
sentisse bisogno di riposare, rimaneva inchiodato là, finché
continuavano a venire penitenti. Impassibile all'asprezza della
temperatura: prima che ci fosse calorifero, soffriva invitto i
rigori dell'inverno torinese fino alle dieci e alle undici di
notte.
Impassibile in Liguria agli assalti delle
zanzare: lasciava che lo punzecchiassero, levandosi alla fine
tutto crivellato nella fronte e nelle mani. Impassibile a
qualche cosa di peggio: i poveri oratoriani di quei tempi al
confessore non portavano solo peccati; dopo le confessioni certe
volte era un affar serio per Don Bosco liberarsi da tanti
minuscoli aggressori di varie specie: ne aveva ben avvertito
l'avanzarsi minaccioso e in numero crescente, ma non se n'era
dato per inteso, sempre intento alla cura di quelle misere
anime.
E le confessioni dei carcerati? Le carceri
d'allora erano peggiori delle carceri odierne, per quanto
concernesse nettezza e decenza. Don Bosco, dotato di sensitività
squisita, sembrava non avere più, in quell'ambiente
stomachevole, né occhi né nari: applicato a medicate le piaghe
spirituali di quei disgraziati, non aveva tempo di badare alle
ripugnanze suscitategli dai sensi. Insomma, dopo il fin qui
detto, come non richiamare le parole di Pio X, il quale
nell'enciclica dell'11 giugno 1905 ai Vescovi d'Italia affermava
categoricamente, che per sopportare con perseveranza le noie
inseparabili da qualunque apostolato mancano del tutto le forze,
dove non ci sia l'ausilio della vita interiore?
CAPO XI. - Predicatore.
L’intimità con Dio, che fu l'anima del
confessore, animò del pari il predicatore. Non un alimento del
proprio io gonfia la parola di Don Bosco in pulpito; sempre e
solo la penetra e avviva l'afflato di Dio.
Purtroppo la voglia di comparire crea
grandi tentazioni ai banditori della divina parola. S'insinua
essa sottile sottile nell'ingegnosità dei concetti, nella novità
delle immagini, nei fronzoli eruditi, nelle eleganze di forma,
nel tono stesso della voce e nella maniera di porgere;
l'adulazione poi, sotto colore di cortesia, fa il resto, per chi
abbia la debolezza di crederci. Grande miseria, che non appena
tanto o quanto solletichi l'amor proprio di un povero
predicatore, invano si cercherebbe di cautamente dissimularla,
perché trapela sempre a dispetto di ogni precauzione, sviando
le genti superficiali da pensieri più gravi che la parola di
Dio dovrebbe infondere, e arrecando disgusto alle persone serie.
È proprio un adulterare la parola di Dio, l'energica
espressione di san Paolo, e quindi un or più or meno
isterilirla.
Don Bosco non andò neppur lui esente da
tali spiriti tentatori negli inizi della sua predicazione; del
che egli stesso non ci fa mistero. Il buon ingegno, i forti
studi, la memoria tenace, un po' l'ambiente viziato ve lo
sospingevano; ma l'amore di Dio doveva prendere e prese ben
tosto il sopravvento sul diavolo del proprio io.
Nelle prediche Don Bosco di suo ci metteva
l'umile preparazione; giacché, ammoniva egli i principianti, «la
predica che produce migliori effetti, è quella meglio studiata
e preparata». Vi premetteva ancora l'umile preghiera; anzi,
mentre a Torino confessavasi regolarmente ogni otto giorni,
durante le sue fatiche apostoliche si umiliava più spesso al
tribunale di penitenza - egli che non seppe mai per esperienza
sua che cosa fossero scrupoli - all'unico scopo di rendersi
strumento meno indegno della grazia divina a pro delle anime.
Così, dovunque si presentò ad annunciare la divina parola - e
predicava moltissimo e in moltissimi luoghi, anche fuori
d'Italia - vi si condusse da autentico ministro del Signore,
mandato, più che non andato, ad dandam scientiam salutis plebi
eius.
Don Bosco nella sua prima messa aveva
chiesto «ardentemente» al Signore l'efficacia della parola,
vale a dire la forza di persuasione per fare del bene alle
anime; la quale domanda gli fu esaudita in modo da non potersi
desiderar migliore, talché sul finire della vita egli scrisse
con modestia eguale a verità: «Mi pare che il Signore abbia
ascoltato la mia umile preghiera».
Per quel che concerne la parola detta dal
pergamo, si pensi che le sue prediche filavano dall'esordio alla
perorazione senza lampi, senza voli, quasi senza gesto, con un
fare piuttosto lento, in uno stile monotono, in lingua popolare,
non di rado in schietto vernacolo piemontese; talvolta perfino
passavano il segno in lunghezza, raggiungendo estensioni
inverosimili; eppure piacevano, eppure si ascoltavano con gusto,
tanta era l'unzione e la naturalezza che le condiva.
A Saliceto in quel di Mondovì, per
esempio, i paesani una volta lo forzarono a predicare, tolti
brevi intervalli, sei ore di seguito. Si pensi inoltre che i
suoi argomenti erano di cose trite e ritrite: importanza del
salvarsi l'anima, fine dell'uomo, brevità della vita,
incertezze della morte, enormità del peccato, impenitenza
finale, perdono delle ingiurie, restituzione del maltolto, falsa
vergogna in confessione, intemperanza, bestemmia, buon uso della
povertà e delle afflizioni, santificazione delle feste,
necessità e modo di pregare, frequenza dei sacramenti, santa
messa, imitazione di Gesù Cristo, divozione alla Madonna,
facilità della perseveranza; eppure stavano a udirlo senza
batter palpebra, insieme col buon popolino, anche persone nobili
e istruite, ecclesiastici, vescovi, affascinati no, che
sonerebbe male, quasi effetto di umana suggestione, ma
soavemente presi dal divino ardore, di cui si svelarono l'uno
all'altro l'arcano i due discepoli di Emmaus.
Oh! con quanta verità si applicherebbe a
Don Bosco predicatore il bellissimo responsorio, che i
Trappisti, dicono nella festa di san Giovanni Evangelista: «Posando
sul petto del Signore, attinse direttamente da quella fonte
divina le acque salutari del Vangelo e diffuse per tutto il
mondo la grazia della parola di Dio». Sono pur tutti ispirati
gli Evangelisti; ma come negare in san Giovanni quella potenza
tutta sua di eloquio, che viene dal cuore e va al cuore? e donde
l'attinse egli, se non da quel Cuore, sul quale posò
nell'ultima Cena e che è sempre la vera sorgente dell'eloquenza
sacerdotale? Questo è il pectus
che disertos facit
i sacerdoti cattolici. Non per nulla Don Bosco portava il nome
del discepolo prediletto di Gesù.
Questa particolarità, che per se stessa
non dice niente, ci richiama al motivo della predilezione di Gesù
per Giovanni secondo il pensiero di San Girolamo e c'induce a
riferire sul predicare di Don Bosco una testimonianza
tramandataci da un giovane cronista dell'Oratorio, il quale
sotto il 29 maggio 1861 scrisse: «Usciti di chiesa, molti
venivano meravigliati ad esclamare con me e con altri: - Oh, che
belle cose ha mai detto stamane Don Bosco! Io passerei il giorno
e la notte ad ascoltarlo! Oh, quanto bramerei che Dio mi
concedesse il dono di poter io pure, quando sarò sacerdote,
innamorare in tal modo il cuore dei giovani e di tutti per
questa sì bella virtù!». Don Bosco quella mattina aveva
parlato della purità.
Un'idea prevalente dominava nella
predicazione di Don Bosco: la necessità di salvare l'anima. In
questo appunto noi sacerdoti pro Christo legatione fungimur
tamquam Deo exhortante per nos:
siamo i portavoce di Dio alle anime per le cose
concernenti la loro salvezza. Questo egli stimò sempre essere
suo imperioso dovere. Basti dire che non se ne esimeva neppure
nei panegirici, che sono la forma di eloquenza sacra, in cui gli
oratori si lasciano facilmente prendere la mano dell'andazzo: vi
si aspetta, quasi vi si pretende il nuovo e il fiorito. Ecco
perché il beato Cafasso aveva poca simpatia per i panegirici:
ma in quelli di Don Bosco il maestro non avrebbe certamente
trovato appiglio per condannare il discepolo.
Vediamone uno per saggio: sia il panegirico
di san Filippo detto nel 68 ad Alba. Passando sopra a tutto il
resto, egli andò a cavare il suo argomento da quello, dice, che
è il cardine su cui il Santo appoggiò la pratica di tutte le
altre sue virtù, cioè «lo zelo per la salvezza delle anime».
Ne dipinse al vivo l'apostolato; poi, avendo saputo che fra gli
uditori ci sarebbero stati sacerdoti in buon numero, eccolo di
punto in bianco sonare a campane doppie anche per loro. Vi si fa
strada bellamente supponendo di sentirsi muovere l'osservazione,
che tante meraviglie avesse operate san Filippo a salvezza della
gioventù, perché era un santo. Alla quale ipotetica uscita
egli risponde: «Io dico diversamente. Filippo operò queste
meraviglie, perché era un sacerdote che corrispondeva allo
spirito della sua vocazione». E lì ha battere sulla necessità
che i preti imitino il Santo nel radunar Fanciulli per
catechizzarli, per animarli a confessarli, per confessarli.
Quindi, dopo aver minacciato genitori, padroni, maestri, con
apostolico ardore prosegue: «Che terribile posizione per un
sacerdote, quando comparirà davanti al divin Giudice, che gli
dirà: - Guarda giù nel mondo: quante anime camminano nella via
dell'iniquità e battono la strada della perdizione! Si trovano
in quella mala via per cagion tua; tu non ti sei occupato a far
udire la voce del dovere, non le hai cercate, non le hai
salvate. Altre poi per ignoranza, camminando di peccato in
peccato, ora sono precipitate nell'inferno. Oh! guarda quant'è
grande il loro numero! Quelle anime gridano vendetta contro di
te. Ora, o servo infedele, serve nequam, dammene conto. Dammi
conto di quel tesoro prezioso che ti ho affidato, tesoro che
costò la mia passione, il mio sangue, la mia morte. L'anima tua
sia per l'anima di colui, che per tua colpa si è perduta. Erit
anima tua pro anima illius ». Finalmente chiude il suo discorso
incorando tutti a confidare nella grazia misericordia di Dio.
Come si vede, Don Bosco predicatore
spendeva bene la popolarità che ne circondava il nome e la
persona: anche nei malfamati panegirici non si curava dei
giudizi altrui, ma voleva e sapeva andare al sodo. Lo
sperimentarono a Roma anche certe religiose di un insigne
monastero, che l'avevano invitato a dire le lodi della loro
Patrona, una santa martire. Anelavano grandemente di udirlo,
aspettandosi da lui cose peregrine.
Don Bosco, avuto sentore che vi sarebbero
intervenuti anche cospicui signori e nobili dame, lo sfoderò
lui il panegirico! Esordi Facendo rilevare che da più di
cent'anni in quel luogo si ripeteva l'elogio della Santa e che
quindi ben magro profitto sarebbesi cavato dal ridire cose che
tutti sapevano; giudicare quindi miglior consiglio, non
foss'altro per amore di varietà, cambiar tema e dimostrare la
necessità di tendere alla perfezione e salvare l'anima per
mezzo di confessioni ben fatte.
Così, senza umani riguardi, obliando
completamente se stesso, pigliò davvero più colombi a una
fava; poiché alle religiose ragionò di perfezione, ai secolari
rammentò la salvezza dell'anima, a tutti fece fare un buon
esame di coscienza sulle loro confessioni passate. La delusione
non ne avrà mandato a vuoto il frutto? No, se si deve giudicare
dalla religiosa attenzione, con cui fu ascoltato. Certo son cose
che stenterebbe a capire chi non sapesse che la prima legge
dell'oratore sacro è dimenticare se stesso. Scampanare in
pulpito col proprio io è farvi la parte poco commendevole
dell'aes sonans del cymbalum tinniens: dalla
bocca invece di chi predica Gesù Cristo, esce quella parola di
Dio che è viva e attiva e più affilata di qualunque spada a
due tagli e penetrante nel più intimo dell'esser umano.
Ci fu bene per Don Bosco un'occasione,
unica in vita sua, nella quale sarebbe sembrata non pure
giustificabile, ma consigliabile qualche divagazioncella
letteraria in materia religiosa; tanto più che non gliene
mancava la preparazione. I classici non gli avevano offerto per
una diecina d'anni, anche fuori della scuola, gustoso pascolo di
lettura diurna e notturna? Ma non ne fu nulla. Il caso merita di
essere conosciuto.
Nel 74 amici romani l'avevano fatto
aggregare agli Arcadi. Due anni dopo, l'Accademia designò lui a
tenere il discorso consueto sulla Passione del Signore nella
solenne tornata del venerdì santo. Il carattere letterario
dell'Arcadia, la tradizione più che secolare di commettere
quell'incarico a letterati, e talvolta di grido - vi lessero
infatti il Monti e il Leopardi - il resto del trattenimento
d'intonazione letteraria, la qualità degl'intervenuti, uomini
di lettere, erano tutte circostanze che Don Bosco non ignorava né
finse d'ignorare; tant'è vero che si disse «incaricato di
leggere una prosa», e confessò che «l'eloquenza del dire, la
forbitezza dello stile» solite a «brillare» in quell'«aula
scientifica» l'avevano «messo in non lieve apprensione»; ma
si confortava pensando che la «forbita penna» di altri avrebbe
tosto supplito alla sua «insufficienza».
Egli però, come in ogni luogo e in ogni
tempo, così anche allora volle essere colà semplicemente
prete. Infatti, dopo la sua presentazione quale di «umile
sacerdote», puramente da sacerdote prese a parlare. Non fece
dell'ascetica né dell'oratoria, perché non si era a predica;
non fece dell'erudizione né dell'esegesi pura, perché non si
era a scuola. Ma chi mai si sarebbe aspettato che egli
scegliesse per argomento le Sette Parole? Allo spirito
sacerdotale di Don Bosco sembrò assurda cosa che un sacerdote
in quel giorno, anzi in quell'ora, invece di trattare
sacerdotalmente del sacrificio cruento offerto duemila anni
innanzi dal Sacerdote eterno, si mettesse a fare della
letteratura. Il pensiero nondimeno che, così facendo, avrebbe
remigato contro la corrente, non lo abbandonava; onde,
annunciato il tema, protestò di nuovo che all'altrui «valentia»
lasciava «la sublimità dei concetti» e «gli slanci poetici»
e si dichiarò contento che, se la pochezza del suo lavoro non
avrebbe porto ragione di applaudire, desse però motivo di
esercitare la bontà compatendo.
Qui finiva l'esordio! Le convenienze gli
parvero salve; entrò dunque con pacatissima semplicità a
parlare in questo modo: «Dopo mille strapazzi e tormenti,
sottoposto a spietata flagellazione, coronato di spine,
condannato alla ignominiosa morte di Croce, l'amabilissimo
Salvatore con grande spasimo portò l'istrumento del suo
supplizio fino sul Golgota». E così via, con un'espressione
serrata e oggettiva. Il succo né è spremuto dalla Scrittura,
dai Padri, da san Tommaso, da sacri interpreti, con buon
criterio e buon metodo citati. Non discopre sentimenti propri:
Don Bosco è un santo dominato quasi da uno spirituale pudore,
che non gli consente di svelare i segreti movimenti della
grazia: secretum meum mihi! Ma ben si appalesano le sue
intenzioni: intenzioni, come sempre, sacerdotali, d'illuminare
le anime per distaccarle dal peccato e unirle a Dio.
CAPO XII. - Scrittore.
Non meno che già nella parola parlata, il
cuore sacerdotale di Don Bosco palpita oggi ancora nella sua
parola scritta. Prese la penna per il pubblico nel 44, né più
la depose; così molto diede alle stampe, molto tuttora
sopravvive della sua produzione. Tre cause contribuirono a
facilitargli il lavoro della penna sotto la mole di tante
occupazioni: la vecchia abitudine a usufruire d'ogni briciolo
del suo tempo; il vigore dell'ingegno e della memoria sorretto
da pari energia di volere; l'agilità rara a sbrigare nel
medesimo tempo faccende disparate fino a dettare simultaneamente
su più cose diverse.
Ma questi tre coefficienti non ci
spiegherebbero da soli il gran numero delle sue pubblicazioni,
se non tenessimo conto pure del comune motore che li mise
costantemente in atto per lo spazio di circa quarant'anni;
voglio dire il suo zelo ardente per la gloria di Dio e il bene
delle anime. Quindi mal ci apporremmo se credessimo possibile,
recar giudizio sui libri di Don Bosco, applicando ad essi i
criteri letterari. Il caro Padre, bonariamente sorridendo, ci
farebbe tosto avvertiti del nostro abbaglio e ce lo direbbe con
parole poco dissimili da quelle del Salesio: «Quanto agli
abbellimenti dello stile, non ho voluto nemmeno pensarci, avendo
ben altro da fare». Come il medesimo san Francesco dice di sé,
anche Don Bosco scrive «alla buona senza pretesa né arte,
perché i suoi non sanno che farsene e ad abbellirli basta
quella semplicità così cara a Dio, che ne è l'autore».
Ciò che è l'ispirazione per il poeta, ciò
che è la prepotente inclinazione dell'animo per l'uomo di
pensiero e, per dir tutto, ciò che è la leggerezza e la vanità
per gl'imbrattacarte, fu per Don Bosco lo spirito apostolico
sotto il perpetuo e gagliardo impulso dell'amor divino. Questo
è che lo faceva intento alle voci del giorno, questo che lo
portava a rinserrarsi in biblioteca, questo che lo teneva curvo
sullo scrittoio. Non è a dire che fosse in lui soverchia
proclività a far gemere i torchi, come si diceva quando non
stridevano ancora le macchine; lo stampare anzi, per confessione
sua gli cagionava grande apprensione; ma egli concepiva quale
stretto obbligo del suo sacro ministero spendere i talenti
ricevuti da Dio anche in metter argine alla cattiva stampa con
la buona, disputando palmo a palmo il terreno all'errore con
fogli, opuscoli e giusti volumi, con collane periodiche e
ammannendo alla gioventù e al popolo manuali di soda pietà e
d'opportuna istruzione religiosa e altre pubblicazioni imbevute
di massime salutari. Insomma, Don Bosco che scrive e stampa, è
sempre il medesimo Don Bosco che confessa e predica; a qualsiasi
forma di attività si dia, egli è invariabilmente e sempre quel
desso: l'uomo di Dio, per il quale, come esprime il Dottor
Serafico, «ciò che è spirituale, deve sempre e dappertutto
essere preferito». Dunque il tirare in campo considerazioni
d'ordine letterario sarebbe per noi uscire dal seminato.
In sì esuberante produzione religiosa
sembrerebbe ovvio che si dovessero incontrare luoghi, dove
l'autore ci desse contezza di sé e del suo mondo interiore, i
soli luoghi che a noi interesserebbe di prendere in esame.
Nemmeno per ombra!
Un Vescovo, scrivendo di Don Bosco,
riferisce come in una conversazione questi prese a dire «col
suo lento fare e parlare». Ecco ritratto l'uomo che veglia su
di sé, conversando; identica vigilanza s'intravede in lui,
quando scrive. Di qui avviene che la persona dello scrittore non
si produca mai sulla scena: chi la vuole, bisogna che la cerchi
dietro le quinte. Tuttavia questo silenzio ha pure una sua
eloquenza, che tanto più esalta l'autore, quanto più l'autore
nei riguardi propri ammutisce. Dell'intima sua vita spirituale
si può ben dire che penetra in tutti i suoi libri, apparendo più
in alcuni e meno in altri. Così ci spieghiamo l'influsso che i
suoi scritti esercitano sull'animo dei lettori non sopraffatti
di pregiudizi.
Il Card. Vives manifestò nel 1908 il
desiderio di avere qualche operetta spirituale di Don Bosco,
nella quale si rivelasse lo spirito suo di pietà. Non so quale
sia stata scelta; ma or più or meno esplicitamente questo suo
spirito traspare in tutte.
Un moderno poeta cristiano espresse
modestia di sentire unita a coscienza d'arte, soscrivendosi «Un
operaio della parola»: Don Bosco, pur senza dircelo, ci si
rivela un sacerdote della parola. Operaio della parola è chi fa
con la parola opera sua e per gusto e volere suo; sacerdote
della parola diremo invece chi esercita con la parola un
ministero, il ministerium verbi, espressione nuova di cosa
nuovissima, con cui s'intende significare un uso sacro della
parola, fatto in nome di Dio e a spirituale servizio del
prossimo, per dovere di vocazione: uso dunque, in cui l'uomo non
ha da presentare il suo io, ma da rappresentare il suo Dio. Un
tal ministero si adempie per via ordinaria oralmente nella
Chiesa con la predicazione; ma si prolunga pure e si allarga a
maggior beneficio delle anime per mezzo degli scritti. In questo
caso lo scrittore che dispensa la parola della salute,
ascondendo l'essere suo, come fa costantemente Don Bosco lascia
intendere di avere il cuore sgombro da meschine vanità e
d'intingere la penna nel puro amor di Dio.
Ma le intime disposizioni di Don Bosco
scrittore si comprendono ancor meglio, se si considera questa
sua umiltà quale ancella industre della sua carità. In tempi
di quotidiani attentati alla religione della gioventù e del
popolo, egli, mosso da carità di Cristo, per contrapporre al
veleno dell'errore l'antidoto della verità, fra la gioventù e
il popolo pensò di formarsi una larga clientela di lettori. Ma
gioventù e popolo non intendevano guari la lingua dei libri; ed
eccolo condannarsi a un rinnegamento di sé, del quale ci
diedero la misura le parole del Papa, quando disse nel discorso
per l'eroicità delle virtù che, posta la sua «vigoria di
mente e d'ingegno non comune, anzi superiore di gran lunga alla
ordinaria, e propria anche di quegl'ingegni che si potrebbero
chiamare ingegni propriamente detti», Don Bosco «sarebbe
potuto riuscire il dotto, il pensatore, lo scrittore». Egli
dunque che avrebbe potuto volgere le sue migliori facoltà a
creare, le applicò a divulgare, e fu la prima rinuncia. A
questa ne associò una seconda.
Anche nel campo della divulgazione, col suo
temperamento, egli avrebbe saputo fare cose belle; invece si
liberò da influssi letterari, appigliandosi al linguaggio della
gente minuta. Nel che andò oltre il credibile; infatti leggeva
i suoi lavori a persone analfabete, riducendo il suo dire al
livello del loro capire, e talvolta li dava a leggere nelle
bozze di stampa a portinai di nessuna levatura, facendosene poi
ripetere il contenuto e argomentando di lì come arrivasse
all’adaequatio rei et intellectus nella categoria di lettori
da lui prescelta. Ripensando ai prodigi ignorati di quest'umile
carità e all'anima eroicamente sacerdotale di chi li operava,
noi vediamo non senza emozione oggi, come nel 53 il principe dei
periodici cattolici d'Italia, segnalasse a' suoi lettori «un
modesto ecclesiastico... che si appella Don Bosco», a proposito
di certi «librettini di piccola mole, pieni di soda istruzione,
adatti alla capacità del popolo minuto e tutta cosa opportuna»
per quei tempi agitati e difficili.
Il «modesto ecclesiastico» del periodico
romano diventò parecchi decenni dopo «angelico sacerdote» nel
libro di un letterato fiorentino. Angelico egli fu per varie
ragioni, ma soprattutto per una, di cui intendiamo qui far
parola. Trapela dagli scritti di Don Bosco un geloso amore alla
virtù angelica, amore che gli ha dettato l'articolo
trentacinquesimo delle Regole: «Chi non ha fondata speranza di
poter conservare, col divino aiuto, la virtù della castità
nelle parole, nelle opere e nei pensieri, non professi in questa
Società».
La sesta beatitudine evangelica,
rivelandoci le intime comunicazioni di Dio con i mondi di cuore,
giustifica abbastanza il nostro entrare in quest'argomento ora
che attraverso gli scritti miriamo all'anima dello scrittore.
Un minuscolo episodio ritrae talvolta le
sembianze morali di un uomo non meno di quel che faccia un lungo
discorso. Don Bosco, giovane sacerdote, preparava per le stampe
i misteri del rosario. Nel rivedere sulle bozze il terzo
gaudioso, si consultava seco stesso alla presenza di un amico
teologo e diceva: «Si contempla come la Santissima Vergine
diede alla luce..., no non va. Si contempla come il nostro
Redentore nacque da Maria Vergine… neppure . Meglio così: si
contempla come il nostro Redentore nacque nella città di
Betlemme». Il candore della sua anima rischiara dal principio
alla fine la sua Storia Sacra, lui compilata con castigatezza
senza precedenti. Non il menomo neo vi offusca mai tanta
luminosità di purezza: il giovanetto non s'imbatte in un
particolare, per quanto biblico, né in un termine, per quanto
usuale, atto a produrgli un'impressione meno che casta. Il
consultarla cava d'imbarazzo quegl'insegnanti che cercano la
maniera di esprimersi in punti scabrosi senza pericolo
d'inconvenienze. È un capolavoro di riserbo cristiano
nell'educazione giovanile e un monumento parlante dell'angelica
bellezza interiore di chi lo ideò e lo eseguì.
Il biografo sovrano di Don Bosco ha dettato
un periodo che sembra fatto apposta per mettere il suggello al
fin qui detto e per supplire a quel tanto di più che vi si
potrebbe aggiungere. Scrive: «Noi siamo intimamente persuasi
che qui consista sovrattutto il segreto della sua grandezza,
vale a dire che Dio lo abbia colmato di doni straordinari e che
di lui siasi servito in opere meravigliose, perché si mantenne
sempre puro e casto».
Nello scorrere le pagine di questa Storia
Sacra altra novità ci sorprende: Don Bosco tra i fatti del
vecchio e nuovo Testamento dissimula con la destrezza
dell'antico prestigiatore ch’ei fu, un'apologia spicciola del
Cattolicesimo, tanto più efficace quanto meno ha l'aria di
essere intenzionale. Chi mai aveva pensato prima di lui a trar
partito dai racconti biblici per iscalzare bel bello il
protestantesimo? Vi ci voleva la sensibilità sopraffina di Don
Bosco per tutto ciò che toccasse la Chiesa. Di così viva
sensibilità, che poi è il perfettissimo sentire cum Ecclesia
di sant'Ignazio, rimarranno testimonio imperituro tutti quanti i
libri di Don Bosco, dalle sue edificanti biografie di giovanetti
alla serie de' suoi almanacchi per i galantuomini.
L'autorità dottrinale e gerarchica della
Chiesa cattolica dovette stare in cima ai pensieri di uno
scrittore sul quale, tutto ciò che lontanamente la riguardasse,
produceva l'effetto di farlo senz'altro gioire o soffrire, agire
o reagire, come risulta da un cumulo di pubblicazioni
succedutesi a brevi intervalli per lo spazio di otto lustri. Lo
studioso che, percorse le opere di Don Bosco, voglia incidere
con frase lapidaria l'idea formatasi dell'autore, può far suo
il laconico epitaffio scolpito sulla tomba del gran vescovo e
cardinale Mermillod: Dilexit Ecclesiam. E ciò tanto più,
quando si pensi che, come il glorioso prelato svizzero, così
anche Don Bosco patì per la causa del suo cuore persecuzioni
non comuni.
La protervia dei nemici della Chiesa
insolentiva allora a tal segno nel Piemonte, che Don Bosco non
trovava nemmeno i revisori voluti dalle leggi canoniche per i
suoi libri; onde alle Letture Cattoliche furono la bestia nera
delle sette, in un primo tempo gl'incaricati di quell'ufficio
accordarono l'approvazione senz'apporvi firme, e poi più
nessuno si sentì d'assumersi la rischiosa responsabilità della
revisione. Tempestato da minacce per lettera, a voce e a mano
armata, egli, confidando in Dio e sfidando i Filistei, non
desistette dalla santa battaglia. Né la sensibilità degenerò
mai in animosità, cosa tanto facile ad accadere anche nelle
polemiche religiose.
Lo spirito del Signore, infiammandone lo
zelo, ne governava la penna; si cerchi pure col ruscellino per
entro alle molte sue scritture, e non verrà fatto di raccattare
un tratto, un motto, un inciso, una virgola insomma, che
tradisca in lui, non diremo la segreta voluttà, ma la
momentanea noncuranza che dalla sua difesa resti umiliato
l'avversario. Le premesse di nostra santa madre, nostra buona
madre e simili, che gli sono rituali nel nominare la Chiesa
cattolica di fronte a credenti e a miscredenti, dicono la sua
prevalente sollecitudine, quasi la sua passione dominante, di
affezionare alla Chiesa tutte le anime; dicono parimente il suo
amore filiale per la Chiesa, amore che è tanta parte della pietà,
dono dello Spirito Santo.
Sono parola scritta anche le lettere. Don
Bosco ne scrisse un numero sbalorditivo, in ogni parte del
mondo, su millanta argomenti, a prelati, principi e nobili, a
persone e comunità religiose, a operai, donnicciuole e
fanciulli. Ma ciò che a noi maggiormente importa si è che
queste lettere riflettono lo spirito di colui che le scrisse.
Non ricerchiamovi però più di quello ch'egli vi ci mise.
L'incalzarsi della corrispondenza, che lo
costringeva a gettare in carta senza tanto pensarci su,
facendolo incorrere in sviste di forma, non ne sottraeva la
penna al governo del pensiero o all'abitudine di santamente
pensare, sicché gli sfuggissero rivelazioni di cose riguardanti
la sua vita interiore. Certe introspezioni che spesseggiano in
epistolari di anime pie, esulano dall'epistolario di Don Bosco.
Vi s'intuisce benissimo il fondo; ma di stati intimi non c'è
caso ch'egli dica verbo. Ci bastano per altro le ripercussioni
inevitabili, derivate dai movimenti del suo cuore sempre in
perfetta unione con Dio: cioè sommissione piena ai divini
voleri, gloria del Signore, salvezza delle anime, sacramenti,
preghiera, offesa di Dio, fiducia nella Provvidenza, richiami a
solennità, citazioni scritturali, giaculatorie.
Accludeva sovente immagini con motti di sua
mano, per sollevare le menti alle cose celesti. E poi il tono.
Dopo averne lette alcune, noi proviamo dentro un senso di calma
serena che è disposizione prossima a bontà di pensieri, di
parole e di atti. A chi non è toccato di ricevere lettere irose
e offensive. Ebbene egli era solito dire che il rispondervi
immediatamente con dolcezza e con attestazione di stima dà là
vittoria, mutando nemici in amici. Quante volte egli ebbe a
farne la prova! Notevole finalmente è la naturalezza, con cui
nelle sue lettere introduce i nomi di Dio, di Gesù Cristo e di
Maria Santissima. Questi nomi, dice il biografo, «anche
scrivendo li pronunciava con aspirazione del cuore, ma in modo
che altri non udisse, ripugnandogli ogni singolarità e pareva
che col suo stesso respiro li stampasse sopra la carta».
Tale coscienza del proprio carattere
raggiunge nel sacerdote tanta profondità, quando il sacerdote
è realmente alter Christus, vivente personificazione di Gesù
Cristo.
CAPO XIII. - Educatore.
Si disputa da taluni se Don Bosco sia stato
un grande pedagogista; ma nessuno potrà mai mettere seriamente
in dubbio, ch'ei sia stato un grande educatore. Ed è questo che
fa per noi. Perché Don Bosco si dedicò all'educazione della
gioventù? come concepì l'educazione? in che modo la impartì e
la volle impartita? Daremo la risposta a questi tre quesiti in
modo da non andar fuori del nostro argomento, che è Don Bosco
con Dio.
Don Bosco attese all'educazione della
gioventù con l'entusiasmo di chi pensa d'averne ricevuta
speciale missione dall'alto. Ed aveva i suoi buoni perché di
pensare così. Chi, se non Dio, gli aveva messo in cuore la
tendenza innata che, quasi germe e presentimento di vocazione,
lo portava precocemente, quando spuntavano appena i primi
barlumi di ragione, a cercare i fanciulli, non mica per
trastullarsi insieme con loro, ma per ridire ad essi le cose
belle e buone apprese dalla mamma e per allontanarli dal male e
spingerli al bene? Riandando a tale precocità di
manifestazioni, scriveva egli stesso in età avanzata: «Radunare
i fanciulli per far loro il catechismo mi era brillato nella
mente fin da quando aveva solo cinque anni; ciò formava il mio
più vivo desiderio, ciò sembravami l'unica cosa che dovessi
fare sulla terra». Poi, allorché, non ancora uscito di
puerizia, cominciò a balenargli l'idea di farsi prete, vagheggiò
subito il fine da prefiggersi nell'abbracciare lo stato
ecclesiastico. «Se fossi prete, fu udito dire, mi avvicinerei
ai fanciulli, li chiamerei intorno a me, vorrei amarli, farmi
amare da essi, dir loro buone parole, dare loro buoni consigli e
tutto consacrarmi alla loro eterna salute».
Ma una vera e diretta, per quanto
misteriosa chiamata del cielo gli si fece intendere nell'età
dai nove ai dieci anni. Il velo del suo avvenire gli si squarciò
allora dinanzi in un sogno. Che cosa fossero i sogni di Don
Bosco, lo vedremo più avanti; ora fermiamoci a questo primo,
che si può definire il sogno della vocazione. Rileggiamolo tal
quale ce l'ha tramandato l'aurea sua penna nelle più volte
menzionate "Memorie".
«Nel sonno mi parve di essere vicino a
casa, in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una
moltitudine di fanciulli che si trastullavano. Alcuni ridevano,
altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle
bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro, adoperando
pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un Uomo
venerando, in virile età, nobilmente vestito. Un manto bianco
gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così
luminosa, ch'io non poteva rimirarla. Egli mi chiamò per nome,
e mi ordinò di pormi alla testa di quei fanciulli, aggiungendo
queste parole: - Non colle percosse, ma colla mansuetudine e
colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti
dunque immediatamente a far loro un'istruzione sulla bruttezza
del peccato e sulla preziosità della virtù.
Confuso e spaventato soggiunsi che io era
un povero e ignorante fanciullo, incapace di parlar di religione
a que' giovanetti. In quel momento que' ragazzi, cessando dalle
risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti
intorno a Colui che parlava. Quasi senza sapere che mi dicessi:
- Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?
- Appunto perché tali cose ti sembrano
impossibile, devi renderle possibili coll'obbedienza e con
l'acquisto della scienza.
- Dove, con quali mezzi potrò acquistare
la scienza?
- Io ti darò la Maestra, sotto la cui
disciplina puoi diventar sapiente e senza cui ogni sapienza
diviene stoltezza.
- Ma chi siete voi, che parlate in questo
modo?
- Io sono il Figlio di Colei, che tua madre
ti ammaestrò di salutare tre volte al giorno.
- Mia madre mi dice di non associarmi con
quelli che non conosco, senza il suo permesso; perciò ditemi il
vostro nome.
- Il mio nome domandalo a mia Madre. In
quel momento vidi accanto a Lui una donna di maestoso aspetto
vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se
ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi
ognor più confuso nelle mie domande e risposte, mi accennò di
avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano e: - Guarda!
mi disse. Guardando m'accorsi che quei fanciulli erano tutti
fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti., di
cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. Ecco il tuo
campo ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto, e
ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu
dovrai farlo per i figli miei.
Volsi allora lo sguardo, ed ecco invece di
animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti
saltellando accorrevano intorno belando, come per fare festa, a
quell'Uomo e a quella Signora.
A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a
piangere, e pregai quella Donna a voler parlare in modo da
capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse
significare.
Allora Ella mi pose la mano sul capo
dicendomi: - A suo tempo tutto comprenderai. Ciò detto, un
rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve.
Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere
le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la
faccia mi dolesse per gli schiaffi ricevuti da quei monelli; di
poi quel Personaggio, quella Donna, le cose dette e quelle udite
mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu
più possibile prendere sonno».
Narrato questo sogno il dì seguente in
famiglia, non ne parlò più per trentaquattro anni; ma egli
dice che non se lo potè mai più togliere dalla mente; anzi
nello svolgersi degli avvenimenti gli pareva di scorgere il
graduale avverarsi delle cose vedute e udite. Oggi noi possiamo
ravvisare in esso l'annuncio di una missione, per la quale gli
furono indicati l'oggetto, il metodo e l'esito finale. Lo stesso
Pio IX, quando lo udì, lo prese sul serio. Al qual proposito
Don Bosco chiude così la sua narrazione: «Io ho sempre taciuto
ogni cosa, ed i miei parenti non ne fecero caso.
Ma quando nel 1858 andai a Roma per
trattare col Papa della Congregazione Salesiana, egli mi fece
minutamente raccontare tutte le cose che avessero avuto anche
solo apparenza di soprannaturale. Raccontai allora per la prima
volta il sogno fatto di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò
di scriverlo nel suo senso letterale, minuto, e lasciarlo per
incoraggiamento ai figli della Congregazione, che formava lo
scopo di quella gita a Roma».
Bisogna aggiungere che ad aumentargli
l'impressione intervenne il ripetersi del medesimo sogno per
oltre sei volte e con sempre nuovi particolari, che servivano di
sviluppo e di chiarimento a quello. A 16 anni ebbe la promessa
degli indispensabili mezzi materiali; a 19 ricevette l'imperioso
comando di occuparsi della gioventù; a 21 gli fu indicata la
categoria dei giovani, ai quali specialmente doveva rivolgere le
sue cure; a 22 gli si additò, qual suo primo campo di azione,
la città di Torino. Le ultime due volte vide distintamente il
sorgere di una grande opera in Valdocco e apprese come avrebbe
dovuto fare per circondarsi di validi aiutanti; era l'annuncio
dell'Oratorio e della Società Salesiana.
Il rinnovarsi di questi fenomeni vinse del
tutto le sue perplessità circa la loro natura, facendolo
persuaso che vi fosse in ciò del soprannaturale. Infatti l'8
maggio del 1884, parlando ai membri della Società, ne diede
loro contezza e poi terminò così: «Taluno potrà dire: queste
cose tornano a gloria di Don Bosco. Niente affatto: a me tocca
solo di rendere un conto tremendo intorno al modo con cui avrò
adempiuto la divina volontà. Con questo disegno manifestatoci
dal Signore io sono sempre andato avanti e questo fu l'unico
scopo di quanto finora operai. Questo è il motivo, pel quale
nelle avversità, nelle persecuzioni, in mezzo ai più grandi
ostacoli non mi sono mai lasciato intimorire ed il Signore fu
sempre con noi». La cronaca dell'Oratorio che ci fornisce tali
notizie, termina notando: «Non si può descrivere la profonda
impressione che fece e l'entusiasmo che destò simile
rivelazione».
Il ricordo del profetico sogno gli si
risvegliò nella memoria, anzi quasi lo assalse a Roma nel
maggio del 1887, mentre celebrava nella Chiesa del Sacro Cuore.
Tanta fu l'emozione, che le lacrime gl'inondarono il viso. Erano
trascorsi sessantadue anni, dacché gli era stato detto: - A suo
tempo tutto comprenderai. Sentiva giunto quel tempo; l'erezione
del santuario dedicato al Cuor di Gesù nell'eterna città e
consacrato il giorno prima gli parve quasi coronamento della
missione adombratagli da fanciullo. Ma più ancora compresero i
suoi figli, testimoni di ben grandi sviluppi ulteriori
dell'opera, di cui, piccolo veggente, aveva avuto una pallida
idea e che, santo vegliardo, contemplava in una già avanzata
realtà.
Ben a ragione il suo terzo successore Don
Rinaldi, compreso di tutta l'importanza del celeste messaggio,
nel centenario della fatidica data richiamò su di esso
l'attenzione dei Salesiani, stimolandoli a meditarlo per cavarne
utili insegnamenti. Infatti, a ben riflettervi oggi, vi si sente
palpitare come in embrione il programma di azione assegnato
dalla Provvidenza a Don Bosco ed a' suoi figli.
Se di lassù era venuta la missione, è
evidente che fine ultimo, dell'opera educativa di Don Bosco non
poteva essere di dar solo buoni cittadini alle patrie terrene,
ma di preparare buoni cristiani per la patria celeste. Ecco
perché egli nel 1868, prendendo la parola dopo l'accademia del
suo onomastico, affermò categoricamente: - L'unico scopo
dell'Oratorio è di salvare anime. Sta bene che buon cittadino e
buon cristiano non furono per Don Bosco due termini
incompatibili, ma che con questo va necessariamente unito
quello, e che Don Bosco non trascurò nulla di quanto la sana
pedagogia e il suo intuito psicologico gli dettavano per trarre
dal fanciullo il futuro professionista e il futuro operaio, che
si facessero onore; si spiega pure facilmente com'egli di fronte
alle autorità dello Stato mettesse in rilievo di preferenza il
lato civile dell'educazione da lui impartita: ma egli non
concepiva l'educazione di un giovane battezzato senza l'obbligo
di far convergere ogni attività pedagogica allo sviluppo della
vita soprannaturale. Ecco il punto che interessa qui a noi di
studiare per conoscere il particolare atteggiamento di Don Bosco
dinanzi al gran problema.
Dice egregiamente Mons. Cavigioli: «La
vita etica dell'uomo, dopo Cristo, deve svolgersi nella sfera
del soprannaturale; l'educazione che pretendesse di arrestarsi
nella zona naturale, sarebbe un abbassamento di livello. Chi
scende dal piano della grazia sconta subito l'errore, perché
non fa sosta al pianterreno della natura, ma capitombola più in
giù».
E c'era bisogno di chi alzasse
risolutamente il vessillo dell'educazione cristiana integrale,
massime tra la classe più numerosa della società. Quando il
nostro Santo scese in campo, il naturalismo invadente
s'impadroniva sempre più dell'anima giovanile nella scuola
aperta a tutti. Le teorie pedagogiche più in voga prescindevano
affatto da qualsiasi presupposto di elevazione a un ordine
superiore, se pure non vi si levavano contro ostili. Non di rado
anche i buoni, trascinati dalla corrente, sacrificavano chi più
chi meno alle tendenze del tempo. Don Bosco, nulla sdegnando del
buono che la modernità gli offriva, poneva molto più in alto
il suo ideale.
Com'egli concepisse l'educazione, lo dava a
conoscere fin dal momento, in cui riceveva i giovani che
venivano a lui: li riceveva come dalla mano di Dio. Dio ci ha
mandato, diceva, Dio ci manda, Dio ci manderà molti giovani.
Sapeva bene che i loro parenti e benefattori glieli affidavano,
perché li facesse istruiti nella letteratura, nelle scienze,
nelle arti e nei mestieri, ed egli rispondeva a tale
aspettazione; ma nelle istruzioni a' suoi aiutanti andava
ripetendo: - Il Signore ce li manda, affinché noi ci
interessiamo delle loro anime ed essi qui trovino la via
dell'eterna salute. Perciò tutto il resto deve qui da noi
considerarsi come mezzo; il nostro fine supremo è di farli
buoni e salvarli eternamente. Onde subito nel primo incontro
parlava loro dell'anima; anzi su questo punto aveva un'opinione,
che forse cagionerà qualche sorpresa.
Riteneva che se all'entrata di un giovane
il Superiore non dimostra amore per la sua eterna salvezza, se
teme di parlargli prudentemente delle cose di coscienza, se
parlandogli dell'anima usa mezzi termini o gli dice in modo
vago, ambiguo di farsi buono, di farsi onore, di ubbidire,
studiare, lavorare, non produce effetti durevoli, ma lascia le
cose come sono e non se ne guadagna l'affezione. È un passo
falso ed essendo il primo, riesce difficile correggerlo; tanto
gli aveva insegnato una lunghissima esperienza. Il giovane,
soleva dire, ama più che non si creda di sentirsi parlare de
suoi interessi eterni e capisce da ciò chi gli vuole e chi non
gli vuole veramente bene. Né a far ciò dev'essere soltanto il
Superiore della casa; ma raccomandava che segnatamente in
principio dell'anno tutti gli altri nell'insegnare,
nell'assistere, nel correggere, nel premiare facessero vedere ai
giovani essere là unico movente il bene dell'anima loro.
Dai maestri voleva che si considerasse la
scuola come un mezzo per fare del bene. Voi siete, diceva loro,
come i parroci nella propria parrocchia, come i missionari nel
campo del proprio apostolato. Perciò di quando in quando
mettete in risalto le verità cristiane, parlate dei doveri
verso Dio, dei sacramenti, della divozione alla Madonna. Voleva
insomma che le loro lezioni fossero cristiane e che
nell'esortare gli alunni ad essere buoni cristiani si
mostrassero franchi e amorevoli. Ecco, diceva, il gran segreto
per affezionarsi la gioventù e acquistarne tutta la confidenza.
Chi ha vergogna di esortare alla pietà, è indegno d'essere
maestro; ed i giovani lo disprezzano ed egli non riuscirà ad
altro che a guastare i cuori che la divina Provvidenza gli ha
affidati.
Ogni superiore, ogni maestro doveva
ricorrere costantemente a Dio per aiuto e tutto a Dio riferire
il bene operato. Quando taluno si lamentava della sua scuola,
d'ordinario egli cominciava a domandargli: - Preghi tu per i
tuoi scolari? - Nei "Ricordi confidenziali" ai
Direttori raccomandava a ognuno di essi: «Nelle cose di maggior
importanza fa' sempre breve elevazione della mente a Dio prima
di deliberare». E nel Regolamento delle Case, a conclusione
degli articoli preliminari o generali, dichiara essere a tutti
indispensabile con la pazienza e la diligenza molta preghiera,
senza la quale egli crede inutile ogni buon Regolamento.
Quando poi si fosse soddisfatti dei
risultati ottenuti, il suo pensiero era: - Bisogna umiliarci
davanti a Dio, riconoscere tutto da lui, pregare e specialmente
nella santa Messa, all'elevazione dell'Ostia, raccomandare sé,
le proprie fatiche, i propri alunni. Dal canto suo, dopo la
ripresa regolare delle lezioni, incominciava a illustrare
variamente e sapientemente i tre articoli fondamentali del suo
programma: fuga dal peccato, frequente confessione, frequente
comunione. Introdurre e mantenere Dio nell'anima dei giovani
costituiva la massima delle sue sollecitudini.
L'argomento potrebbe condurci ancora molto
lontano. Dal fin qui detto però appare già abbastanza quanto
per Don Bosco l'elemento religioso nell'educazione fosse
essenziale, anzi prevalente; senza quello l'educazione, secondo
lui, non solo era senza efficacia, ma non aveva nemmeno
significato. In un Avviso Sacro, medesimo stampato e diffuso nel
1849, si legge questa sentenza: "La sola religione è
capace di cominciare e compiere la grand'opera di una vera
educazione». Così dicendo non intendeva certo una religiosità
vaporosa, astratta, senza pratiche.
Nella sua Vita del giovane Francesco
Besucco, pubblicata nel 1864, parla ben chiaro, non curando
quello che potessero pensare i pedagogisti: «Dicasi pure quanto
si vuole intorno ai varie sistemi d'educazione: ma io non trovo
alcuna base sicura, se non nella frequenza della Confessione e
Comunione: e credo di non dir troppo, asserendo che, omessi
questi due elementi, la moralità resta bandita». Tale
convincimento lo accompagnò per tutta la vita.
Nel 1878 lo dichiarò francamente ad un
alto funzionario governativo: - Si dice che Don Bosco vuol
troppa religione. E infatti io ritengo che senza religione nulla
si possa ottenere di buono fra i giovani. E nel 1885, con un
senso di sconforto, usciva a tal proposito in questo lamento: -
Vecchio e cadente me ne muoio col dolore di non essere stato
abbastanza compreso. Non specificò da chi; ma non è difficile
indovinarlo.
Lo comprese assai bene il Papa Pio XI. Dopo
averlo proclamato «grande propugnatore dell'educazione
cristiana», indicò nell'omelia della canonizzazione quale
fosse il segreto per cui il sistema educativo di S. Giovanni
Bosco ottenne frutti così copiosi e mirabili. «Egli attuava,
disse il Pontefice, quei principi che si ispirano al Vangelo e
che la Chiesa Cattolica ha sempre raccomandato». In sintesi
felice il citato Caviglioli ritrasse con poche frasi l'unico e
vero ideale pedagogico di Don Bosco: «Dio, rivelato nel Cristo
Redentore, vivente nella Sua Chiesa ed operante con i Suoi
carismi su tutta l'opera educatrice».
Plasmare cristianamente le coscienze
giovanili fu in ogni tempo il proposito degli educatori
cristiani; Don Bosco vi si accinse in un momento storico, nel
quale impellente più che mai ne era la necessità. A dire del
come procedesse ci sarebbe materia non per qualche pagina, ma da
riempire un grosso volume. Riassumerò il molto intorno a due
punti soli: nel campo dell'educazione egli operò prodigi
mediante la bontà sacerdotale e la pietà cristiana, l'una e
l'altra sotto forme senza precedenti.
A dire della prima prendo le mosse da una
sentenza che egli proferì a Parigi nel 1883 in un convegno di
illustri signori. Disse allora: «Le anime giovanili nel periodo
della loro formazione han bisogno di sperimentare i benefici
effetti della dolcezza sacerdotale». Dolcezza o amorevolezza
sacerdotale è emanazione di sacerdotale bontà: di una bontà
che, nata e alimentata dall'amor di Dio, si appalesa paterna e
confidente per il bene delle anime e in chi visse sotto il suo
influsso fin dalla tenera età lascia un ricordo duraturo e
salutare. Questa bontà, sapientemente e soavemente adattata
all'età giovanile, Don Bosco scelse per suo metodo educativo e
a buon diritto Don Rua lo definì un uomo, nel quale Dio elevò
la paternità spirituale, al più alto grado.
Nell'oratorio la bontà di Don Bosco
s'irradiava, in ogni parte. Era come il sole, che diffonde luce
e calore anche dove non si vede. Essa manteneva nell'ambiente il
sereno e nei giovani il desiderio di renderlo contento; onde al
comparire di lui nel cortile gli correvano incontro per
baciargli la mano e stargli vicino, ed egli a parlare, a
sorridere, a faceziare, volgendo in qua e in là lo sguardo e
accostando l'orecchio alle labbra di chi accennava di aver
qualche cosa da dirgli e le labbra all'orecchio di chi egli
desiderava di ammonire, esortare, incoraggiare.
Non perdeva mai di vista tre massime
ispirategli dal suo cuore sacerdotale e ricordate costantemente
ai suoi per cattivarsi l'affetto e la confidenza dei giovani:
amare quello che essi amano e così ottenere che amino loro pure
quello che amiamo noi per loro bene; amarli in modo che
conoscano di essere amati; porre ogni studio, affinché mai
nessuno di essi parta da noi malcontento. Si fa presto a
enunciare simili aforismi, più presto ancora ad applaudirvi;
l'attuarli invece costa continui e non lievi sacrifici.
Ma Don Bosco insegnava pure che l'educatore
è un individuo consacrato al bene de' suoi allievi e che perciò
dev'essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per
conseguire il suo fine. In ciò la forza e la costanza sono
possibili solo a chi nella grande opera dell'educazione cerca
unicamente la gloria di Dio e il vantaggio delle anime, cosa da
lui predicata con la parola e con l'esempio. Venne bensì il
tempo, in cui altre occupazioni ne diminuivano l'assiduità fra
i giovani; ma allora si era creato intorno uno stato maggiore,
che, quale sua longa manus, arrivava dove non poteva più lui e
agiva in suo nome e con l'identico suo spirito.
Detto ciò quasi in genere, scendiamo ad
alcuni particolari, omettendone tanti altri che esigerebbero
troppo lungo discorso.
La sacerdotale bontà di Don Bosco si
rivelava agli alunni fin dal loro por piede nell'Oratorio. I
suoi modi paterni, la serenità del suo viso, l'amabilità del
suo sorridere svegliavano subito in essi rispetto e confidenza.
Bisognerebbe poter qui riferire le svariate e abili
interrogazioni che rivolgeva ai nuovi arrivati, secondoché ne
intuiva l'indole e l'umore. Al momento buono veniva fuori
l'immancabile domanda: - Vuoi essere amico di Don Bosco? - E
questa gli apriva la via a parlare di anima e ad insinuare il
pensiero della confessione.
A chi non conosce Don Bosco, parrà strano
questo che dico; eppure egli usava qui tanta naturalezza, che i
novellini, uscendo, gli lasciavano nelle mani la chiave del
proprio cuore.
Don Bosco parlava ogni sera ai giovani
riuniti dopo le orazioni nella così detta "buona
notte". Erano pochi minuti di intima familiarità e di
paterna effusione, nei quali stampava in tutti l'ultima
impressione della giornata. I suoi uditori ci tramandarono buon
numero di tali parlate. A titolo di saggio ne riporterò una,
che fa proprio al caso nostro.
Ogni 31 dicembre soleva dare a quell'ora la
strenna, ossia qualche ricordo spirituale per il nuovo anno. Nel
1859 esordì in questo modo: «Miei cari figliuoli, voi sapete
quanto io vi amo nel Signore e come io mi sia tutto consacrato a
farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel
poco di esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto
posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto
desidero impiegare a vostro, servizio. In qualunque giorno e per
qualunque cosa, fate pure capitale su di me, ma specialmente
nelle cose dell'anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me
stesso; sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire
che nulla riserbo per me». Dati poi i ricordi, continuava:
"Voglio che si finisca l'anno con perfetto amore e santa
allegrezza. Perciò io perdono a voi qualunque mancanza possiate
aver fatta, e anche voi perdonatevi a vicenda le offese, che per
caso abbiate ricevute. Voglio cominciare l'anno 1860 senza
malumore e senza malinconie». E su questo tono di amorevolezza
condusse a termine il sermoncino.
I giovani sapevano di poter andare da lui
ogni volta che volessero, come li riceveva bene! Fattili sedere
sul sofà, egli, seduto al tavolino, li ascoltava attentamente,
come si ascolta chi ha cose importanti da dire, e dava loro
tutta la soddisfazione possibile. Dopo il colloquio li
accompagnava fino alla soglia, apriva loro la porta e li
congedava con il suo solito: - Siamo sempre amici, eh! È
inutile dire che i giovani discendevano dalla scala sereni e
contenti come pasque.
E com'erano felici d'imbattersi in lui,
andando per casa! Il suo animo paterno gli metteva ogni volta
sulle labbra qualche affettuosa parola, che tornava gradita
quanto un bel regalo; tanto più che egli soleva allora
ricordare amabilmente qualche cosa che interessasse
l'incontrato. Gli ammalati poi ricevevano le sue visite
nell'infermeria non da lontano e di sfuggita, ma al proprio
letto e a tutt'agio. S'informava del loro stato, ne sollevava
l'animo e, occorrendo, dava ordini o provvedeva direttamente.
A un educatore, chiunque egli sia, non
possono mancare occasioni di dover correggere, far rimproveri o
punire. La bontà sacerdotale di Don Bosco aveva fin dal 1846
formulato la norma da seguire in simili casi.
Durante una sua assenza da Valdocco era
venuto a sapere che un amico sacerdote, suo aiutante
nell'Oratorio, trattava i ragazzi «con molta energia», sicché
ne aveva già disgustati parecchi. Don Bosco il 31 agosto,
mettendo sull'avviso il teologo Borel, che lo sostituiva nella
direzione, gli scriveva: "Ella faccia che l'olio condisca
ogni vivanda nel nostro Oratorio». Allo stesso linguaggio
metaforico ricorreva poi anche in seguito, presentandosi casi
simili. Per esempio, nel 1866 disse un giorno a Don Rua, che
sovrintendeva alla disciplina: «Mi pare di aver udito certi
usci stridere, ed un po’ d'olio ai cardini accomoderebbe tutto».
Anzi, gli raccomandava addirittura di farsi mercante d'olio. Non
fa bisogno di dire che di quest'olio egli faceva uso senza
risparmio.
Non è possibile seguirlo in tutte le
manifestazioni di bontà, delle quali allietava l'Oratorio, né
esporre quanto con esse guadagnasse di confidenza da parte degli
allievi. Si leggano le pagine tanto ammirabili e tanto ammirate
sul sistema preventivo, dettategli dal suo cuore di sacerdote
educatore. Quello fu il codice, prima che scritto, vissuto da
lui per circa quarant'anni: là è dato di cogliere, insieme col
genuino suo pensiero pedagogico, anche le sfumature dello
spirito, che lo animò nella lunga e laboriosa opera educatrice
e col quale riportò trionfi, dai pedagogisti neppure
immaginati.
Uno di questi trionfi (chi lo crederebbe?)
fu nientemeno che il Card. Cagliero. Ragazzo pieno di vita e
d'ingegno, aveva l'argento vivo addosso. Sebbene il regime
dell'Oratorio avesse assai più della famiglia che del collegio,
pure il frugolo castelnovese scoteva il giogo ed era la
disperazione dei superiori, che avevano da fare con lui. Vi fu
chi fece la proposta di rimandarlo a casa, e se non fosse stato
di Don Bosco, il Cagliero non sarebbe divenuto quello che
divenne. Don Bosco invece seppe così bene prenderlo per il suo
verso, che a poco a poco ne fece un giovane esemplare, e poi
tutto il resto che è noto.
Un Vescovo argentino in un suo discorso per
le feste della beatificazione ebbe una felice idea, togliendo a
dimostrare che Don Bosco educatore aveva del pedagogo il puro
necessario, del carabiniere niente, del padre tutto.
A Londra un anglicano, che dirigeva un
ospizio di giovani, avendo letto il testo di Don Bosco sul
sistema preventivo e osservante l'applicazione nell'Oratorio di
Torino e in alcuni collegi d'Italia, ne era rimasto talmente
impressionato, che si studiava di conformarvisi quanto poteva.
Di Don Bosco teneva il ritratto nella sala di ricevimento,
perfino col motto: Da mihi animas, cetera tolle.
Due suoi articoli, pubblicati nel 1900 e
nel 1903, terminavano col far voti che il Signore suscitasse in
Inghilterra uomini dallo spirito di Don Bosco, perché ve n'era
estremo bisogno. Essendo ritualista, vi parlava anche della
frequente confessione e comunione e della Messa quotidiana; solo
che non la chiamava Mass, invisa a suoi correligionari, ma
Eucharist.
Anche questo dunque aveva compreso il
protestante, ossia che del sistema educativo di Don Bosco la
pietà cristiana è il fondamento. Ecco la seconda
caratteristica accennata sopra. Molto a tal proposito abbiamo già
visto nei capi che precedono massime negli ultimi; mi restringo
quindi a poche osservazioni e testimonianze.
La pietà nell'Oratorio veniva coltivata,
non imposta; fioriva perciò con una simpatica spontaneità. La
alimentavano la comune preghiera, la Messa, quotidiana, la
frequente confessione e comunione e il sermoncino della sera.
Pratiche periodiche la stimolavano, come la predicazione
festiva, l'esercizio mensile della buona morte e gli esercizi
spirituali a metà dell'anno scolastico. Vi contribuivano le
feste religiose, preparate con cura e celebrate con solennità.
Sostenevano la pietà quattro Compagnie o Associazioni interne,
ognuna con proprio regolamento. Si raggruppavano in esse i
migliori delle varie sezioni, i quali s'infervoravano a vicenda
e si tiravano dietro gli altri; erano il buon fermento, che
agiva nella massa.
Ma più di tutto e più di tutti influiva
Don Bosco col suo esempio, con le sue parole e con il ministero
della confessione, come abbiamo già detto altrove. La sua pietà
poi e il suo zelo per la pietà si comunicavano ai subalterni,
che portavano il medesimo spirito anche nei collegi: «Chi
visita l'Oratorio, scriveva il Vescovo di Vigevano De Gaudenzi,
ed i vari stabilimenti eretti e governati dal Sig. Don Bosco
coadiuvato dai suoi sacerdoti vi sente tosto un non so che di
pio, che non è dato facilmente di sentire in altri Istituti;
par che negli Istituti di Don Bosco si respiri proprio il buon
odore di Gesù Cristo».
Anche un altro Vescovo, il Vescovo di
Casale Ferré, fu colpito dalla pietà osservata nelle case di
Don Bosco. Il dotto Prelato disse una volta in presenza di
ragguardevoli persone che un gran segreto di Don Bosco nella sua
opera educativa era imbevere i giovani delle pratiche di pietà.
«L'atmosfera stessa che li circonda, continuò, l’ aria che
respirano è impregnata di pratiche religiose. I giovani così
impressionati non osano quasi più, anche volendo, fare il male;
non hanno mezzi di farlo; dovrebbero muovere contro la corrente
per divenir cattivi; trascurando le pratiche di pietà, si
troverebbero come pesci fuor d'acqua. Questo è che li rende
docili e li fa operare per convinzione e per coscienza, sicché
una ribellione non è neanche possibile immaginarla. Le cose
vanno per forza irresistibile».
Don Bosco un giorno, riferita questa
osservazione, disse che era una bella e buona verità, e vi
aggiunse questo commento: «Con le pratiche di pietà si cerca
di non opprimere i giovani, anzi di non istancarli mai; si fa
che quelle siano come l'aria, che non opprime, non istanca mai,
ebbene noi ne portiamo sulle spalle una colonna pesantissima: la
ragione è che interamente ci circonda e interamente c'investe
dentro e fuori».
Due cose vanno rilevate nella pietà, quale
la inculcava Don Bosco: non era una pietà sentimentale né
andava scompagnata da allegria. Una pietà fatta di sentimento
è superficiale e quindi effimera. Don Bosco non conobbe la
malattia moderna del sentimentalismo. Nel suo concetto la vera
pietà consiste in una disposizione d'animo a schivare l'offesa
di Dio anche leggiera ed a compiere per amor di Dio tutti i
propri doveri. Le pratiche, se non conducono a questo, restano
cose campate in aria. Perciò nelle occasioni di tridui, di
novene, di mesi e di feste raccomandava, sì, la comunione o
preghiere speciali, ma insieme indicava giorno per giorno col
nome di fioretti certi doveri, certi atti di virtù, certe opere
buone da fare, in omaggio al Signore, alla Madonna, ai Santi,
soprattutto lo studio, il lavoro, l'obbedienza, l'osservanza di
qualche regola e in primis fuga del peccato, segnatamente del
peccato impuro.
La pietà da lui inculcata s'ispirava al
primo versetto del Salmo CXI Beatus vir, qui timet Dominum; in
mandatis eius cupit nimis. In generale, i suoi sermoncini del
serale saluto, gira e rigira, finivano sempre, come i salmi in
Gloria, in un pensiero su cosa concernente la pietà associato
con qualche altro riferentesi agli obblighi del proprio stato o
a qualche verità della fede. Era un suo principio che la fede
è l'occhio della pietà; non per nulla abbondava all'Oratorio
l'istruzione religiosa. Così dava ai giovani una pietà
illuminata e li abituava ad agire per motivi soprannaturali e
per coscienza; che qui sta la differenza fra il pedagogista e il
sacerdote educatore, il primo fa un lavoro psicologico, il
secondo si occupa anche e più nello studio delle coscienze.
E poi l'allegria. Dice bene un noto
scrittore di ascetica: «La tristezza, è un soffio che viene
dall'inferno; la letizia è l'eco della vita di Dio in noi». In
Don Bosco, dall'anima piena di Dio, l'allegrezza del cuore
traluceva dall'aspetto, dal sorriso, dall'abituale ottimismo, e
così passava in coloro che lo attorniavano. Il servite Domino
in laetitia è un articolo essenzialissimo nella sua pedagogia.
In gioventù non aveva già denominato dall'allegria una società
di condiscepoli da lui fondata per tirarli al bene? Il piissimo
Domenico Savio, tutto imbevuto dello spirito di Don Bosco, ne
interpretava fedelmente il sentimento, quando diceva a un nuovo
venuto: «Sappi che noi qui facciamo consistere la santità
nello star molto allegri». E non eran parole. Nel 1857 un
giovanotto, poco dopo il suo ingresso nell'Oratorio, scriveva ad
un amico: «Qui mi sembra di essere in un paradiso terrestre.
Tutti sono allegri, ma di un'allegria veramente celeste, e
specialmente quando si trova Don Bosco in mezzo a noi».
La vita dell'Oratorio era fatta di pietà,
studio e lavoro, ma il tutto condito di santa allegria. «Chi
non ha visto, difficilmente se ne fa un'idea», scrive lo
storico che vide. I superstiti di quei tempi ringiovanivano,
decantando la gioia allora da essi goduta nella casa di Don
Bosco. Eppure non si conoscevano neppur di nome le comodità
introdotte dopo. Chi ha il cuore in pace, fa sempre festa, dice
la Scrittura: secura mens quasi iuge convivium.
Don Bosco nel trattatello sul Sistema
preventivo prometteva di comporre un'operetta intorno a tale
argomento; ma non potè adempiere la promessa. Invece, assai più
che un libro, nel quale fosse esposta ampiamente la sua
dottrina, lasciò dopo di sé a' suoi figli uno spirito, che
nell'apostolato dell'educazione li guidasse meglio di tutti i
libri del mondo. Questo spirito aveva in lui un'unica sorgente:
la intima e abituale unione con Dio, alimentata dalla sua
vivissima fede.
CAPO XIV. - Uomo di fede.
Ogni cristiano è tale per la fede, di cui
il battesimo è la porta, ed è la fede il fondamento della vita
soprannaturale e il vincolo che unisce l'anima a Dio; la qual
fede viene integrata dalla speranza e dalla carità. Ma altro è
essere credente, altro essere uomo di fede. Il credente pratica
più o meno la sua fede, mentre l'uomo di fede vive della fede e
la vive a segno da raggiungere una profonda e continua unione
con Dio. Tale fu Don Bosco.
Veramente, quasi tutto quello che abbiamo
visto fin qui e gran parte del resto che vedremo, è fede
vissuta: pensieri, affetti, imprese, ardimenti, dolori,
sacrifici, pie pratiche, spirito di orazione furon tutte fiamme
sprigionantisi dalla fede che gli ardeva in petto; parrebbe
quindi doversi o ridire il già detto o rinunciare a un capo
sulla fede. Tuttavia nella vastità del campo ci rimane ancora
qualche poco da spigolare. Una vita così perennemente e
intensamente animata dal soffio della fede non offrirà materia
a indugiarci di proposito nella prima delle virtù teologali?
Non possono mancarvi note caratteristiche meritevoli di essere
messe in particolare rilievo.
Fra i testi chiamati a deporre nei
processi, quelli che vissero più lungamente vicino a Don Bosco,
si direbbe che fanno a gara per esaltarne la fede. Le loro
deposizioni si possono condensare in questa formula: le verità
della fede il nostro Santo fu avido di conoscerle, fermo nel
crederle, fervente nel professarle, zelante nell'inculcarle,
forte nel difenderle. Degna di attenzione speciale è la
testimonianza, con cui Don Rua incominciò la sua deposizione.
Esordì in questi termini: «Fu uomo di fede. Istruito da
bambino nelle principali verità della nostra santa religione
dall'ottima sua madre, ne divenne famelico».
L'ultima espressione è non meno vera che
bella; non solo però nella puerizia la mamma nutrì di fede
l’anima del figlio, ma anche dopo, nei momenti più solenni
della vita, riversò nel cuore di lui la piena della fede che
traboccava dal suo. Ecco perché Don Bosco serbò quasi un culto
alla memoria della virtuosa genitrice. Fino agli estremi suoi
giorni scrisse e parlò di lei con una tenerezza che commuove.
Nelle sue parole vibrava un sentimento di viva gratitudine a Dio
per avergli dato una madre tanto pia; gli parve sempre questo un
segnalatissimo favore del Cielo.
Bisogna tuttavia aggiungere che, se la
madre interveniva nelle occasioni più importanti della sua
vita, questi suoi interventi erano prevenuti da potente lavorio
della grazia divina, la quale dal fondo della fede gli faceva
trarre atti e propositi generosi. Mamma Margherita, preparò il
suo Giovanni alla prima comunione, conducendolo ella stessa ai
piedi del confessore; ma egli, non pago ancora, volle tornare a
confessarsi altre due volte, tanto era alto il concetto che già
allora la fede gl'ispirava di sì augusto sacramento.
Nell'affare della vocazione la madre gli
dichiarò nettamente: - In queste cose io non centro, perché
Dio è prima di tutto. Non pensare a me. Io sono povera; ma se
tu, prete, diventerai ricco, non verrò a farti una sola visita.
Ma il figlio era già così persuaso di non dover ascoltare
nella vocazione la voce della carne e del sangue, che stava da
tempo in cima a' suoi pensieri una sola preoccupazione, quella
di ben conoscere e di fedelmente seguire la chiamata del
Signore; infatti, prima ancora di parlarne con la madre, andava
facendo tutte le diligenze possibili per venirne a capo.
Entrato poi nel seminario, vi portò
un'idea così eccelsa del sacerdozio, a cui aspirava, che per
prepararvisi degnamente si diede a una vita di perfezione non
solo praticando i consigli evangelici, ma consacrandosi perfino
con voto perpetuo. Ordinato prete, la madre gli tenne un sublime
discorso: - Sei prete, dici la Messa dà qui avanti sei dunque
più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che cominciare a dir
Messa vuol dire cominciare a patire. Da qui innanzi pensa
solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun
pensiero di me. Anche su di questo il figlio aveva già formate
le sue buone risoluzioni; tra le altre, quella di «patire,
fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando si trattasse di
salvare anime». Il suo spirito si moveva dunque in una piena
atmosfera soprannaturale di fede.
Venne il giorno, in cui era necessario che
scegliesse per quale via correre alla salvezza delle anime.
Nessuna preoccupazione in lui per tale scelta.
La fede gl'insegnava che la volontà di Dio
si manifesta per mezzo dei Superiori; a lui premeva soprattutto
di non metterci nulla di suo. Suo Superiore era il Beato
Cafasso. Questi un bel giorno gli diede ordine di andar a
dirigere un ospedaletto aperto per fanciulle dalla Marchesa di
Barolo ed a governare nello spirito un educandato della medesima
Signora. Ci poteva essere cosa più contraria alle sue
aspirazioni? Non era stata sempre sua ardente brama di occuparsi
dei giovani?
Dei precedenti suoi primi quattro mesi di
sacerdozio, passati presso il proprio parroco a Castelnuovo,
scrisse più tardi: «La mia delizia era fare il catechismo ai
fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro». E ne era
sempre circondato. Doveva dunque mandare tutto a monte? Non
prese consiglio da umana prudenza, ma unicamente dalla fede la
quale gli magnificava il valore e il merito dell'obbedienza.
Obbedì senza far motto. Non poteva certo supporre in quel
momento, che proprio per una via così impensata e così opposta
a' suoi disegni, la Provvidenza lo avviasse alla meta
vagheggiata.
«La fede è quella che fa tutto», scrisse
una volta. Con tale convinzione in mente, non credette mai di
aver fede abbastanza. Una volta raccomandò financo ai giovani
di pregare, perché il Signore gli concedesse «una fede viva,
quella fede che trasporta le montagne nel luogo delle valli, e
le valli nel luogo delle montagne». Anzi talora nel corso delle
sue imprese ed anche prossimo alla fine de' suoi giorni si accusò
di fede mancante, esclamando con le lacrime agli occhi: «Quante
cose di più avrebbe fatto il Signore, se Don Bosco avesse avuto
più fede!».
Vero è che senza una gran fede non avrebbe
potuto fare il gran bene che fece. Su questo tema ci sarebbe da
scrivere per un bel pezzo! Contentiamoci di fermare l'attenzione
su pochi punti ben determinati e più comprensivi. Aggiungiamo
poche cose sopra un tema già toccato nel capo settimo. Gloria
di Dio e salute delle anime sono due espressioni, che
s'incontrano con frequenza nella letteratura salesiana. L'uso
invalse a forza di udirle ripetere da Don Bosco e quindi anche
dal suo successore e continuatore Don Rua. Il nostro Santo nel
parlare ai Salesiani, nelle comunicazioni ai Cooperatori, negli
scritti, nella corrispondenza epistolare le adoperava di
continuo. Levato sulle ali della fede, non cercava altro nella
vita.
Una lezione salutare doveva finire di
staccarlo da sé e dalle mire terrene. Andava a recitare il
penegirico di S. Benigno in un paese dell'astigiano. Aveva
preparato un sermone coi fiocchi per far onore al Santo, ma un
poco anche a sé. Faceva la strada a cavallo. A mezzo cammino la
bestia spaventata si diede a una corsa pazza attraverso campi e
prati, finché lo buttò capovolto sopra un mucchio di pietre
spaccate. Portato privo di sensi in una casa vicina e curato, si
riebbe ma se la legò al dito. «Dopo questo avviso, scrisse
nelle Memorie, ho fatto ferma risoluzione di voler per
l'avvenire preparare i miei discorsi per la maggior gloria di
Dio e non per comparire dotto e letterato». La gloria di Dio e,
ciò che torna al medesimo, il bene delle anime gli stavano già
a cuore; ma da quel giorno vi si abbandonò senza riserva, nulla
scorgendo di più nobile né di più giusto per un ministro del
Signore.
Prima di mettere mano a un'impresa
qualsiasi, divenne sua costante abitudine osservare se
ridondasse a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime e,
avutane la morale certezza, riteneva che l'idea gli venisse
dall'alto, né cosa del mondo valeva più ad arrestarlo. Altri
intorno a lui potevano bene sbigottirsi nel timore che dovessero
mancare i mezzi. Uomini materiali! diceva in simili casi. Non è
molto più creare l'idea che dare i mezzi per attuarla? - Non
pochi stupirono al vederlo intraprendere la costruzione della
chiesa di Maria Ausiliatrice, sapendosi che non aveva fondi e
che non c'era da sperar molto per tali opere in quei tempi. Non
è questo uno sfidare la Provvidenza? - gli andavano dicendo. Ma
la sua risposta era sempre quella.
Il movente di una fede viva, illuminata e
costante produceva in lui effetti. Gli dava forza a tollerare
stenti, fatiche, disdette e persecuzioni che avrebbero, come si
esprime il Cagliero nei Processi, schiacciato chiunque si fosse
lasciato guidare da motivi umani. Inoltre lo manteneva in
un'abituale calma e serenità. Se Dio permette queste prove,
diceva, è segno che ne vuol cavare gran bene. Andiamo avanti
con coraggio e pazienza, confidando in Lui. Certuni de' suoi
avrebbero voluto qualche volta, come i figli di Zebedeo,
invocare il fuoco dal cielo; ma egli sorridendo ne smorzava le
collere dicendo: - Eh! voi siete ancora ragazzi. Bisogna lasciar
tutto nelle mani del Signore. Egli saprà disperdere i cattivi
disegni. Piuttosto preghiamo e non temiamo. Altre volte
osservava: - Quanto più mancano gli appoggi umani, tanto più
Dio vi mette del suo. L'ho già sperimentato. Oppure: - In mezzo
alle prove più gravi ci vuole maggior fede in Dio. Usciva anche
in invocazioni: - L'opera è vostra, o Signore, voi la
sosterrete. Se l'opera è mia, sono contento che cada. Infine
con l'animo così disposto le occupazioni materiali e le
preoccupazioni finanziarie sembrava che gli tornassero soavi e
si vedeva che non lo raffreddavano punto nell'esercizio della
sua unione con Dio.
Questo abbandono in Dio non escludeva le
industrie personali. Era sua massima che anche la Provvidenza
vuol essere aiutata dai nostri sforzi; onde nel cominciare le
sue opere prevedeva già sempre di dover darsi attorno. Non
bisogna aspettare l'aiuto della divina Provvidenza stando
neghittosi, soleva dire. Il Signore si muove in soccorso, quando
ne vede i nostri sforzi generosi per amor suo.
E circa le cose fatte che cosa gli
suggeriva la fede? Abbiamo su di questo una bella lezione data
durante la grave malattia del 1872 al coadiutore che lo
assisteva. La lezione non era per lui o almeno non per lui solo.
Giova riportarla. Quando principiava a riaversi, il rifluire
della salute lo rendeva espansivo più dell'ordinario, come
avviene generalmente nei convalescenti. Dopo aver facenziato sul
cambiamento che subiva della pelle, continuò: «Vedremo se
questa nuova pelle sarà più forte e più capace dell'altra a
resistere alle bufere e alle tempeste. Ho fiducia però che Dio
la renderà abbastanza resistente per l'opera sua, a sua maggior
gloria. Persuaditi, mio caro, tutte le nostre facoltà e il
nostro ingegno, tutti i nostri lavori, le nostre pene, le nostre
umiliazioni, bisogna che abbiano di mira solamente la gloria di
Dio. Se noi fatichiamo per il nostro onore, non valgono nulla i
nostri pensieri, i nostri trovati, le nostre invenzioni, le
nostre opere. Guai a chi lavora aspettando le lodi del mondo! Il
mondo è un cattivo pagatore, paga sempre con l'ingratitudine.
Chi è Don Bosco? È un povero figlio di contadini, che la
misericordia di Dio elevò al grado di sacerdote senza alcun suo
merito. Ma osserva quanto è grande la bontà del Signore! Egli
si servì di un semplice prete per fare cose ammirabili in
questo mondo; e tutto si fece e si farà in avvenire a maggior
gloria di Dio e della sua Chiesa!
La sua fede si rivelava al sommo nel
cercare la salute delle anime. Chiunque gli venisse dinanzi, la
sua mente lo faceva pensare subito all'anima di lui e al modo di
giovargli per l'eternità. Due considerazioni soprannaturali
gl'ispiravano questo zelo: il pericolo dell'altrui eterna
dannazione e tutto quanto aveva fatto e patito il divin
Redentore per la salute delle anime. Tremava quindi per la sorte
che poteva toccare a chi non si curasse dei propri destini dopo
la morte, e si sentiva acceso da forte brama di guadagnar tutti
a Gesù Cristo; nel che dava prova di un coraggio e di una
fortezza senza limiti: coraggio nel vincere ogni rispetto umano,
fortezza nel sopportare disagi, sacrifici, umiliazioni per sì
caritatevole e nobile scopo. Compreso del suo potere sacerdotale
di rimettere i peccati, invitava tutti al salutare lavacro della
confessione.
Finché gli fu possibile, si aggirava per
Torino in cerca di anime, entrando in pubblici esercizi, come in
osterie, caffè, botteghe di barbieri e con la scusa di una
consumazione, di un acquisto o di un servizio, attaccava
abilmente conversazione con avventori e principali, trovando la
via per giungere allo scopo da lui inteso. Più tardi non si
lasciava sfuggire occasione di toccare il medesimo tasto negli
incontri, nei viaggi o nelle udienze, nel che non faceva
distinzione di persone. Il Signore, è vero, gli aveva donato
un'efficacia di parola più unica che rara; ma ciò non toglieva
che in molte circostanze il suo linguaggio sonasse ostico sulle
prime o che si richiedesse da parte sua un tal quale ardimento
per entrare in certi discorsi con gente altolocata o con uomini
colti e con miscredenti. La sua fede però gli comunicava una
sicurezza e una disinvoltura, a cui, era difficile resistere.
Non a torto fu detto un gran pescatore di anime.
Qui specialmente mirava con una sentenza,
che gli piaceva ripetere parlando a ecclesiastici: «Chiunque
avvicini un sacerdote, deve riportarne sempre qualche verità
che gli rechi vantaggio all'anima»
Al qual proposito aggiungerò una notizia
venuta fuori durante il Processo Apostolico. Pio IX aveva
dispensato Don Bosco dalla recita dell'ufficio; ne recitava però
abitualmente qualche parte. Orbene egli in compenso promise di
non far atto né di pronunciar parola che non avesse in mira la
gloria di Dio. Avevano evidentemente questo scopo anche i
frequenti richiami ad aggiustare le partite della coscienza.
Della sua fortezza a tollerare incomodi e
sofferenze d'ogni sorta nell'esercitare il ministero del
perdono, abbiamo detto sopra quanto basta al nostro intento.
Persone a lui molto affezionate, vedendo che l'età e la salute
esigevano riguardi, avrebbero voluto che si moderasse nel lavoro
del confessionale e si concedesse un po' di riposo. È nota la
sua risposta: - Bisogna dire al demonio che cessi d'ingannar
tanti poveri giovani e di attirare tanti all'inferno; allora
cesserò anch'io dal sacrificarmi per loro.
Detto di questi due punti fondamentali, dirò
brevemente di tre altre cose, che ci aiuteranno a misurare la
grandezza della fede in Don Bosco. La prima riguarda il tanto
che fece e patì per difendere la fede contro gli attentati
dell'eresia.
Nel 1851, promulgate le leggi sulla libertà
dei culti e della stampa, i protestanti si buttarono a una
propaganda spietata nelle contrade piemontesi, erigendo financo
un tempio in Torino. I cattolici, avvezzi al regime precedente,
non erano preparati a sostenere la lotta. Don Bosco si levò
sentinella vigile in difesa della fede. Per preservare dalle
insidie gl'incauti, lanciava nel pubblico foglietti volanti,
fondò un periodico intitolato l'Amico della gioventù, e faceva
scrivere opuscoli che veniva divulgando con le Letture
Cattoliche, unì pure nel Giovane Provveduto un trattatello sui
Fondamenti della fede. Oggi questa inserzione pare un fuor
d'opera; ma aveva la sua ragion d'essere allora.
Ricoverava intanto nell'Oratorio quanti più
fanciulli poteva, strappati ai lacci dei protestanti. Teneva
colloqui e sosteneva dispute con caporioni e ministri delle
sette, incantandoli sovente con la sua mirabile calma e
impressionandoli con la luminosa chiarezza delle sue
dimostrazioni. La carità non mai scompagnata dalle sue parole
ne soggiogò parecchi, i quali abiurarono i loro errori. A molti
inviava soccorsi pecuniari, affinché, stretti dal bisogno, non
si lasciassero comprare dai nemici della fede. Metteva inoltre
sull'avviso parroci e prelati, denunciando subdole mene di
eretici.
Il suo zelo personale non era circoscritto
a Torino. Andava a predicare missioni in paesi già infetti dal
contagio ereticale. Fece gran rumore una sua predica nel 1856 a
Viarigi, dove si era insediato un apostata fanatico, che si
trascinava dietro una folla d'illusi; Dio ve lo favorì anche di
prodigi. Eppure non tutti anche tra i ben pensanti compresero la
sua provvidenziale azione e gli causavano affliggenti
umiliazioni, mentre avversari accaniti trascendevano a vie di
fatto, attentando più volte alla sua vita, come abbiamo
accennato altrove. Ma nulla intimidiva l'atleta della fede. Anzi
dal 1868 in poi estese pure le sue sollecitudini al Canton
Ticino, dove il radicalismo imperante aveva reso privi di
parroci non pochi luoghi; sommano a non meno di trenta i paesi,
ai quali procurò ottimi sacerdoti, sottostando a spese e
sacrifici e anche affrontando non lievi opposizioni; ma continuò
imperterrito, meritandosi la riconoscenza dei cattolici,
confermati per mezzo della sua carità nella loro fede.
Quanto gli costò l'erigere in Torino la
chiesa di S. Giovanni Evangelista, che a poca distanza dal
tempio valdese doveva neutralizzarne il malefico influsso! È
noto poi che le Case salesiane della Spezia, di Vallecrosia e di
Firenze furono da lui aperte con il fine precipuo di far argine
all'attività protestante. Dio benedisse anche là il suo zelo.
Alla Spezia per esempio, dove nel 1880 i protestanti avevano
cinquecento ragazzi alle loro scuole, nel 1884 ne avevano appena
più diciassette. Vi sarebbe ancora altro da dire; ma non lo
consentono i limiti di questo lavoro.
Un giorno Don Bosco, discorrendo in camera
con alcuni Salesiani, all'improvviso si fece serio, impallidì,
tremò da capo a piedi e stette con gli occhi fissi e immobili.
I circostanti lo guardavano spaventati, quando, ritornato in sé,
disse: - Ho veduto una fiammella spegnersi. Un giovane
dell'Oratorio festivo si è fatto protestante. Ecco un indice
della sensibilità di Don Bosco di fronte ai pericoli della
fede.
La fede di Don Bosco lo faceva trepidare
dinanzi al crescente diradarsi delle file dei giovani aspiranti
al sacerdozio. I tempi volgevano tristissimi per le vocazioni
ecclesiastiche; non è qui il luogo di enumerare le cause. Se
fides ex auditu, cosa sarebbe stato del popolo cristiano, quando
fosse venuta a mancare la parola di Dio e in genere l'istruzione
religiosa? Il servo fedele della Chiesa non si perdeva in vani
lamenti. Uomini del Governo avevano un bel rimproverargli di
fare troppi preti! Egli non la perdonava a sacrifici per
moltiplicare gli alunni del santuario.
Predicava a voce e per iscritto che,
procurando una buona vocazione, si regalava un gran tesoro alla
Chiesa. Quindi raccomandava ai Salesiani che per mancanza di
mezzi non ricusassero mai di ricevere un giovane, il quale desse
buone speranze di poter essere incamminato al sacerdozio.
Spendessero pure tutto quello che avevano e, occorrendo,
andassero anche a questuare: se per questo si trovassero in
bisogno, non si affannassero che la Madonna in qualche modo,
anche prodigiosamente, li avrebbe aiutati. Poco importava che un
prete andasse poi in diocesi, nelle missioni o in una casa
religiosa; era sempre un prezioso regalo fatto alla Chiesa di
Gesù Cristo.
Dal canto suo apriva le porte dell'Oratorio
ai giovani che mostrassero inclinazione allo stato
ecclesiastico; non credeva di poter impiegare meglio i mezzi
fornitigli dalla carità, che allestendo locali opportuni per
accoglierne il maggior numero possibile e spendendolo senza
riserva in lor favore per studio, vitto, vestito, titolo
ecclesiastico, riscatto dalla leva militare. Centinaia di
alunni, speranze della Chiesa, passarono dall'Oratorio in
seminari, checché cercassero d'insinuare coloro, i quali
sussurravano che Don Bosco pensava a reclutare vocazioni
solamente per sé. Nelle Memorie Biografiche possono riscontrare
dati positivi, donde risulta tutto il contrario.
Che dire poi degli enormi sacrifici di un
decennio per dare ospitalità e comodità di studi e di
formazione nell'Oratorio ai chierici di Torino e di altre
diocesi subalpine e liguri, quando il Governo ordinò la
chiusura di parecchi seminari? Non basta. A fine di cavare figli
di Abramo anche dai sassi, ideò nel 1875 e istituì l'Opera di
Maria Ausiliatrice per le vocazioni tardive, la quale somministrò
un contingente assai rilevante di buoni preti. In queste
sollecitudini la durò fino al termine della vita.
Nel 1883, dinanzi a vari autorevoli
Salesiani, disse con visibile compiacenza: - Sono contento! Ho
fatto redigere una diligente statistica, e si è trovato che più
di duemila sacerdoti sono usciti dalle nostre case e sono andati
a lavorare nelle diocesi. E rendeva grazie a Dio ed a Maria
Ausiliatrice, che gli avessero procurati i mezzi, con cui fare
tanto bene.
Altra nota caratteristica del suo spirito
di fede fu l'amore per tutto ciò che si riferisse al culto
divino. E’ vero che il culto appartiene alla virtù della
religione; ma presuppone la virtù della fede, che illumina sui
diritti di Dio. Prescindendo dal culto interno, oggetto di tanta
parte del già esposto fin qui, toccheremo solo del culto
esterno. Anche de' suoi atti di culto abbiamo avuto più volte
occasione di parlare. Resta da mostrare quanto fece il suo zelo
per i luoghi e per le cerimonie del culto.
Benché povero, profuse tesori
nell'erezione delle tre chiese di Maria Ausiliatrice e di S.
Giovanni Evangelista a Torino e del Sacro Cuore di Gesù a Roma.
Le volle splendide per ricchezza e per arte: «Che uomo unico!
scriveva l'architetto della seconda. Dandomi idea del prezzo da
spendere, aggiungeva con una pace e confidenza invidiabile: Però
è meglio far le cose bene e se la stima eccedesse anche del
doppio le somme stanziate, non fa niente, troveremo modo di
soddisfarvi».
Dando grande importanza alla musica,
impiantò in esse organi di prim'ordine. Le esecuzioni erano
avvenimenti, che servivano a tirar gente alle solennità e con
la decorosa grandiosità non solo mettevano entusiasmo nel
popolo, ma imprimevano negli animi un'alta idea dell'onore
dovuto a Dio.
Riguardo alle funzioni accennerò soltanto
a una geniale singolarità. Spiccava in esse il così detto
piccolo clero, creazione di Don Bosco nella forma da lui
introdotta. I Salesiani diffusero l'istituzione in ogni parte; a
Parigi una tal vista fece profonda impressione anche nel
Huysmans. Quei numerosi chierichetti di Don Bosco eseguivano le
sacre cerimonie con edificante esattezza, gravità e grazia e
serbavano un contegno, che attirava la divota ammirazione dei
fedeli.
Don Bosco sapeva innamorare i giovani di
tutto quello che si dice, servire, all’altare, tanto nelle
maggiori solennità e nelle feste ordinarie quanto nelle
funzioni quotidiane. Questo contribuiva molto a fare
dell'Oratorio un ambiente di fede, riflesso della fede di lui,
sempre desideroso di veder Dio degnamente servito. Coloro che
venivano di fuori, depose un testimonio ben informato, erano
presi d'ammirazione allo spettacolo di tanti giovani così pii e
lieti. Famiglie signorili e patrizie, soggiunge il medesimo,
conducevano i figli nella chiesa prima di san Francesco e poi di
Maria Ausiliatrice, perché si specchiassero senz'accorgersi in
quei figli del popolo tanto sereni e buoni.
Questo della fede di Don Bosco è un
argomento inesauribile; ma qui non è possibile svilupparlo più
ampiamente. Servano pertanto di chiusa alcune parole, che il
quarto successore di Don Bosco scrisse da Roma a tutti i
Salesiani nella stessa giornata trionfale della canonizzazione:
«La fede, che di ogni santità è fondamento, fu senza dubbio
lucerna a' suoi passi, secondo l'espressione del Salmista. Nella
luce della fede la sua mente s'inebriava alla contemplazione
delle verità rivelate e la sua volontà si muoveva nelle
direzioni che erano conformi al beneplacito divino. Quindi o
parlasse o scrivesse o agisse, il suo spirito non oscillava mai
fra Dio e il proprio io, fra il cielo e la terra, fra l'eterno e
il temporaneo, fra il dovere e il piacere, ma si slanciava tosto
dalla parte di Dio, Padre e Signore assoluto, donde pigliava la
norma sicura con cui regolarsi in tutto che avesse ragione di
relativo e terreno. Intendo dire che in nulla egli cercò se
stesso, il suo comodo, la sua soddisfazione, il suo tornaconto;
ma spese tempo, energie e sforzi per servire nel miglior modo
possibile il Signore, lavorando nel campo assegnatogli dalla
Provvidenza».
CAPO XV. - Apostolo di carità.
Vediamo di cogliere ancora qualche
lineamento atto a integrare la figura di Don Bosco, quale ci è
apparsa nelle pagine che precedono. Seguendolo passo passo nel
corso della sua esistenza, abbiamo potuto rilevare lo spirito
che lo animò nelle varie età e nelle svariate contingenze
della vita. Ci è passato dinanzi fanciullo e adolescente,
chierico e giovane sacerdote, fondatore di opere e ministro del
Signore, sempre divorato da zelo per la gloria di Dio e la
salute delle anime e provato quasi del continuo da tribolazioni
d'ogni fatta, ma senza mai perdere quella sua calma
imperturbabile, quella sua tranquillità e pace, che gli
venivano da perfetta, intima, ininterrotta unione con Dio. Ora,
poiché indubbiamente la vita di Don Bosco fu tutta un grande
apostolato di carità, studiarlo sotto un tale punto di vista e
vedere che cosa vi abbia avuto di proprio, sarà l'argomento di
questo capo. Argomento vasto per sé, ma che non deve portarci
oltre i limiti consentiti dall'indole del libro.
Don Bosco fu essenzialmente un apostolo.
L'apostolo è un inviato. Egli venne inviato, come abbiamo
visto, per una missione specifica di carità in favore della
gioventù, missione provvidenziale, ma non esclusiva.
Nell'invito a tale apostolato gli s'indicarono pure i mezzi, con
i quali prepararvisi: doveva incominciare col rendersi umile,
forte e robusto, e poi passare all'acquisto della scienza.
Preparazione dunque anzitutto fisica, morale, e ascetica, indi
anche scientifica. L'avvenire doveva chiarirgli quello che
allora egli non capiva.
L'esecuzione del mandato importava un
faticoso lavoro, attraverso difficoltà e contraddizioni e in
una larga opera d'istruzione e di educazione; necessitavano
perciò buona salute, tempra d'animo, buona cultura. Sarebbe
stato così fornito di quelle attitudini naturali, che Dio vuole
sempre in una sua creatura destinata a una missione
straordinaria, come indispensabile al compimento della missione
stessa. Ma non gli sarebbe bastato affidarsi a' suoi sforzi
umani né alle virtù naturali: in questo modo avrebbe prodotto
solo risultati naturali, che non rispondevano ai disegni del
cielo. Ci voleva insieme e soprattutto il potente aiuto della
grazia divina, la quale non viene concessa se non agli umili di
cuore. «L'umiltà, insegna S. Tommaso, è una disposizione che
facilita all'anima l'acquisto dei beni spirituali e divini».
Con l'umiltà di tutta la vita Gesù trionfò
del mondo; non altrimenti avrebbe Don Bosco trionfato degli
infiniti ostacoli sollevatigli contro dai nemici del bene,
conducendo a felice termine il grande compito assegnatogli da
Dio. E bisogna convenire che la Provvidenza gli procacciò le
occasioni per ben fondarsi nell'umiltà: umili natali, umile
stato di biennale servitù in casa d'altri, umile condizione
servile dai sedici ai ventun anni.
Così il suo spirito, che si sentiva fatto
per cose grandi e portato ad alta estimazione di sé, si andò
macerando allungo e avvezzandosi a non ricusarsi mai a nulla
anche di più umiliante, ogni volta che poi lo esigesse la
gloria di Dio e il bene del prossimo, senza mai considerarsi più
che un povero strumento nelle mani del Signore. L'umiltà diventò
il segreto della sua unione intima con Dio, dalla quale, come da
fonte, scaturì l'azione esteriore. Così è di ogni vero
apostolo.
Non è un particolare trascurabile il
fatto, che gl'impartì questa lezione la Madre di Dio.
L'apostolato di Don Bosco presenta una spiccata impronta
mariana, che ne forma un carattere distintivo. Maria
Ausiliatrice e Don Bosco potrebbe essere titolo d'un magnifico
poema. Don Bosco non è nulla, ripeterà egli fino all'ultimo
respiro; chi fa tutto è la Madonna.
Ogni apostolato ha un oggetto proprio e
preciso. Come tutti i Santi, Don Bosco praticò la carità
universale, secondo le circostanze. «Far del bene a tutti, del
male a nessuno», fu una sua massima ripetuta ancora poco prima
di morire.
Nel campo della carità, vasto quanto la
vastità dei bisogni umani, una porzione speciale toccò a lui
in sorte, l'educazione cristiana dei figli del popolo. Accintosi
a tale opera, creò due famiglie religiose, informandole del suo
spirito. Quale spirito? Lasciati da parte elementi comuni, mi
fermo a tre soli accennati sopra, che si possono dire
particolari e caratteristici: spirito di carità operosa, di
carità gioconda, di carità indipendente.
Il primo elemento è l’operosità, o se
si vuole, la laboriosità. Sarebbe difficile trovare un altro
Santo che, nella misura di Don Bosco, abbia coniugato e fatto
coniugare il verbo lavorare. Per Pio XI la sua fu «una vita di
lavoro colossale».
Questo aspetto della vita di Don Bosco
viene delineato, come non si potrebbe meglio, dal Servo di Dio
Don Leonardo Murialdo nella testimonianza seguente: «A me non
constano di Don Bosco né prolungate orazioni né penitenze
straordinarie; ma mi consta il lavoro indefesso, incessante per
lunga seria di anni in opere di gloria di Dio, con fatiche non
interrotte, fra croci e contraddizioni d'ogni fatta, con calma e
tranquillità al tutto unica e con un risultato per la gloria di
Dio e il bene delle anime al tutto straordinario».
Sul lavoro Don Bosco aveva una dottrina
propria sia per sé e per i suoi sia circa il modo. Per conto
suo, e lo scrisse fra i propositi in occasione del presbiterato,
riguardava il lavoro come un'arma contro i nemici dell'anima.
Non intendeva però di un lavoro qualunque. Secondo lui, il
prete ha l'obbligo di lavorare e lavorare tanto, che, se anche
vi lascia la vita, non fa più del suo puro dovere. Questo
l'obiettivo, questa la gloria dei preti: non stancarsi mai di
lavorare per la salute delle anime.
Sentendosi poi chiamato a opere di larga
portata, riteneva che senza grandi fatiche non sia mai possibile
arrivare a grandi cose. Persuaso inoltre che il mondo odierno
vuol veder i preti a lavorare e sperimentando quanto anche i
nemici della Chiesa apprezzino nel clero chi lavora, pensava che
oggi non basti più pregare, ma che, non dimenticando mai la
preghiera, bisogna operare, intensamente operare.
Movendo da tali principi, non fa meraviglia
che impiegasse tutte le sue forze a lavorare per la gloria di
Dio e la salute delle anime, e che, consigliato a prendersi un
po' di riposo, rispondesse piacevolmente: - Mi riposerò quando
sarò qualche chilometro sopra la luna. La sua salda
costituzione fisica gli avrebbe permesso di vivere anche fin
oltre novant'anni; invece si consumò letteralmente si consumò
in un improbo lavoro diurno e notturno. Onde si può ben credere
quanto sia vero che settantenne, al dire di testimoni, soffriva
pensando al gran lavoro che prima poteva fare, mentre allora non
gli bastavano più né le forze né la vista per una centesima
parte.
Il medesimo spirito di laboriosità volle
veder fiorire nella Congregazione Salesiana. Già, lo diceva
apertamente a coloro che domandavano di entrarvi: - Lo spirito
della Congregazione è questo, che niuno vi entri sperando di
starvi con le mani sui fianchi. Un'esperienza fatta nei primordi
della Società lo incoraggiava a far lavorare senza tregua.
Allora, non potendosi parlare liberamente
di vita religiosa, perché idee ostili dominavano un po'
dappertutto nel popolo, e avendo necessità di prepararvi coloro
che fra i giovani chierici dell'Oratorio vi stimava adatti, non
esigeva molto in materia di pratiche religiose, ma faceva
lavorare a più non posso. Orbene, che avvenne? Chierici anche
divagati, che, assoggettati a regole restrittive, sarebbero
andati via, lavoravano di buona voglia e molto sotto la sua
vigile direzione, e appresso, cambiate le circostanze,
diventarono preti salesiani di ottimo spirito.
In seguito, rassodate le cose, ebbe agio di
fare un'altra esperienza, essere cioè la poca volontà di
lavorare una delle cause che allontanano dalla vita religiosa,
mentre il lavoro continuato, oltreché a svegliare molteplici
forme di attività che senza quello sarebbero rimaste latenti,
serve a conservare le vocazioni. In questo suo modo di vedere lo
confermò la parola di Pio IX. Il grande Pontefice due volte gli
aveva manifestato in proposito un pensiero conforme al suo.
Nel 1869 gli aveva detto stimar egli in
condizione migliore una Congregazione, dove si preghi poco e si
lavori molto, che non un'altra, nella quale si facciano molte
preghiere e poco lavoro. Perciò nel 1874 lo autorizzò ad
affidare ai novizi occupazioni volute dalle Regole dopo la
professione. Occupateli a lavorare, a lavorare! gli disse il
Papa.
Ciò posto, veniva da sé che non
risparmiasse il lavoro a' suoi. Raccomandava bensì la cura
della sanità, ma per poter lavorare molto. Il suo esempio e la
sua parola erano stimoli potenti ed efficacissimi. Con palese
soddisfazione rilevava come tutti quelli che crescevano nella
Società, acquistavano un amore, anzi un ardore tale per il
lavoro, che non gli pareva potersi da altri superare. Finché
dura questo gran lavoro, diceva, si andrà avanti a gonfie vele.
Dinanzi a siffatte disposizioni d'animo potè
permettersi più volte affermazioni come questa: - Quando avverrà
che un Salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le
anime, allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un
grande trionfo, e sopra di essa scenderanno copiose le
benedizioni del cielo. E simili casi si avveravano, specialmente
nelle Missioni. Onde il Santo nella sua prima relazione
triennale del 1879 sullo stato della Società alla Santa Sede
non si peritava di scrivere: «Il lavoro supera le forze e il
numero degli individui, ma niuno si sgomenta, e pare che la
fatica sia un secondo nutrimento dopo l'alimento materiale».
Ma altro è lavorare molto, altro lavorare
bene. Chi non sa che l'apostolato, mentre può e dev'essere
mezzo di santificazione, diventa invece, per chi si lascia
sopraffare dall'attività esteriore, una causa di snervamento
spirituale? Don Bosco non aveva bisogno di chi gli segnalasse un
pericolo così evidente. A cominciare da lui, possiamo
appellarci al giudizio di un Papa come Pio XI, conoscitore degli
uomini e buon conoscitore di Don Bosco.
Nel discorso del 19 novembre 1933 per
l'approvazione dei miracoli, disse: «Vien proprio fatto di
domandarsi quale Fosse il segreto di tutto questo miracolo di
lavoro. E proprio il Beato ce l’ha data la spiegazione, la
chiave vera di questo magnifico mistero: ce l'ha data in quella
sua perenne aspirazione, anzi continua preghiera a Dio; poiché
incessante fu la sua intima conversazione con Dio e raramente si
è come in lui avverata la massima qui laborat, orat, identificava
appunto il lavoro, con la preghiera».
Quanto agli altri, non si contentava che
lavorassero molto, ma insegnava loro a lavorare spiritualmente,
ossia con fede, speranza e carità. Con fede mirando a fare in
tutto e sempre la volontà di Dio senza mai cercare le lodi
degli uomini; con speranza, aspirando alle celesti ricompense
delle fatiche sostenute quaggiù e non alle misere soddisfazioni
terrene; con carità verso Dio, offrendo ogni fatica a Lui, che
solo è degno di essere amato e servito, e con carità verso il
prossimo, cercando esclusivamente, mediante la dolcezza di san
Francesco di Sales e la pazienza di Giobbe, il bene delle anime.
Temeva, temeva assai che l'efficacia e il
merito del lavoro andassero in fumo per l'infiltrarsi della
volontà propria, che bisognava invece vincere e rinnegare,
considerando lavoro da cristiano e da religioso anzitutto
l'adempimento dei doveri del proprio stato, piacessero o no
all'amor proprio. Dopo una voce venutagli dal cielo nel 1876,
ripeteva con frequenza: - Lavoro e temperanza faranno fiorire la
Congregazione Salesiana. Sono due armi con cui noi riusciremo a
vincere tutti, e tutto. Con la temperanza una seconda virtù
giudicava indispensabile che si accompagnasse al lavoro. Per
sollevare gli spiriti amava in certe occasioni rappresentare il
bene straordinario che la Congregazione era chiamata a compiere
nel mondo, e lo faceva con sì vivi colori come se le cose già
fossero; ma alla fine metteva in guardia contro qualsiasi
presunzione, raccomandando di unire al lavoro e alla temperanza
anche l'umiltà. Insomma, si deve dire che fu ben ispirato quel
Capitolo Generale della Società, che nel Regolamento per le
Case di Noviziato fece un dovere ai Maestri dei Novizi
d'instillare nei loro alunni «quella operosità instancabile
santificata dalla preghiera e dall'unione con Dio, che
dev'essere la caratteristica dei figli di Don Bosco».
Non mi indugio a misurare il campo della
operosa carità di Don Bosco verso il prossimo, segnatamente a
vantaggio dei figli del popolo. Per questo rimando ai quattro
capi, dove si tratta di Don Bosco confessore, predicatore,
scrittore, educatore. Là si vede come la sua laboriosità senza
pari fosse accoppiata sempre a un'interiorità perfetta, facendo
di lui un Santo al tutto singolare.
Operoso, operosissimo il suo apostolato di
carità, ma di una carità gioconda. L'Epistola della Messa di
S. Giovanni Bosco, tolta da S. Paolo, incomincia con le parole:
State allegri sempre nel Signore; lo dico per la seconda volta,
state allegri. L’allegria albergava in lui ed emanava da lui.
Quanti motivi ebbe di attristarsi, dalla fanciullezza alla
vecchiaia! Eppure le testimonianze di coloro che meglio furono
in grado di conoscerlo, sono tutte concordi nell'asserire che la
giovialità fu il carattere di tutta la sua vita. Chi avrebbe
detto che era assillato di mille cure, quando dava ai giovani
quelle "buone notti" scoppiettanti del più amabile
buon umore o quando scendeva in cortile e calmo e sorridente
dispensava motti di spirito, che destavano l'ilarità e facevano
tanto bene a chi erano indirizzati?
Esistono sue lettere, scritte sotto
l'incubo di dure fatiche e di gravi fastidi, eppure infiorate di
arguzie, che però avevano lo scopo di arrivare per tal modo al
cuore altrui e deporvi il germe di qualche buon sentimento. Il
suo esempio influiva talmente su quanti ebbero la sorte di
convivere con lui, che essi stessi senz'accorgersene si
sentivano inclinati per costante abitudine a pigliare le cose
contrarie al proprio gusto con invidiabile serenità d'animo ed
anche con disinvolto sorriso. Dal cuore ricolmo del divino amore
proveniva in Don Bosco il perenne gaudio spirituale che, unito a
perfetto dominio di sé, lo rendeva sereno nelle vicende della
vita e apportatore di serenità ai suoi figli piccoli e grandi.
Non posso passare qui sotto silenzio due
cose, sulle quali influì questo suo fondo di gioconda carità.
La prima riguarda la pietà dei giovani e più precisamente la
frequente comunione.
Nulla ripugnava tanto alla sua maniera di
pensare sulla bontà del Signore quanto gl'ingombranti residui
di severità giansenistica che sopravvivevano ancora qua e là
in Piemonte, aduggiando le anime specialmente nella pratica dei
sacramenti. Don Bosco si accinse con coraggio a farli dileguare
col promuovere fra i giovani la cordiale partecipazione alla
mensa eucaristica. Forte del genuino insegnamento della Chiesa,
si spinse più in là dello stesso san Francesco di Sales,
generalizzando l'uso della comunione non solo settimanale, ma
quotidiana. Non si era mai visto alcun che di simile.
Sono spiegabili quindi le osservazioni in
contrario e a volte anche le fiere rimostranze. Cadevan proprio
dalle nuvole certuni, vedendo nell'Oratorio alla Messa della
comunità le processioni di ragazzi, che ogni giorno si
affollavano alla balaustra. Ma egli lasciava dire, e il suo
esempio a poco a poco s'impose e la pratica si fece strada,
finché il santo Pontefice Pio X troncò per sempre la
questione, emanando il celebre decreto, che segnò il trionfo
dell'ascetica sacramentale di san Giovanni Bosco e usando
perfino sue stesse parole.
L'altro benefico effetto della sua gioconda
carità è la forma da lui impressa al sistema preventivo
nell'educazione della gioventù. Le sobrie, ma sapienti e
feconde norme ch'ei dettò, sono la consacrazione della lieta
cordialità in un'opera delle più delicate che si possano
intraprendere a vantaggio della tenera età. Egli che fanciullo
si sentiva già stimolato a farla da apostolo in mezzo a' suoi
piccoli coetanei ed a' suoi stessi compaesani più grandi,
valendosi dell'abilità di giocoliere acquistatasi proprio a
tale scopo; egli che adolescente esercitò l'apostolato fra i
condiscepoli, organizzando un'associazione intitolata
dell'allegria; egli che, giovane prete, all'inizio della sua
missione si attirava i birichini torinesi facendosi lietamente
piccolo coi piccoli e nei primordi dell'Oratorio escogitava i
mezzi più geniali per riempire di gioia la casa: quando prese
la penna e mise in termini precisi le norme che dovevano
regolare l’educazione giovanile così com'era da lui
concepita, fece della carità gioconda una conditio sine qua non
per tutto il suo metodo educativo, che si riduce in ultima
analisi al più bel servite Domino in laetitia.
L'ho detto apostolo di una carità
indipendente, superiore cioè a giudizi e pregiudizi: giudizi di
coloro, a cui benefico la esercitava, e di quegli altri che o lo
mordevano con le loro critiche o gli tributavano grandi lodi;
pregiudizi di chi per malintesi frapponeva ostacoli al suo zelo,
e di chi per malanimo combatteva le sue istituzioni e le avrebbe
perfino volute distruggere.
Anzitutto, la carità che gli ardeva in
petto, lo faceva essere ministro di Dio con ogni genere di
persone. Con chiunque aveva da trattare, non appena intuiti i
suoi sentimenti nei riguardi della religione, trovava la maniera
d'invitarlo a pensare all'anima. La carità che ve lo muoveva,
gli comunicava una singolare franchezza apostolica la quale,
congiunta con la più schietta semplicità, non mancava di far
breccia. In questi casi non sapeva che cosa fosse quel rispetto
umano, che trattiene a volte i sacerdoti dal toccare certi
tasti.
Conscio di rendere così il miglior
servigio che si possa aspettare da un prete, non badava alle
prime impressioni prodotte o producibili dalle sue parole in chi
gli stava dinanzi. Erano spesso nobili scienziati,
professionisti, uomini politici, personaggi potenti, noti per le
loro idee contrarie alla Chiesa, che quindi a tutta prima
avrebbero facilmente arricciato il naso; ma egli senza
preoccuparsene condiva la sua libertà con tale gentilezza di
modi, con tali espressioni di stima, riverenza e affetto e
opportunamente anche con inaspettate e urbane facezie, che non
consta di un caso solo, in cui alcuno se la sia avuta a male.
Quanti gustosi episodi si narrano a questo
proposito!
Biasimi e poi lodi gli fioccarono da ogni
parte e in ogni tempo; centinaia di volte la stampa si occupò
della sua persona prò o contro. La sua carità non si
sgomentava dei primi, e nelle seconde ravvisava al più un
valore di propaganda per le sue opere di bene. Quale fosse
intorno a ciò il suo intimo sentimento, lo diede a vedere
abbastanza in un articolo che si leggeva già nell'antico
Regolamento delle Case Salesiane e che fu mantenuto nella prima
edizione del 1877 e nelle successive.
In quell'articolo Don Bosco dice ai giovani
che si avvezzino ad accogliere con indifferenza il biasimo e la
lode. Non è davvero esiger poco a quell'età! Per parte sua,
quando gli si parlava di lodi o di biasimi a lui rivolti, soleva
ripetere che chi lo lodava, diceva quello che egli sarebbe
dovuto essere, e chi lo biasimava, diceva quello che era. Più
comunemente due cose gli rinfacciavano i suoi critici, che
permettesse tanta pubblicità intorno alla sua persona e alle
sue opere e che si familiarizzasse troppo con gente avversa alla
Chiesa.
Ma nella pubblicità egli vedeva soltanto
un mezzo per far conoscere e sostenere le sue istituzioni, nel
che ebbe il merito di capire i tempi: a poco a poco la cosa
acquistò sì gran voga, che perfino suoi censori vi si
appigliarono, se vollero riuscire in qualche loro buona impresa.
Della seconda accusa gli tornava facile
scagionarsi: non trovava infatti che fosse male avvicinare tutti
per fare a tutti del bene e, trattandosi di autorità
costituite, rispettarle e dare a Cesare quel che è di Cesare,
per ottenere che non si neghi a Dio quel che è di Dio. Del
resto non corteggiava nessuno: fossero deputati, senatori o
ministri, si diportava cortesemente, ma francamente e da prete
con ognuno, senza omettere al solito di dire verità che non
avrebbero mai sentite da altri.
La sua carità si mantenne pure
indipendente da altrui pregiudizi, si svolse cioè eludendo
saviamente ogni azione deleteria, che avrebbe potuto da questo
lato intralciare il corso provvidenziale. I pregiudizi a lui
sfavorevoli ebbero un triplice carattere: ecclesiastico,
religioso e politico.
L'Opera di Don Bosco si affacciava al mondo
con elementi nuovi, che non sembravano conciliabili con
venerande tradizioni. Oggi novità importate da lui sono entrate
nella vita della Chiesa; ma i precursori non trovano facile
adito dappertutto presso gli uomini del passato: donde riserve,
diffidenze, opposizioni. In questo campo le difficoltà
insorsero talvolta sì gravi e prolungate da poter scoraggiare
chi non avesse avuto la coscienza di una missione superiore.
Egli tuttavia non si smarrì né cambiò rotta: pazientò, si
umiliò, parlò, scrisse, finché verso la fine de' suoi giorni
provò il conforto di vedersi universalmente compreso, approvato
e benedetto.
Per i pregiudizi della seconda specie
intendo le false idee dei tempi circa lo stato religioso. Il
Governo sopprimeva i conventi e ne disperdeva gli abitatori.
Continuamente la stampa nei giornali, nei libri, nel teatro li
denigrava e copriva di dileggi. Anche famiglie cristiane ne
subivano l'influsso, non guardando con simpatia i religiosi. Non
sempre il clero secolare li teneva in pregio. Religioso voleva
dire frate, e frate allora passava per sinonimo di uomo da poco
e fannullone. I ragazzi ridevano volentieri dietro le cocolle,
quando rare ne comparivano. Eppure Don Bosco mirava proprio a
fondare una nuova Congregazione religiosa. Avrebbero avuto un
bel dire che la sua era diversa dalle altre: nemmeno i giovani
dell'Oratorio gli avrebbero dato ascolto, e gli avrebbero
risposto che preti sì, ma frati non volevano essere. S'immagini
dunque com'egli, dovendo attaccarsi proprio ad essi e venirseli
preparando, avesse bisogno di andar cauto per non urtare i
comuni pregiudizi e non sciupare le uova nel paniere! La bontà,
la pazienza e la sagacia gli diedero finalmente causa vinta.
Solo una carità lungimirante potè sostenerlo nell'ardua
impresa.
Veniva infine la pregiudiziale politica. Il
sorgere della Società coincise col periodo delle guerre per
l'indipendenza e l'unità d'Italia. Idee punto ortodosse di
riforma, di progresso e di libertà, fermentate sotto il
Pontificato di Gregorio XVI, esplosero all'avvento di Pio IX.
Deliranti manifestazioni popolari suscitavano smanie di cose
nuove anche in membri del clero secolare e regolare, che o per
insofferenza di disciplina o perché esaltati dalla lettura dei
libri giobertiani o perché illusi dalla propria ingenuità, si
abbandonavano alla corrente. Se tutto fosse stato patriottismo
puro, meno male; ma c'era chi pescava nel torbido o tirava
l'acqua al suo mulino, ed erano settari, nemici di Dio e della
Chiesa. Troppi dei buoni o di corta vista non vedevano o
allucinati pigliavano lucciole per lanterne.
Si fece di tutto per trascinare anche Don
Bosco nel mare magno della politica; ma il suo animo
profondamente sacerdotale gli indicò la vera linea di condotta:
niente politica che divide, sempre e in tutto la carità che
unisce. Ebbe molto a soffrire allora e in conseguenza anche
dopo. Egli tuttavia non piegò. Prudente, calmo, rispettoso,
badava a raccogliere fanciulli abbandonati per farne buoni
cittadini e buoni cristiani, e si studiava intanto di preservare
dalle comuni aberrazioni il crescente stuolo dei giovani, che
destinava tacitamente a essere le pietre fondamentali del
costruendo edificio.
L'esperienza di quell'agitato periodo gli
fu maestra nel periodo successivo, quando veniva rassodando la
Società Salesiana. Di fronte al nuovo Stato si prefisse, e ne
ebbe lode da Pio IX, di far conoscere che, rispettando le leggi
della carità, si può dare a Cesare quel che è di Cesare senza
mai compromettere nulla e nessuno e senza essere mai distolto
dal dare a Dio quel che è di Dio. Egli considerava questo come
il massimo problema dei cattolici in quei tempi.
Nella pratica incontrò serie difficoltà,
che cercava di risolvere per le vie della carità evangelica.
Nei nemici della Chiesa l'arte purtroppo era raffinata e i loro
mezzi immensi; Don Bosco tuttavia, mantenendosi nella legalità
e accaparrandosi con la carità il favore personale degli uomini
che sedevano al potere, pur attraverso a sacrifici d'ogni
maniera, eresse il suo edificio su basi solide, tanto solide
che, se altri vollero ridar vita ad antiche istituzioni, non
isdegnarono di seguire il suo esempio.
Il Papa della canonizzazione alludeva
all'insieme di tante contrarietà, che attraversarono al Santo
il cammino e dalle quali egli col divino aiuto si affrancò,
quando nell'omelia del gran giorno diceva: «Dedito interamente
alla gloria di Dio e alla salute delle anime, egli non si arrestò
davanti all'altrui diffidenza; ma con arditezza di concetti e
con modernità di mezzi si accinse all'attuazione di quei
nuovissimi propositi che, per quanto sembrassero temerari, egli,
per superiore illustrazione, conosceva essere conformi alla
volontà di Dio». E più innanzi: «Davanti alle difficoltà di
ogni genere, davanti alle irrisioni e agli scherni di molti,
egli, sollevando i suoi occhi luminosi verso il cielo, era
solito esclamare: - Miei fratelli, questa è opera di Dio, è
volontà del Signore: il Signore è quindi obbligato a dare gli
aiuti necessari. Gli avvenimenti mostravano la verità delle sue
parole, tanto che gli scherni si cambiarono in ammirazione
universale».
Si avverò così per lui quello che scrive
l'Apostolo della carità: Perfecta caritas foras mittit timorem.
Lo stragrande amor di Dio e del prossimo lo rese tetragono a
tutto, e così raggiunse il fine della sua missione.
Qui il pensiero torna spontaneo alla bella
Messa approvata dalla Chiesa per S. Giovanni Bosco. Si apre essa
con le parole, che la Scrittura dice di Salomone e che Pio XI
fece sue varie volte in discorsi su Don Bosco: Insieme con
sapienza e prudenza straordinaria Dio gli diede larghezza di
cuore immensurabile com'è l'arena che sta sul lido del mare.
Ben si addiceva a chi, e lo suggerisce la Messa medesima, doveva
diventare pater multarum gentium.
CAPO XVI. - Il dono del consiglio.
La luce spirituale di Don Bosco ebbe i
massimi fulgori verso il tramonto dell'età, quando, consolidate
le sue opere e giunti alla loro maturità i discepoli formatisi
alla sua scuola, il debilitarsi della fibra più non consentiva
che egli si mescolasse al ritmo della vita quotidiana. Allora i
carismi straordinari, che, a dir vero, fin dai nove anni non
avevano cessato di mandare sprazzi luminosi, rifulsero in lui più
vividi e frequenti, sicché da ultimo il soprannaturale quasi ne
avvolgeva l'esistenza.
Dio sa con quale trepida apprensione mi
sono accostato all'anima di Don Bosco nelle parti precedenti del
nostro studio; ora poi, non volendo omettere qui sull'ultimo di
trattare di doni carismatici, la trepidanza si cambia in sacro
terrore, quale di chi si appressava all'arca del testamento. La
teologia mistica non è detta il «piano nobile» della scienza
sacra? E che dire delle esperienze mistiche, non esposte in
trattati, ma vissute in atto?
Il celebre apologista francese Augusto
Nicolas, uomo venerando per canizie, dottrina e santità di
vita, recatosi a visitare Don Bosco pochi anni prima che il
Servo di Dio abbandonasse la terra, gli si pose davanti in
ginocchio e là volle stare con le mani giunte durante tutto il
colloquio, religiosamente cogliendo dalle sue labbra le sante
parole, quasi suono mortale dell'immortale Verbo divino. Ecco il
migliore atteggiamento che si convenga nel cospetto di tanta
grandezza.
Dio con Don Bosco ha veramente largheggiato
a dismisura nelle sue grazie, per farsene strumento a' suoi
disegni provvidenziali. È infatti nell'ordine della Provvidenza
che Dio, scegliendo una creatura per un ufficio determinato, la
disponga prima e la prepari a compiere bene la missione
destinatale.
Ora, fra le grazie speciali, di cui il
Signore volle arricchire Don Bosco, bisogna mettere il dono del
consiglio, che ne illuminò la vita intera, associato quasi per
concomitanza ad altri insigni privilegi da non doversi né
trascurare né toccare superficialmente.
Mediante il dono del consiglio lo Spirito
Santo perfeziona nell'anima fedele la naturale virtù della
prudenza, dandole un intuito soprannaturale, per cui essa pronto
e sicuro si forma il giudizio su ciò che è da fare, massime
nei casi difficili. Questo carisma ha dunque per oggetto la
buona direzione delle azioni particolari nostre o altrui,
secondo il variare di tempi, di luoghi e d'individuali
circostanze. Applicando in concreto a Don Bosco quello che
dottrinalmente insegna un gran Vescovo, diremo che con un tal
dono il nostro buon Padre possedette sempre il sicuro
discernimento de' suoi mezzi, vedendo ognora netta la propria
via e percorrendola intrepido, per ardua e arida e ripugnante
che troppe volte la gli si parasse dinanzi, e sapendo in ogni
tempo aspettare il momento propizio.
Chi ci ha seguiti fino a questo punto, non
cercherà ulteriori prove di tale asserto; non c'è quasi pagina
qui sopra, che non dimostri com'egli abbia veduto chiaro,
chiarissimo in tutte le cose concernenti il governo di se
stesso. Sarebbe quindi un bis in idem l’indugiarvici ancora;
studiamone piuttosto la chiaroveggenza nel governo degli altri.
Che Don Bosco fosse un uomo di consiglio,
non per innata virtù d'ingegno e per mero effetto di umana
prudenza, ma in grazia di lumi superiori, era convinzione così
universalmente diffusa e radicata, che da tutte le parti si
scriveva o si veniva a lui per averne la parola illuminata.
Persone innumerevoli, anche di grande
affare, ricorrevano a Don Bosco per lettera su cose di coscienza
e di vita spirituale o su faccende di altro genere. Dei
tantissimi documenti della prima specie pochi ci rimangono,
perché le missive, data la natura del contenuto, venivano
ordinariamente da lui distrutte; ma abbondano negli archivi
richieste di consigli su cose di famiglia, su l'opportunità di
trasferimenti o d'impieghi o di professioni o d'imprestiti, su
composizioni di liti, sul modo di regolare la propria casa o di
educare un figlio, sulla scelta dello stato, insomma su
dubbiezze e necessità senza numero, tanta era la fiducia
generalmente riposta nella sovrumana saggezza de' suoi
suggerimenti.
Lo stesso Papa Pio IX pensò a Don Bosco e
a' suoi lumi superiori in un'ora trepida, allorché dopo la
presa di Roma la sua mente ondeggiava fra il restarvi e il
partirsene. Consigli per il secondo partito premevano da più
lati sull'animo del Pontefice: il Papa, benché esitante, dava
prudenti disposizioni per il viaggio; ma alle istanze perché
rompesse gl'indugi, rispondeva d'aver chiesto consiglio a Don
Bosco e di essere deciso a seguirlo, qualunque fosse. Il Servo
di Dio, dopo aver pregato a lungo, inviò per mano sicura la
risposta in questi termini: «La sentinella, l'Angelo d'Israele
si fermi al suo posto e stia a guardia della rocca di Dio e
dell'arca santa». Nella parola di Don Bosco il Papa intese la
voce di Dio, e si confermò nel pensiero di non allontanarsi.
Chi poteva, si recava da Don Bosco
personalmente. Per questo l'immane fatica delle udienze fu cosa
che passa ogni immaginazione. Il padre Giuseppe Oreglia,
gesuita, asseriva che, anche senz'altre penitenze, questa sola
basterebbe a dimostrare il carattere eroico della sua virtù. La
gente lo assediava in casa e per le vie, in città e fuori, né
si conosceva in ciò discrezione o misura. Persone d'ogni classe
sociale e d'ogni grado si succedevano a consultarlo;
ecclesiastici e laici, principi e gente del popolo, ricchi e
poveri, amici ed estranei, dotti e ignoranti, buoni e cattivi ne
affollavano le anticamere; molto spesso chiedevano di parlargli
superiori d'ordini o di comunità religiose, direttori di
monasteri, suore d'ogni colore.
Don Bosco, a guisa di chi disimpegna un
ufficio, a cui sia tenuto indistintamente verso tutti, non
guardava in faccia a nessuno: chiunque si presentasse, lo
trattava come se glielo mandasse Dio, usando sempre maniere
dolci e soavi. Ascoltava senza interrompere, interessandosi di
quanto gli si esponeva, anche se fossero le lungaggini
inconcludenti di poveri scrupolosi; qualora, mentr'egli parlava,
l'interlocutore gli troncasse il discorso, taceva all'istante;
poi, quasi non avesse altro pensiero al mondo, non era mai il
primo a finire il colloquio, né dava segno di volerlo
abbreviare, sebbene gli toccasse dire e ridire, perché altri la
durava imperterrito a ripetere le medesime cose.
A Marsiglia, mentre stava ragionando con
una madre che non se n'andava mai, avvisato per la terza volta
che molti aspettavano, disse all'avvisatore in un orecchio: «Le
cose bisogna farle come si conviene o non farle. Qui non si
perde il tempo. Appena si possa, lasceremo entrare altri».
All'Oratorio, in quella sua cameretta,
scrive un testimonio, «aleggiava una pace di paradiso». Ma
poiché quell'aura celestiale emanava dalla persona di Don Bosco
e non dalle pareti della stanza, così anche fuori, nelle visite
o nei viaggi, era sempre ricercato; dovunque s'intrattenesse,
gli si formava tosto intorno un'atmosfera di serena e fiduciosa
aspettazione, sicché le sue parole vi cadevano come oracoli,
come panacee, come mistiche faville, a seconda dei casi.
Lo spirito del Signore, che parlava per
bocca di Don Bosco, manifestavasi pure nella libertà mirabile,
con cui, chiesti o non chiesti, egli largiva i salutari suoi
consigli a persone d'ogni fatta, fossero povere o ricche,
ignoranti o dotte, umili o altolocate. Sempre ispirandosi al
Seminator casti consilii, gettava senza rispetti umani nelle
anime germi fecondi di sani e santi pensieri.
Che lo spirito del Signore fosse sulle
labbra di Don Bosco nel consigliare, ce lo dice inoltre la
facilità sua in dare i consigli e in darli aggiustatissimi e di
un'efficacia irresistibile, anche se talora sapessero di amaro.
Sono cose, delle quali nell'Oratorio fecero quotidiana
esperienza preti, chierici e alunni, avvicinandolo in cortile,
in camera e in confessionale.
I consigli del cortile si chiamavano parole
all'orecchio. Don Bosco, fintanto che potè, partecipò alle
ricreazioni dei giovani e quando non potè più fermarsi a lungo
con essi, faceva qualche comparsa, offrendogli quel tempo
occasioni propizie per conoscere i suoi figlioli e dir loro
individualmente paroline opportune. Al qual proposito inserì
nel regolamento delle sue case quest'articolo: «Ricordate
l'esempio dei pulcini. Quelli che si avvicinano di più alla
chioccia, per lo più ricevono da essa qualche bocconcino
speciale. Così coloro che sogliono avvicinare i superiori,
hanno sempre qualche avviso o consiglio particolare».
Negli anni estremi, non potendo far di
meglio, allorché, percorso il ballatoio, giungeva alla soglia
del suo appartamento, non entrava subito, ma, voltasi ai giovani
che dal cortile acclamando ne avevano seguito con amorosi
sguardi i passi lenti e stentati, lasciava cadere di lassù una
parola buona, accolta con avida attenzione e salutata da lieto
battimano. In altri tempi, quante di tali parole aveva
sussurrate ai singoli, secondo il bisogno di ciascuno!
L'educatore che stia sempre sull’ammonire, passa facilmente
per sospettoso agli occhi degli educandi, che lo prendono in
uggia e, vedendolo comparire, cercano di scansarlo. Invece i
giovani dell'Oratorio amavano le parole all'orecchio e le
chiedevano a Don Bosco. Avverte la Scrittura: La riprensione
fatta all'orecchio docile, è orecchino d'oro con perla
rilucente.
La cosa avveniva così. Posata una mano sul
capo dell'alunno e curvatosi al suo orecchio, Don Bosco gli
parlava in segreto, parandosi con l'altra mano la bocca, perché
nessuno sentisse. Era questione di pochi secondi; ma che effetti
magici! Bastava osservare i mutamenti delle fisionomie o le
mosse: un sorridere di scatto, un farsi serio, un arrossire, un
lacrimare, un risponder si o no, un rifare il gesto di Don Bosco
parlando all'orecchio di lui e riudendone la parola nello stesso
modo, un gridar grazie e correr a giocare, un avviarsi alla
chiesa. Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane, udita
la parola di Don Bosco, non gli si staccava più dal fianco,
assorto quasi in un'idea luminosa. Altri effetti si scorgevano
più tardi: accostarsi ai sacramenti, star più raccolti nelle
preghiere, maggior diligenza nei doveri scolastici, maggiore
urbanità, e carità verso i compagni.
Riferisce lo storico che parecchi, dei
quali potrebbe fare i nomi, vennero portati per si semplici
mezzi a tale fervore di pietà da abbandonarsi a penitenze
straordinarie, sicché Don Bosco li doveva frenare; e che altri
vegliavano di sera alla sua porta, picchiando leggermente ogni
tanto, finché non venisse loro aperto, perché non volevano
andar a dormire col peccato nell'anima.
Di parole all'orecchio il biografo ci
presenta un bel florilegio; ma sono fiori d'erbario. Manca la
vivezza dell'espressione, che veniva dall'accento, dallo
sguardo, dal sorriso o dalla gravità di colui che le
pronunciava; manca la freschezza dell'attualità, derivante
dalle condizioni psicologiche di colui che le udiva. La figura
di Don Bosco in mezzo ai giovani balza fuori da queste righe
scultorie d'un testimonio: «Mi sembra ancora di vederlo a
sorridermi, di udire le dolci sue parole, di ammirare quel suo
amabile volto, nel quale era chiaramente stampata la bellezza
dell'anima sua».
I consigli che Don Bosco dava in camera
caritatis, se fossero raccolti nella loro genuina semplicità,
quale si ravvisa nei pochi saggi rimasti e si arguisce da
apprezzamenti generici di testimoni, formerebbero un bel codice
di cristiana sapienza. Chi li riceveva però, ne decantava ben
volentieri il valore, ma se li teneva per lo più gelosamente in
serbo.
Vive sempre nella memoria dello scrivente
il ricordo del suo primo incontro con Don Bosco fra quelle
benedette pareti: il punto culminante fu quando si sentì
regalare dal buon Padre un aureo consiglio di vita spirituale,
espresso con parole molto semplici, ma precise e dette là
all'improvviso e proferite in tono non si saprebbe se più
autorevole o paterno, talché dentro ne risuona tuttora
l'accento.
In quella grand'arca di Noè che era
l'Oratorio, a nessuno, fosse pure il più umile sguattero,
s'interdiceva l'accesso alla camera di Don Bosco, nessuno si
metteva in apprensione salendo a lui; tutti poi indistintamente
venivano accolti con il medesimo cerimoniale, già accennato
precedentemente. Sedeva Don Bosco a un modesto scrittoio, sul
quale stavano affastellate lettere e carte, accresciute non di
rado durante il colloquio dal sopraggiungere di nuova
corrispondenza. Egli, senza darsene pensiero, metteva là ogni
cosa, badando solo a chi aveva fatto sedere poco lungi da sé,
come se non ci fossero altri da udire o da contentare, come se
tutto il suo da fare stesse lì. Naturalmente si usciva di là
illuminati, incoraggiati, contenti.
Il successore del teologo Murialdo nella
direzione degli Artigianelli è stato ben felice nel ritrarre la
sorte di coloro che dimoravano presso quel vero sacrario, donde
s'irradiava tanta luce di consiglio. Ha detto: "Voi avete
una gran fortuna in casa vostra, che nessun altro ha in Torino e
che neppure hanno le altre comunità religiose. Avete una
camera, nella quale chiunque entra pieno di afflizione, se ne
esce raggiante di gioia». Della quale verità, commenta il
biografo, «mille di noi han fatto la prova».
I consigli del confessore ci riaccostano
per un istante ad argomento già delibato. Uno dei primissimi
discepoli del santo, scrivendo di lui confessore, usa tre
aggettivi che condensano tutto: «caritatevole, opportuno,
sapiente».
Episodi esigui, ma rivelatori illustrano
magnificamente il triplice asserto del testimonio che giudicava
di propria scienza.
La carità. Un giorno Don Bosco, negli
ultimi anni della sua vita, in un circoletto di Salesiani che
gli facevano corona, uscì a dire: - Stanotte ho sognato che
volevo andarmi a confessare. Nella sagrestia c'era solamente il
tal dei tali. Io lo guardai di lontano, e provavo quasi
ripugnanza. È troppo rigoroso! dicevo fra me. Gli astanti
ridevano di gusto, guardando all'effetto di quelle parole su
colui che era il nominato, e che rideva al par degli altri e
diceva piacevolmente: - Chi l'avrebbe mai immaginato? Io far
paura a Don Bosco! La scenetta valse una lezione per tutti; chi
non l'avrebbe capita a volo? L'opportunità, anche importuna. È
voce unanime che Don Bosco non dicesse, confessando, molte
parole, ma che le dicesse ben assestate, secondoché esigevano
le circostanze, in modo da imprimere negli animi, con una grande
idea del sacramento, ferma risolutezza di propositi.
Un giovane che frequentava l'Oratorio da
esterno, aveva accettato di cantare in una parte religiosa al
Teatro Regio di Torino. Sembrò un bell'onore per la casa a quei
tempi! Ma Don Bosco non la pensava così; pavido per l'anima de'
suoi, gli sapeva troppo male che un figlio dell'Oratorio andasse
al teatro. Ma che cosa sarebbe accaduto al suo divieto? I
superiori stavano sulle spine. La domenica mattina in
confessione Don Bosco parlò e consigliò; il penitente annuì
senza fiatare, e per tagliar corto alle chiacchiere altrui disse
a chi incontrò - Quando c'entra la coscienza, è sempre il
confessore che comanda.
La sapienza. Uno degli ideali più
caldeggiati da Don Bosco fu, come dicevamo, di moltiplicare gli
alunni del santuario. Il convincimento poi che egli parlasse
sotto l'ispirazione di Dio conduceva a lui tanti e tanti
bisognosi di consiglio intorno alla loro vocazione: un si o un
no di Don Bosco in affare di si grande importanza dissipava ogni
dubbio. Nel corso dei processi apostolici parecchi testimoni,
toccando questo punto dello zelo sacerdotale di Don Bosco, hanno
deposto all'unisono di non aver mai udito nessuno che si
pentisse d'avergli dato ascolto, fosse o non fosse il suo
consiglio per lo stato ecclesiastico, né di essersi mai
imbattuti in uno solo che, avendo preferito agire di proprio
capo, non se ne rammaricasse.
Una cronachetta inedita ci ha conservato il
ricordo di un fatterello, che drammatizza quasi l'effetto
straordinario prodotto da tanta carità, opportunità e sapienza
sull'animo degli adolescenti che si confessavano da Don Bosco.
Un giovane, finita la confessione, chiese a Don Bosco prima di
andarsene, un favore: gli domandò il permesso di baciargli i
piedi. Il Servo di Dio, senza menomamente scomporsi, gli
rispose: - Non fa bisogno. Baciami la mano come a sacerdote. Il
giovane allora, baciandogli con effusione la destra, esclamò: -
Che fortuna sarebbe stata per me, se avessi prima aperti gli
occhi, come stasera me li ha aperti lei!
Lo spirito del Signore, che a Don Bosco
largiva tangibile assistenza nell'opera assidua di ben
consigliare, gli accordava anche lumi superni per iscoprire
peccati occulti e pensieri reconditi, tanto in vicini che in
lontani.
Un fatto ci colpisce riguardo a questo
favore, soprannaturale, ed è che Don Bosco ne parlasse senza
reticenze. In un documento del 61 leggiamo: «Da dieci anni che
io sono all'Oratorio, sentii Don Bosco a dire: Datemi un giovane
che io non abbia mai conosciuto in modo veruno, e io guardatolo
in fronte, gli rivelo i suoi peccati, incominciando a enumerare
quelli della sua prima età». Una cronachetta manoscritta,
sotto il 23 aprile 1863, riferisce testualmente il sermoncino
della sera avanti, nel quale Don Bosco fra l'altro aveva detto:
«Io in tutti questi giorni degli esercizi vedeva nel cuore dei
giovani nel modo stesso che se leggessi in un libro: vedeva ben
chiari e distinti tutti i loro peccati e i loro imbrogli».
L'autore del documento sotto il 25 dello stesso mese scrive: «Don
Bosco fu interrogato da me, se il suo leggere chiaramente nel
cuore dei giovani era un fatto che avvenisse solo in tempo di
confessione oppure anche in altro tempo. Egli rispose: - In ogni
ora del giorno, anche fuori delle confessioni -». Il che devesi
intendere non già nel senso che la lettura delle coscienze
fosse continua, ma che poteva essergliene data la facoltà ogni
volta che lo richiedesse il bene delle anime.
Chi sa mai perché Don Bosco, il quale
teneva chiuso a sette suggelli quanto passava fra lui e Dio, si
aprisse poi così liberamente intorno a queste arcane
comunicazioni? Un gran perché ci dovette essere; forse anzi ve
ne furono due. In primo luogo la notorietà di cosa si fuor del
consueto e impossibile a tenersi celata non poteva non dar
occasione a commenti nel piccolo mondo dell'Oratorio; prudenza
voleva perciò che si schiarissero le idee in modo da far
dileguare con la più schietta semplicità ogni ombra di dubbio
circa l'origine e la natura del fenomeno.
Ma una seconda ragione ha per noi peso
anche maggiore. Don Bosco, zelante cacciatore di anime con il
mezzo della confessione, sapeva di avere contro di sé un
avversario formidabile nel demonio muto, che tanti accalappia
nel sacramento della penitenza con la mancanza di sincerità.
Era questo un suo incubo perpetuo. Un ottimo parroco francese,
che predicava frequenti missioni ed esercizi spirituali,
atterrito alla vista di tante anime viventi nel sacrilegio per
confessioni mal fatte, ma temendo che fosse illusione la sua,
scrisse al nostro buon Padre per sottomettere al suo giudizio le
proprie inquietudini. Don Bosco rispose: «E Lei dice questo a
me, che ho predicato in tutta Italia e non ho quasi mai trovato
altro?».
Un tempo, nei primordi del sacerdozio, egli
era stato persuaso che i suoi figli avessero con lui inimitata
confidenza; ma non tardò ad accorgersi, che il demonio era più
furbo di lui.
Attingiamo dalla solita cronachetta, sotto
il 12 aprile 1861. Ad un chierico, meravigliato di sentire che
non pochi sogliono tacere i peccati in confessione, anche quando
vi sia copia di confessori, Don Bosco, detto come non tutti i
confessori abbiano «abilità, esperienza e mezzi per scrutare
le coscienze e scovare le volpi che rodono i cuori», conchiuse
dolorosamente: «Sono due grandi bestie la vergogna e la paura
di scapitare nella stima del confessore». Ecco dove bisogna
forse cercare il movente principale che in questa materia lo
faceva uscire dal suo riserbo. Va bene che Don Bosco, leggendo
nei cuori, vi scopriva chiaramente gli altarini; ma, quando egli
diceva i peccati del penitente, il tentatore non l'aveva già
prevenuto, inducendo a malizioso silenzio?
Giovava quindi in antecedenza mettere tutti
sull'avviso, che al confessionale suo le diaboliche insidie
sarebbero state smascherate; non si lasciassero dunque gabbare,
ma piuttosto profittassero del dono di Dio per assicurarsi il
buono stato delle loro anime. E così nel fatto la intendevano
quei di casa. Molto spesso gli alunni, inginocchiatisi, davano
principio all'accusa, pregando il confessore di dir loro i
peccati; il che Don Bosco faceva con un'esattezza da farli
strabiliare. Tanto ci è confermato da questa raccomandazione
ch'ei rivolse ai giovani in un sermoncino della buona notte e di
cui il Lemoyne diede lettura nei processi, traendola da un suo
antico promemoria: «Finora, confessandovi, voi mi dicevate: -
Dica lei - e io diceva. Ma in buona sostanza tocca al penitente
e non al confessore. Io non reggo più a parlare per ore e ore;
ne soffre il mio povero stomaco. Da qui innanzi dite voi, e, se
sarete imbrogliati, allora vi aiuterò».
Anche fuor di confessione Don Bosco vedeva
distintamente peccati e pensieri.
In seno alle comunità circolano modi di
dire, che formano un repertorio locale, tutto in un senso
convenzionale, da non interpretarsi col vocabolario alla mano.
Di questo stampo era nell'Oratorio la frase leggere in fronte,
che, riferita a Don Bosco, significava indovinare i peccati.
Il convincimento che egli, guardando in
fronte, vi cogliesse i segni rivelatori di magagne segrete, era
così pacifico, che i giovani, quando non avevano la coscienza
pulita, non ardivano andargli vicino per tema che leggesse loro
in fronte; anzi, se chiamati o per altri motivi gli si dovessero
presentare, si calcavano, tosto che potevano, il berretto sul
viso o altrimenti vi facevano calare i capelli.
Si capisce che Don Bosco lasciava correre
volentieri quell'espressione, perché gli serviva a occultare il
carattere prodigioso del fatto; tuttavia si narrano episodietti
di sfacciatelli che non vedevano niente di serio nella cosa e
sfidavano Don Bosco a dir loro i peccati anche in pubblico. In
quei casi la sua tattica era sempre la stessa: tirare il
malcauto in disparte, mettergli una pulce nell'orecchio, farlo
trasecolare, arrossire, piangere.
Press'a poco il medesimo avveniva dei
pensieri; sebbene intorno alla lettura dei pensieri la notorietà
fosse molto limitata. Don Rua per fatto personale attesta che,
qualora si credesse opportuno celargli segreti d'affari, i quali
egli aveva diritto di conoscere, ogni sotterfugio tornava
inutile, perché, parlando, mostrava di saper tutto per filo e
per segno. Un chierico, travagliato da scrupoli, mentre faceva
l'esame di coscienza per la confessione, pensò segretamente così:
- Se Don Bosco, volgendosi a me, mi dicesse di andare domani a
far la santa comunione senza confessarmi, capirei che è tutto
diavoleria il mio disturbo. Ed ecco nella penombra della sera
una mano battergli sulla spalla, e la voce paterna di Don Bosco
dirgli all'orecchio: - Domani andrai alla santa comunione; non
è necessario che ti confessi.
nota: Il Lemoyne narra il fatto
impersonalmente. Don Francesia ci fa sapere che egli era quel
chierico, unendo al minuzioso racconto questa protesta: «Son
vecchio, e alla mia età non si mentisce neppure per ridere».
Fine nota.
Sempre a proposito dei pensieri, vogliamo
riferire un aneddoto conosciutosi nel 1929, utile a sapersi
anche perché ci si vede una volta più quale fosse lo spirito
di Don Bosco. Un altro chierico, poi confondatore dei
Giuseppini, Don Eugenio Reffo, avendo accompagnato fin dentro la
camera di Don Bosco il suo superiore teologo Murialdo, se ne
stava appartato in un angolo, mentre all'estremo opposto i due
Servi di Dio conversavano fra loro. Dal cortile saliva il
chiasso della ricreazione di tanti giovani, rafforzato dal
fragore assordante degli allievi di una banda che faceva le
prove. Il chierichetto pensò anche lui segretamente: - Ah, io
non permetterei mai tanto baccano! Non in commotione Dominus. Ed
ecco Don Bosco, sospeso il colloquio, venire difilato a lui e
dirgli: - Sì, sì, Don Bosco ha ragione. Poi imitando col gesto
delle mani il cozzare dei piatti turchi e il percuotere sulla
grancassa: - Cin-cin, bum-bum. È così che vuole Nostro
Signore. Chiasso, allegria, frastuono... cin-cin, bum-bum, a suo
tempo.
E anche da lontano gli arrivavano
misteriose notizie di cose occulte. Scrivendo dall'Oratorio ai
collegi o da altre parti all'Oratorio, informava talvolta i
superiori di ciò che vi succedeva a loro insaputa e che egli
non poteva assolutamente conoscere se non per rivelazione.
Declinava nomi, luoghi, circostanze con si perfetta rispondenza
al vero, che, quando si trattava di mancamenti, i chiamati ad
audiendum verbum rimanevano di stucco e rinunciavano a mendicare
scuse.
Una sera, durante il solito sermoncino
della buona notte, poiché la familiare intimità dell'ora
consentiva anche di muovere domande così in pubblico, Don Rua,
che nell'Oratorio teneva le veci di Don Bosco, venutogli il
destro, gli chiese come facesse a vedere le cose da lontano.
Rispose faceto: «Per mezzo del mio filo telegrafico io,
comunque lontano, stabilisco la mia comunicazione e veggo e
conosco quanto può ridondare a onore e gloria di Dio e alla
salute delle anime». A Barcellona, nell'86, altro che lettere o
filo telegrafico!
Chi scrive, udì da quel Direttore il
racconto particolareggiato dell'avvenimento, la cui storicità
non può essere posta in dubbio. Don Bosco in persona, stando
all'Oratorio, fu visto colà dal Direttore nel cuore della notte
appressarsi al suo letto, farlo alzare, precederlo a luce di
giorno in un giro per la casa, additargli qualche disordine,
ricondurlo in camera, dargli ordine di provvedimenti immediati e
sparire, lasciandolo là, in piedi, al buio, fuori di sé.
CAPO XVII. - Sogni, visioni, estasi.
Il titolo di questo capo è suggerito da
una citazione d'Isidoro, fatta da san Tommaso. Scrive
l'Angelico: «Isidoro distingue il dono di profezia secondo la
maniera di profetare. Riguardo alla maniera d'imprimere le
immagini fantastiche fa tre distinzioni: sogno, visione, estasi».
Sono grazie gratis datae, che per sé non apportano né esigono
la santità, ma che la sogliono accompagnare; con esse Dio in
modi soprannaturali manifesta alle anime cose nascoste.
Nella vita di Don Bosco tali favori
prendono una parte così importante da non potersene prescindere
senza rinunciare a un elemento di sommo valore per avviarci alla
piena conoscenza della sua comunione intima con Dio. Quanti sono
passati per gli ambienti salesiani, han fatto l'orecchio ai così
detti sogni di Don Bosco, qual denominazione, venuta da lui
stesso, vive nelle sue Case, dove la s'intende ancora senza
bisogno di commenti.
Non istaremo noi a dimostrare che esistono
realmente sogni soprannaturali; sarebbe sfondare una porta
aperta. Chi ignora il somnia somniabunt, annoverato da Ioele fra
i doni, che in una più larga effusione dello Spirito Santo
avrebbero allietati gli ultimi giorni, cioè, spiega san Pietro,
i tempi messianici? Veniamo piuttosto a discorrere senz'altro
dei sogni di Don Bosco.
Questi sogni sono stati in numero
stragrande, perché si succedettero a intervalli non lunghi
dall'esordire della puerizia del Servo di Dio fino all'ultima
vecchiaia. Di alcuni pochi abbiamo il testo da lui personalmente
scritto o riveduto; di altri ci sono giunte relazioni da
testimoni auricolari e fededegni; di parecchi corrono qua e là
tradizioni orali; di molti o restano solo vaghe rimembranze o si
argomenta appena l'esistenza da vaghi indizi. In diciotto volumi
delle Memorie Biografiche, narrati per disteso e accennati per
sommi capi, se ne annovera un buon centinaio.
Generalmente le scene ivi descritte si
svolgono or più, or meno drammatiche, sopra uno di questi tre
sfondi: Chiesa Cattolica, Società Salesiana, Oratorio di
Valdocco. Della Chiesa gli si spiegano dinanzi le future vicende
o nella sua vita generale o in nazioni particolari; della
Congregazione vede chiaramente opere da compiere, vie da
seguire, scogli da evitare; dei giovani gli si svelano stati di
coscienza, vocazioni, morti prossime. In quali condizioni egli
si trovasse sognando, lo possiamo arguire da certi suoi modi
d'esprimersi.
Così, di un sogno avuto nella notte fra il
67 e il 68 dice: «Era un sonno, nel quale uno può conoscere
quello che fa, udire quello che si dice, e rispondere se
interrogato». Gli si soleva mettere a fianco per guida e
interprete un personaggio, non sempre il medesimo; da probabili
indizi sembrerebbe che fosse ora qualche allievo defunto, ora
san Francesco di Sales, ora san Giuseppe o altro Santo, ora un
Angelo del Signore, talvolta la Madonna; vi si univano in certi
casi per corteggio o per compagnia apparizioni secondarie.
Che cosa pensava Don Bosco de' suoi sogni?
Sulle prime andò a rilento nel prestarvi fede, attribuendoli a
scherzi di fantasia; onde nel raccontarli, se vi entrassero
previsioni del futuro, temeva sempre o di aver preso abbaglio o
di dir cose da non doversi pigliare sul serio. Il fatto è però
che distingueva benissimo fra sogni e sogni e se alcuni, come
accade, si dileguavano senza che gli facessero impressione di
sorta, altri gli lasciavano nell'animo un'impressione durevole.
Discorrendone familiarmente con intimi, disse che ripetute
volte, dopo aver raccontato di questi ultimi, se n'era
confessato a Don Cafasso, come di un azzardato parlare, e che il
santo prete, ascoltatolo e riflettutovi sopra maturamente, alla
fine un giorno gli aveva risposto: - Giacché quel che dite si
avvera, potete stare tranquillo e continuare.
Tuttavia non credette opportuno abbandonare
subito le cautele. In una delle menzionate cronachette, sotto il
13 gennaio 1861, sono raccolte queste sue parole riguardo a un
sogno svoltosi a tre riprese in tre notti consecutive: «Nel
primo giorno io non voleva dar retta, poiché il Signore ce lo
proibisce nella Sacra Scrittura. Ma in questi giorni scorsi,
dopo aver fatte parecchie esperienze, dopo aver presi diversi
giovani a parte, e aver dette loro le cose tali e quali le aveva
viste nel sogno e dopo che essi mi assicurarono essere proprio
così, allora io non potei più dubitare che questa sia una
grazia straordinaria, che il Signore concede per tutti i figli
dell'Oratorio. Io perciò mi trovo in obbligo di dirvi che il
Signore vi chiama e vi fa sentire la sua voce, e guai a coloro
che vi resistono!».
Ciò nondimeno, umilmente diffidando di sé,
volle abbondare in precauzioni; onde sotto il giorno 15 torniamo
a leggere: «Dirò quello che ho già detto; io feci quel sogno,
ma per una parte non voleva darvi retta; per l'altra parte lo
vedeva troppo importante, e perciò esaminai ben bene la cosa».
L'esame consistette di nuovo nell'interrogare tre dei giovani,
di cui nel sogno aveva conosciuto il misero stato e che trovò
esattamente nelle condizioni a lui note. Sette anni dopo, il 30
aprile del 68, riparlava nel modo seguente: «Miei cari giovani!
Ieri sera vi ho detto che io avevo qualche cosa di brutto da
raccontarvi. Ho fatto un sogno, ed ero deciso di non farne
parola a voi, sia perché dubitavo che fosse un sogno come tutti
gli altri, che si presentano alla fantasia nel sonno, sia perché
tutte le volte che ne ho raccontato qualcheduno, ci fu sempre
qualche osservazione e qualche reclamo. Ma un altro sogno mi
obbliga a parlarvi del primo». In quest'altro sogno, come narrò
poi, la voce del personaggio gli aveva detto: - Perché non
parli? - Non si può credere davvero che in questa come in
cent'altre cose abbia fatto difetto a Don Bosco la prudenza!
Intanto, il fin qui detto ci aiuta a
comprendere una confidenza da lui fatta con aria grave e con un
senso di preoccupazione nel 76 a Don Giulio Barberis:
"Quando penso alla mia responsabilità per la posizione in
cui mi trovo, tremo tutto. Le cose che vedo accadere, sono tali,
che caricano sopra di me una responsabilità immensa. Che
rendiconto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie
che ci fa per il buon andamento della nostra Pia Società! Si può
dire che Don Bosco vede tutto ed è condotto avanti per mano
dalla Madonna. Ad ogni passo, in ogni circostanza, ecco la Beata
Vergine!».
Come raccontava Don Bosco i suoi sogni? Con
quale animo li raccontasse, traspare abbastanza dalle citazioni
surriferite; tuttavia vi è qualche aggiunta da fare. Esponeva
le cose «con semplicità, gravità e affetto», c'informa un
testimonio. Esordiva per lo più molto alla buona, evitando
tutto ciò che potesse far colpo o insinuare l'idea di merito o
privilegio suo. Raccontando, intercalava frasi argute o
descrizioncelle giocose, per distrarre l'attenzione degli
uditori dai punti di maggiore singolarità; non mancavano per
altro individui perspicaci, che capivano e notavano.
Sempre col fine di affievolire
l'impressione dello straordinario, dava nomi insignificanti al
personaggio che soleva accompagnarlo, chiamandolo guida,
interprete o, più vagamente ancora, sconosciuto; solo
discorrendo a tu per tu con alcuni, ne dava indicazioni meno
imprecise. Aveva poi una cura ben dissimulata di mettere in
rilievo quanto ridondasse a sua umiliazione. Così, narrando un
sogno nel 61, dopo aver detto del suo grande cruccio al vedere
che giovani dell'Oratorio facevano i sordi a' suoi consigli e
mal corrispondevano a' suoi benefici, proseguiva: «Allora il
mio interprete prese a rimproverarmi: - Oh, il superbo! Vedete
il superbo! E chi sei tu dunque che pretendi di convertire,
perché lavori? Perché tu ami i tuoi giovani, pretendi di
vederli tutti corrispondere alle tue intenzioni? Credi tu forse
di essere da più del nostro divin Salvatore nell'amare le
anime, faticare e patire per esse? Credi tu che la tua parola
debba essere più efficace di quella di Gesù Cristo? Predichi
tu forse meglio di lui? Credi tu di aver usata più carità,
maggior cura verso i tuoi giovani, di quella che abbia usato il
Salvatore verso i suoi apostoli? Tu sai che vivevano con lui
continuamente, erano ricolmi ad ogni istante d'ogni sorta di
suoi benefici, udivano giorno e notte i suoi ammonimenti e i
precetti della sua dottrina, vedevano le opere sue, che dovevano
essere un vivo stimolo per la santificazione dei loro costumi.
Quanto non ha fatto e detto intorno a Giuda! Eppure Giuda lo
tradì e morì impenitente. Sei tu forse da più degli apostoli?
Ebbene, gli apostoli elessero sette diaconi: erano solo sette,
scelti con ogni cura: eppure uno prevaricò. E tu fra
cinquecento ti meravigli di questo piccol numero che non
corrisponde alle tue cure? Pretendi di riuscire a non averne
alcuno cattivo, alcuno che sia perverso? Oh, il superbo!».
Ridurre al minimo possibile ciò che
potesse suscitare opinione di soprannaturale, umiliare la
propria persona con riferire si forti rimproveri, sta bene; ma
la verità aveva pure i suoi diritti. Perciò egli esortava a
guardarsi dal mettere in burla le cose udite, e a fare ognuno
per sé le debite applicazioni. Per altro, anche queste
esortazioni erano condite di evangelica umiltà.
Non dispiaccia un'altra citazione un po'
lunga, ma che sarà l'ultima. Il sogno del 61, in cui si buscò
il rimbrotto precedente, fu raccontato in tre sere di seguito;
eccone la chiusa: «Adesso che vi ho raccontato tutte queste
cose, voi penserete: - Chi sa? Don Bosco è un uomo
straordinario, qualche cosa di grande, un santo sicuramente!
Miei cari giovani! Per impedire stolti giudizi intorno a me, vi
lascio tutti in piena libertà di credere o non credere queste
cose, di dar loro più o meno importanza: solo raccomando di non
mettere niente in derisione, sia coi compagni sia con gli
estranei. Stimo però bene di dirvi che il Signore ha molti
mezzi per manifestare agli uomini la sua volontà. Alcune volte
si serve degli strumenti più inetti e indegni, come si servì
dell'asina di Balaam, facendola parlare; e di Balaam, falso
profeta, che predisse molte cose riguardanti il Messia. Perciò
lo stesso può accadere di me. Io vi dico adunque, che non
guardiate le mie opere per regolare le vostre. Quel che voi
dovete unicamente fare, si è di badare a quello che dico, perché
questo, almeno lo spero, sarà sempre la volontà di Dio e
ridonderà a bene delle anime. Riguardo a quel che faccio, non
dite mai: - L'ha fatto Don Bosco; dunque è bene. No. Osservate
prima quello che faccio; se vedete che è buono, imitatelo; se
per caso mi vedete fare qualche cosa di male, prendetevi guardia
dall'imitarlo: lasciatelo come malfatto».
Non tutte diceva in pubblico le cose
apparsegli o udite nei sogni; ma alcune comunicava in privato a
chi v'aveva esclusivo interesse; altre palesava a chi, godendone
maggiormente la familiarità, ne lo interrogasse a quattr'occhi;
altre infine serbava per sé, come a lui personalmente
destinate. Ecco infatti uno dei cronisti informarci che per
certi sogni si veniva udendo così a spizzico tanto di nuovo, da
potersene «duplicare o triplicare la materia», e che per certi
altri, a prender nota di tutto, ci sarebbero voluti altrettanti
volumi.
A mo' d'esempio, riandando il suddetto
sogno del 61, Don Bosco disse d'avere in quelle tre notti
acquistate più cognizioni di teologia che non in tutti gli anni
di seminario, e che aveva intenzione di scrivere su tali
questioni teologiche, lasciando «i fatti specifici» della
terza notte e dando solo «le teorie» delle due prime. Onde si
deduce che, dovendo le sue narrazioni avere per iscopo
l'edificazione, il conforto, l'ammaestramento altrui od essendo
anche taluna di esse un grido d'allarme, egli faceva pel
racconto pubblico saggia selezione di parti, sicché l'insieme
fosse per riuscire di reale vantaggio agli ascoltatori. E gli
effetti che ne derivavano, li avrebbe visti un cieco.
Specialmente cresceva a più ridoppi l'orrore del peccato;
quindi un confessarsi con maggior compunzione, un moltiplicarsi
di confessioni generali, una frequenza di tutti alla santa
comunione: era insomma, per dirla con frase usata da Don Bosco
in tali occasioni, la bancarotta del demonio.
Ce ne sarebbe dunque d'avanzo per
sottoscrivere a due mani il seguente giudizio del canonico
citato poco fa: «A noi, sebbene non più fanciulli, non si
rappresentava altra spiegazione ragionevole e plausibile se non
quella dei doni straordinari concessi a Don Bosco dal Signore».
E ciò tanto più quando si ponga mente, che Don Bosco non solo
non provocava in qualche modo né desiderava sogni di questo
genere, ma ne aveva paura, perché fisicamente ne pativa non
lievi disturbi; a volte per giunta, finito appena il racconto,
non rammentava più quel che aveva detto, cosa non insolita ad
avverarsi nelle persone che parlano mosse da ispirazioni
soprannaturali. Ma, oltre al già molto che siamo venuti
esponendo, ci si presentano ancora due caratteri notevolissimi,
che non permetteranno mai allo psicologo di giudicare i sogni di
Don Bosco alla stregua dei sogni puramente naturali.
Un primo carattere risiede nell'elemento
psicofisico. Nei sogni naturali impera o imperversa la fantasia,
non governata dalla ragione. Normale condizione per l'inizio del
sonno è la stanchezza. La stanchezza produce sostanze
intossicatrici del cervello, senza che però si arrivi
all'intossicazione completa: la natura vi ha provveduto, facendo
si che quelle, raggiunta una certa quantità, agiscano come un
meccanismo d'interruzione e arrestino l'apparato motore che
consuma la maggiore energia. Tale interruzione toglie ai centri
superiori dal sistema nervoso l'energia psicofisica necessaria
per l'attività normale, tanto di più quanto maggiormente
l'individuo ha bisogno di sonno. Il piccolo residuo di energia
psicofisica rimasta nei centri superiori basta per la vitalità
del sogno; ma l'ordinario è troppo scarso per eccitare
efficacemente i centri motori, irradiando dai centri sensoriali.
Ora se si considera che Don Bosco, andando
a dormire, aveva sempre estremo bisogno di sonno, si ha già in
questo una ragione per conchiudere che dunque in lui tanta
vitalità di sogni non era umanamente spiegabile.
Ma c'è di meglio. Il meccanismo
d'interruzione che isola l'apparato motore, e la diminuzione
d'energia psicopatica del sistema nervoso centrale influiscono
sull'attività della fantasia causandovi i due fenomeni
dell'irregolarità e del mutamento improvviso, che durante il
sonno tutti abbiamo potuto sperimentare; poiché l'insufficienza
dell'energia psicofisica rende impossibile il seguire a lungo un
motivo, ma basta qualunque stimolo esterno a dirigere per altra
via quel resticciuolo di energia, sicché allora tutta
l'immagine del sogno si dissolva. Ond'è che generalmente nel
sogno l'attività della fantasia non è diretta da alcun intento
positivo; perciò nei sogni naturali non si suol verificare né
ordine razionale di rappresentazione né concatenamento logico
di pensiero, ma vi si salta di palo in frasca, con improvvisi
scatti di bizzarrie e con repentini sbalzi nel ridicolo o nello
stravagante.
Tutto l'opposto accade nei sogni di Don
Bosco. Essi sono rappresentazioni simboliche simili a quella che
si mostrò a san Pietro nella visione estatica del lenzuolo
calato dal cielo e pieno d'animali mondi e immondi. L'intreccio
vi è or più or meno complicato, protraendosi lo svolgimento
talora a lungo e con distinzione di atti, come nei veri drammi;
inoltre, e qui sta il singolare, vi si ammira costantemente
nelle immagini vedute un succedersi che ha sempre la sua ragione
di essere, e nelle parole udite o lette un valore significativo
che forma con le immagini stesse un sol tutto.
Ogni sogno si aggira intorno a un'idea
centrale e va diritta a uno scopo ben determinato; l'azione
intera vi si sviluppa progressivamente e ordinatamente, come
nelle migliori composizioni drammatiche. Manco a dirsi poi che,
sebbene le forme sensibili si adagino nel simbolismo acconcio
alla mentalità comune, però vi s'introducono elementi
bislacchi o volgari o frivoli o comunque disdicevoli a un fine
santo. L'esemplificare sarebbe cosa piacevole; ma l'economia del
nostro lavoro ci tiene stretto il freno.
Un secondo carattere dei sogni di Don Bosco
è dato dall'elemento profetico. La nostra immaginazione, quando
nel sonno combina e scombina senza direttive della ragione, sarà
vero che divina il futuro? Eh, non ci si riesce nemmeno, quando
vi si aguzza da svegli l'intelligenza! Moltiplicando
osservazioni su fatti e fenomeni vicini, si presagiscono appena
effetti più o meno remoti, ma se manca un reale punto
d'appoggio, è vano ogni tentativo di gettar lo scandaglio
nell'avvenire; figuriamoci durante l'incoscienza del sonno!
Eppure i sogni di Don Bosco non contenevano vaghi o sibillini
presagi, ma rivelazioni chiare e nette di eventi nascosti nelle
profondità del futuro.
A dir vero, lo spirito profetico abitava in
Don Bosco, tante predizioni egli fece di cose libere e
contingenti, avveratesi avanti o dopo la sua morte, nel tempo e
nel modo da lui annunciati. Il più volte menzionato canonico
Ballesio scrive: «Questo in Don Bosco non sembrava un
istantaneo fulgore come di rapido baleno nel suo intelletto, ma
che fosse divenuta l'ordinaria condizione della sua mente, per
modo che egli profetava pregando, conversando, celiando, e
profetava non accorgendosi quasi più né egli di profetare né
altri che egli profetasse». E profetava anche sognando.
Nei sogni il contenuto profetico, quando
non era tutto, era parte rilevante. Così, quanti annunci di
morte non diede in antecedenza, perché avvertitone in sogno!
Non pronunciava nomi, ma precisava date; del nome a volte
svelava in pubblico la lettera iniziale, a volte dava
comunicazione privatamente a qualcuno sotto segreto. Per
l'avveramento poi si compiacevano i buoni, cioè quasi tutti,
avvezzi com'erano ad accogliere venerabondi i suoi detti, e
ammutolivano i diffidenti, che, sebbene rari nantes in gurgite
vasto, pure con la loro ritrosia a credere garantivano per
allora e per ora la storicità dei vaticini. Su ciò non
affastelleremo noi episodi, rubando la penna ai biografi;
piuttosto dalle solite pagine ingiallite ci dica Don Bosco
stesso ancora due parole in proposito.
Uno dei compilatori di cronachette
domestiche, sotto il 17 febbraio 1861, prende nota di questa sua
osservazione, alludente a profezie di sogni. «Se queste cose
che si fanno e si dicono nella nostra casa, le quali però sono
certamente singolari e che devono stare tra di noi, qualcuno del
mondo le sapesse, le giudicherebbe favole. Ma noi abbiamo per
massima sempre che, quando una cosa volge a bene delle anime, è
certo che viene da Dio e non può venire dal demonio».
Per altro, il nemico di Dio e delle anime
un campo differente erasi riservato, donde sferrare i suoi
assalti contro Don Bosco. Il Poulain, che fa testo in materia di
mistica, ha questa osservazione opportunissima al caso nostro:
«Dalla vita dei Santi sembra risultare che, se patiscono gravi
ossessioni, ciò accade per lo più, quando sono giunti al
periodo dell'estasi o anche solo delle rivelazioni e visioni
divine, sia che tali grazie continuino, sia che vengano
temporaneamente sospese. All'azione straordinaria di Dio fa
allora da contraltare l'azione straordinaria dei demoni». Anche
per i santi della Chiesa militante la terra è campo di
battaglia.
Della guerra ingaggiata dal demonio contro
Don Bosco noi possediamo bollettini ufficiali redatti durante
una prima fase; questo ci basta per farci un'idea di tutta la
campagna, durata tre anni. Il demonio esercitava le sue ostilità
contro il Servo di Dio specialmente col non lasciarlo dormire di
notte. Ora un vocione all'orecchio lo stordiva, ora un soffio
come di bufera lo percuoteva; insieme poi un rovistare per ogni
angolo, un disperdere carte, un disordinare libri.
Alcune sere, corrette le bozze del suo
opuscolo La Potestà delle tenebre, posava sul tavolino; ma,
levandosi all'alba, o le trovava sparse per terra o non le
ritrovava affatto. Dalla stufa spenta si sprigionavano fiamme
avvampanti. Coricatosi appena, una mano misteriosa gli tirava
lentamente le coperte verso i piedi; riassettatele, se le
sentiva di bel nuovo scivolare lungo la persona. Accesa la
lucerna, il fenomeno cessava, per ricominciare tosto nel buio;
una volta il lume gli fu spento da un potente soffio d'ignota
provenienza. Sul punto di pigliar sonno, ecco la danza del
capezzale sotto la testa. Il segno della croce o qualche
preghiera gli ritornava la quiete; ma sul riassopirsi ecco
traballare il letto intero. La porta gemeva quasi per urto di
vento impetuoso.
Rumori spaventevoli sopra la camera
facevano pensare a molte ruote di carri in corsa; ivi pure
scoppiavano all'improvviso altissime grida. Una notte l'uscio si
spalanca ed entra con le fauci aperte un orribile mostro, che si
avventa per divorarlo, ma è fugato dal segno della croce.
Un sacerdote molto coraggioso volle
vegliare nella camera, ma non potè rimanervi perché a
mezzanotte, atterrito da un fragore infernale, scappò via a
precipizio. Due chierici, che si offersero a ripetere insieme la
prova, stando nell'attigua biblioteca, dovettero anch'essi
battere tosto in ritirata, presi da tremito convulso. Il povero
Don Bosco, per trovar pace, si recò presso il Vescovo d'Ivrea;
ma dopo una prima notte tranquilla il nemico lo raggiunse e si
fu da capo e peggio che mai. Tanto basti per un saggio di questa
lotta terribile con lo spirito delle tenebre; parlando della
quale nel 65, Don Bosco accennò d'avervi finalmente trovato il
rimedio, e di somma efficacia, ma non si volle spiegare più
chiaramente. Può darsi che fosse qualche penitenza
straordinaria.
I sogni soprannaturali appartengono alla
specie di visioni chiamate dai mistici immaginative, perché
svolgentisi per via d'immagini impresse nella fantasia da causa
superiore; ma di siffatte visioni se ne producono pure durante
la veglia. È invalso l'uso di qualificare promiscuamente per
sogni di Don Bosco
visioni dell'una e dell'altra maniera,
mentre, nonostante la stretta analogia, differiscono fra loro
non poco. Così la visione immaginaria nello stato di veglia
sembra non potersi mai scompagnare da qualche grado di estasi,
da quelle estasi cioè nelle quali or maggiore or minore sia
l'astrazione dai sensi.
Vide a questo modo il Servo di Dio nel 70
una serie complessa di avvenimenti pubblici, di cui è tuttora
in corso di svolgimento l'ultima parte. L'esordio del testo,
scritto da lui e mandato a Pio IX, conferma, pare, questa
opinione; egli infatti vi si esprime nei termini seguenti: «La
vigilia dell'Epifania dell'anno corrente 1870 scomparvero tutti
gli oggetti materiali della camera e mi trovai alla
considerazione di cose soprannaturali. Fu cosa di brevi istanti,
ma si vide molto. Sebbene di forma, di apparenze sensibili,
tuttavia non si possono se non con grande difficoltà comunicare
ad altri con segni esterni e sensibili. Se ne ha un'idea da
quanto segue. Ivi è la parola di Dio accomodata alla parola
dell'uomo». Vide nello stesso modo davanti e in numerose
circostanze il santo giovane Luigi Colle di Tolone, da lui
conosciuto poco prima che quegli volasse diciassettenne al
cielo. Fra l'81 e l'85 l'estinto gli apparve mentre confessava,
mentre diceva la messa, mentre distribuiva la comunione, una
volta perfino nella stazione di Orte durante un'attesa di
quattro ore. Tali apparizioni erano sempre luminose e liete, a
volte con colloqui, a volte senza.
Una visione della medesima natura egli ebbe
forse nell'agosto dell'87 a Lanzo Torinese. Una Figlia di Maria
Ausiliatrice, bramosa di riceverne la benedizione e stanca di
attendere nell'anticamera chi la introducesse dal Servo di Dio,
sospinse leggermente la porta socchiusa dello studio di Don
Bosco, e che vide? Il buon Padre nell'atteggiamento di persona
fuori di sé, la quale stia in ascolto. Il viso era trasfigurato
da viva e bianca luce; la fisionomia soave e tranquilla; le
braccia aperte verso l'alto e il capo accennante di tratto in
tratto a fare di sì. Viva Gesù! Padre, è permesso? - disse
ripetutamente la suora; ma egli nulla. Finalmente la scena,
durata non meno di dieci minuti, si chiuse con un segno di croce
e con un inchino riverenziale indescrivibile. È da notare che
Don Bosco in quell'anno mal si reggeva in piedi senza il braccio
altrui; ed era sempre un po' curvo; là invece stava con tutta
la persona eretta.
Oltre alle immaginarie, si conoscono ancora
due specie di visioni, una inferiore alle precedenti e l'altra
superiore. Inferiore è quella delle visioni dette sensibili,
corporali, oculari; in esse i sensi percepiscono cose esterne
che non si potrebbero né vedere né intendere senz'aiuto
soprannaturale.
Don Bosco ebbe una visione di questa
specie, quando gli fu rivelato l'avvenire del giovinetto
Cagliero, gravemente infermo. Al metter piede sulla soglia della
sua stanza per visitarlo e disporlo a ben morire, ecco due
apparizioni successive, durate un attimo ciascuna. Da prima, una
colomba luminosissima, recante un ramoscello d'olivo nel becco,
la quale, fatti alcuni giri per la camera, da ultimo raccolse il
volo sul morente, con l'olivo gli toccò le labbra e poi glielo
lasciò cadere sul capo: presagio di apostolato missionario e di
pienezza del sacerdozio. Indi una folla di selvaggi, dalle forme
nuove, curvi e trepidanti sul fanciullo, e fra essi emergenti
due bei tipi caratteristici e di razza diversa, che gli eventi
fecero poi conoscere rappresentanti dei Patagoni e dei Fueghini.
Le visioni dell'altra specie, che è la più
alta di tutte, vanno sotto il nome di intellettuali; in esse la
mente intuisce verità spirituali senza alcun concorso
d'immagini sensibili. Dio ne avrà concesse a Don Bosco? Non
possiamo affermarlo con sicurezza. Ma chi saprà mai tutta la
dovizia di carismi soprannaturali, che arricchirono l'anima di
Don Bosco?
La sua spontanea naturalezza in tutte le
cose e la sua abituale semplicità di vita erano fatte apposta
per celare le segrete operazioni della grazia, quando la notizia
di queste non dovesse recare al prossimo qualche giovamento. In
ogni modo, i casi di levitazione e d'irradiazioni luminose non
avvalorerebbero per avventura l'ipotesi che nemmeno visioni
dell'ordine supremo gli siano mancate?
Nel 79 il Servo di Dio, dicendo la messa,
nella sua cappella privata, fu visto in tre giorni differenti
irradiare dal volto una luce che rischiarava tutta la camera, e
poi con tutta la persona staccarsi dalla predella, innalzarsi a
poco a poco e rimaner sospeso in aria per una diecina di minuti.
Lo storico Don Lemoyne per tre sere di
seguito sul tardi vide la faccia di lui accendersi gradatamente
fino ad assumere una trasparenza luminosa; tutto il volto
mandava uno splendore forte e soave. Il Rettor Maggiore Don
Rinaldi, come narrò allo scrivente, vide improvvisamente in tre
incontri, a dieci anni di età, a ventidue, e sui trenta, in
pieno giorno e in luoghi diversissimi, illuminarsi gli occhi di
Don Bosco e fiammeggiare, poi estendersi la luminosità a tutta
la persona e venirglisi formando un'aureola sfolgorante, che
vinceva la luce naturale e che brillava a forma del nimbo dei
Santi. L'agilità e lo splendore sono due belle doti riserbate
ai corpi gloriosi. Se pertanto di tali doti si scorgono quaggiù
anticipazioni mirabili in corpi di viventi, non sarà lecito
pensare che un tanto fenomeno avvenga, quando le anime, quasi
indiate, godono delle cose divine una visione, arieggiante più
o meno da lungi la futura intuitiva visione beatifica?
La notizia di questi ultimi favori
celestiali non ebbe tanta risonanza, quanta la fama di
taumaturgo, che ne accompagnò il nome con un crescendo continuo
fino alla tomba. Sul dono dei miracoli non è affar nostro
dilungarci; tuttavia un cenno fugace, che risponda al nostro
disegno, non parrà inopportuno prima di por termine a questo
capo.
Da un Memoriale, che Don Bosco già
vecchio, nel 1884, mise a poco a poco in iscritto con mano
stanca e a cuore aperto, per lasciarci quasi paterno testamento,
utili ricordi e ammonimenti a' suoi figli, stralceremo alcuni
periodi che fanno qui a proposito. Il buon Padre vi esprime
sentimenti, dei quali, anche senza che egli nulla dicesse, erano
arciconvinti coloro che ebbero con lui diuturna consuetudine di
vita; per noi lontani invece le sue dichiarazioni sono quanto di
meglio si possa desiderare a fine di ben conoscere quali fossero
i suoi intimi pensieri nella piena di doni soprannaturali che ne
inondavano lo spirito e si riversavano al di fuori, facendolo
acclamare operator di miracoli.
Con tutto candore egli scrive adunque così:
«Io raccomando caldamente a tutti i miei figli di vegliare sia
nel parlare sia nello scrivere, di non mai raccontare né
asserire che Don Bosco abbia ottenuto grazie da Dio o abbia in
qualsiasi modo operato miracoli. Egli commetterebbe un dannoso
errore; sebbene la bontà di Dio sia stata generosa verso di me,
tuttavia io non ho mai preteso di conoscere ed operare cose
soprannaturali. Io non ho fatto altro che pregare e far
domandare grazie al Signore da anime buone. Ho poi sempre
esperimentato efficaci le preghiere comuni dei nostri giovani, e
Dio pietoso e la sua santissima Madre ci vennero in aiuto nei
nostri bisogni. Ciò si verificò specialmente ogni volta che
eravamo in bisogno di provvedere ai nostri giovanetti poveri e
abbandonati, e più ancora, quando essi trovavansi in pericolo
delle anime loro».
Conchiuderemo facendo nostra l'osservazione
dell'avvocato della Causa, che il dono dei miracoli conferma
luminosamente la soprannaturalità delle comunicazioni.
CAPO XVIII. - Dono di orazione.
I fenomeni straordinari finora descritti
sono mirabili segni esterni, che manifestano la presenza di Dio
nell'anima. Dio vive in noi, quando siamo per grazia a Lui
uniti; ma in certe anime Egli si fa sentire con un tocco
ineffabile, che arriva all'essenza stessa dello spirito, secondo
un'espressione adoperata dai mistici. Allora succede questo
fatto, che, mentre le forze superiori dell'intelligenza e della
volontà restano come assorbite dalla luce e dalle operazioni
divine, i sensi vengono meno né più sono in grado di operare,
come accade precisamente nell'estasi.
Nulla di ciò verificavasi nell'umanità di
Gesù e in Maria durante la loro vita terrena; perché, sebbene
godessero abitualmente la percezione sperimentale della vita
soprannaturale, pure, a motivo dello stato d'integrità perfetta
che portava seco la piena soggezione dei sensi alla ragione, non
pativano smarrimenti nelle potenze inferiori.
Ora noi ci domandiamo: dato che in Don
Bosco si ravvisano le manifestazioni esterne solite ad
accompagnare la vita mistica, si può senz'altro ritenere che
egli sia stato realmente elevato, alla mistica unione? e fino a
qual grado? In altri termini, poiché la cosa si attua mediante
la contemplazione infusa, è possibile venir a capo di scoprire
se e in che misura questo dono della contemplazione infusa abbia
insignito l'anima elettissima di Don Bosco?
A priori, circa la realtà della cosa, non
parrebbe temerario rispondere affermativamente. Infatti,
Benedetto XIV, basandosi sulla storia, ha stimato di poter
asserire che «quasi tutti i Santi e specialmente i fondatori
d'ordini hanno ricevuto visioni divine e rivelazioni» ed ha
soggiunto: «Senza dubbio Dio parla familiarmente con i suoi
amici e favorisce soprattutto quelli scelti da lui per opere
grandi».
Il Poulain, dopo aver affermato che
d'ordinario i Santi canonizzati, arrivati cioè all'eroicità
della virtù, sono stati favoriti dell'unione mistica, osserva
che, se taluno ne sembra privo, non si può già dimostrare
positivamente che vera privazione vi fu, ma piuttosto bisogna
deplorare che manchino documenti per la dimostrazione storica.
Fortunatamente le precauzioni di Don Bosco non valsero a
sottrarci, come si è veduto, tutte le manifestazioni esteriori
della sua vita mistica, così che non difettiamo anche di
argomenti a posteriori.
Piuttosto si amerebbe avere eguale
sicurezza per determinare il grado della sua mistica unione con
Dio. Dopo maturo esame sembra che, prescindendo da speciali
momenti, in cui l'intensità potè essere maggiore, crederemmo
cosa dimostrabile aver egli posseduto abitualmente quella grazia
d'orazione che è detta da santa Teresa unione intera, dal
Poulain unione piena, da altri, e specialmente italiani, quali
lo Scaramelli e sant'Alfonso de' Liguori, unione semplice.
Sant'Alfonso la descrive così: «Nell'unione semplice, le
potenze sono sospese, non i sensi corporei, benché questi siano
molto impediti nelle loro operazioni».
Quindi un tal dono d'orazione presenta due
caratteri: l'anima è tutta assorbita dall'oggetto divino, senza
che altro pensiero ne la distorni, non ha, in una parola,
distrazioni; i sensi invece continuano più o meno ad agire, non
viene cioè tolta loro la possibilità di comunicare col mondo
esterno, così la persona può vedere, udire, parlare, camminare
e perciò anche uscire liberamente dallo stato di orazione.
Autorevoli scrittori mistici, raccogliendo da san Tommaso le
nozioni fondamentali su questa delicata materia enumerano e
descrivono sette effetti dell'unione semplice; e noi, per
evitare il pericolo di battere l'aria, li passeremo rapidamente
in rassegna, riscontrandone la presenza in Don Bosco.
La natura però dell'argomento consiglia di
non procedere oltre senza ribadire di proposito un concetto, che
dalle cose precedenti il lettore si sarebbe già potuto formare,
almeno vagamente, da sé. Dell'unione con Dio l'anima di Don
Bosco fruiva, diciamolo pure francamente, senza discontinuità;
sembra infatti essere stato questo il suo dono, di non lasciarsi
mai distrarre dal pensiero amoroso del Signore, per molte e
gravi e ininterrotte che fossero le sue occupazioni e
preoccupazioni.
Scorriamo nel Summarium della Positio super
virtutibus il titolo settimo De heroica caritate in Deum,
spigolando le espressioni più salienti intorno a questo tema da
una dozzina di testimonianze, tutte del massimo peso, perché
rese da persone che, parlando di Don Bosco, hanno il diritto di
appropriarsi il commosso prologo della prima lettera di san
Giovanni: Quod fuit ab initio, quod audivimus, quod vidimus
oculis nostris, quod perspeximus et manus nostrae
contrectaverunt, et testamur et annuntiamus.
Siano i primi a dirci la loro parola i tre
successori di Don Bosco. Don Michele Rua, del quale è avviato
il processo per la beatificazione: «Quello che ho potuto
continuamente scorgere fu la sua continua unione con Dio. E
questi sentimenti d'amor di Dio manifestava con tanta spontaneità,
che si vedeva che sgorgavano da una mente e da un cuore sempre
immersi nella contemplazione di Dio e de' suoi attributi». Don
Paolo Albera: «Era tanta l'unione del Venerabile con Dio, che
pareva ricevesse da lui quei consigli e incoraggiamenti, che
dava a' suoi figli». Don Filippo Rinaldi: «È mia intima
convinzione che il Venerabile fu proprio un uomo di Dio,
continuamente unito a Dio nella preghiera». Con i tre Rettori
Maggiori interloquisca Don Giovanni Battista Francesia: «Io
vedeva che il Venerabile era facile a raccogliersi nel Signore».
Ora ascoltiamo altri sette Salesiani,
ragguardevoli per virtù religiose o per cultura o per uffici o
per tutte tre le cose insieme. Le loro deposizioni ci dicono che
«la vita di Don Bosco parve sempre un'unione costante con Dio»
tanto che, «in qualunque momento lo si interrogasse, anche in
mezzo agli affari più aridi e più distraenti, egli rispondeva
come uno che fosse assorto nella meditazione»; che «la carità
verso Dio risplendeva nell'unione sua con Lui»; che «viveva
sempre alla presenza di Dio» e «i suoi pensieri erano sempre
rivolti al Signore»; che «la preghiera mentale si può dire
essere stata una pratica connaturale in lui»; che «aveva il
cuore così pieno d'amore verso il Signore che il suo pensiero,
la sua parola erano sempre a lui rivolti»; che «il Venerabile
sempre dimostrò un vero e profondo spirito di preghiera e di
unione con Dio, come era dato di assicurarci ogni qualvolta i
suoi lo avessero, avvicinato»; che «aveva una perfetta unione
di spirito con Dio».
Parlino infine due prelati. Monsignor
Tasso, dei Preti della Missione, Vescovo di Aosta, allievo di
Don Bosco dal 61 al 65 dice: «Il Venerabile ardeva sempre della
più grande carità verso Dio, e io sono persuaso che viveva in
una continua unione con Dio. Ricordo che tra noi ragazzi c'era
questa persuasione, che il Venerabile parlasse direttamente col
Signore, specialmente quando ci aveva da dar consigli riguardo
al nostro avvenire».
Il cardinal Cagliero attesta: «L'amore
divino... gli traspariva dal volto, da tutta la persona e da
tutte le parole, che gli sgorgavano dal cuore quando parlava di
Dio sul pulpito, in confessionale, nelle pubbliche e private
conferenze e negli stessi colloqui familiari. Questo amore fu
l'unica brama, l'unico sospiro, il più ardente desiderio di
tutta la sua vita. Lo udii ripetere migliaia e migliaia di
volte: - Tutto per il Signore e per la sua gloria! Era sempre in
intima unione con Dio, quando dava udienza, quando era al
tavolino intento a' suoi lavori, quando s'intratteneva insieme
con noi in ricreazione, quando pregava con fervore da angelo
dinanzi a Gesù Sacramentato, o allorché si trovava all'altare.
In qualunque momento lo avvicinassimo, ci accoglieva sempre con
squisita carità e con tanta serena amabilità, come se allora
si levasse dalla più accesa orazione o dalla più divina
presenza. Torno a ripetere ciò che disse a me il cardinale
Alimonda, che Don Bosco era sempre in intima unione con Dio».
Quanti «sempre» in queste deposizioni!
L'eloquente Porporato, che, fatto Arcivescovo di Torino, consolò
tanto gli ultimi sei anni del nostro caro Padre, ripeté il
concetto espresso al Cagliero anche nel suo discorso funebre per
la solenne commemorazione di trigesima, definendo senza più Don
Bosco «l'unione continua con Dio».
Coroniamo queste testimonianze con una
calzantissima osservazione di Pio XI. Il grande Pontefice, che
amava ricordare anche pubblicamente e con viva compiacenza
d'aver trattato da vicino e non di passaggio con Don Bosco,
affermò d'aver notato «in ogni azione anche non appariscente»
di lui «uno spirito mirabile veramente di raccoglimento, di
tranquillità, di calma, che non era la sola calma del silenzio,
ma quella che accompagna sempre un vero spirito di unione con
Dio, così da lasciare intravedere una continua attenzione a
qualche cosa che la sua anima vedeva, con la quale il suo cuore
si intratteneva: la presenza di Dio, l'unione a Dio».
In conclusione, come di san Bonaventura
l'antico cronista dice che ne' suoi scritti faceva d'ogni verità
una preghiera, così per Don Bosco si deve estendere tale
affermazioni a ogni atto della sua mirabile vita: qualunque cosa
facesse, era preghiera.
Questa lunga sfilata di testimonianze ci
abbrevierà non poco il rimanente del cammino; alla sagacia dei
lettori non sarà malagevole trarne gli opportuni riscontri, a
mano a mano che verremo delineando i sette effetti dell'unione
semplice, accennati sopra.
Il primo effetto dell'orazione detta di
unione semplice è il solo, di cui siano pressoché
inafferrabili le prove. Lo possiamo designare col nome di
liquefazione, vocabolo suggerito dalla frase biblica: L'anima
mia si liquefece tostoché egli [il Diletto] ebbe parlato. Si
direbbe uno struggimento del cuore per ardentissimo fuoco di
carità o, fuor di metafora, un dolcissimo sentimento d'amor
divino, che riempie l'anima di gioia inesprimibile fino a
produrre nel corpo un mistico languore, che talvolta fa cadere
in deliquio. Fenomeni sensibili di tal natura si sono verificati
mai in Don Bosco? Risponderemo con due osservazioni generali e
con tre fatti speciali.
Prima osservazione: tra i frutti della
contemplazione uno dei più cospicui è l’umiltà. Il
contemplativo, che conosce meglio d'ogni altro le grandezze di
Dio, ha maggiore il sentimento del proprio nulla; perciò, non
che compiacersi del dono divino, ha fin paura quasi che l'aria
lo sappia, e senza impellente necessità di chiedere consiglio
non se ne apre con anima viva, anzi usa ogni mezzo per rattenere
in sé la piena dell'amore. Se non che la sua volontà non può
tutto: e anche il temperamento vi ha la sua parte. La grazia
opera nella natura, ma non la sopprime. Di Luigi Comollo abbiamo
veduto che, se dopo la comunione non avesse dato sfogo
all'abbondanza degli affetti, il cuore gli sarebbe scoppiato.
Don Bosco invece reprimeva l'impeto del suo fervore, e così
avrebbe voluto che facesse anche l'amico; ma la resistenza
fisica dell'amico non era la sua.
Or ecco qui la seconda osservazione. Don
Bosco, padrone de' suoi nervi, Don Bosco, tempra d'acciaio o,
per dirla con linguaggio meno profano, Don Bosco, uomo tale da
potersi applicare le parole del Salmista: Anima mea in manibus
meis semper, ebbe a
servizio della sua umiltà una volontà dominatrice delle
energie inferiori e quindi capace anche di comprimere la
veemenza del sentire, perché non soverchiasse. Perciò la sola
assenza di fenomeni esterni, quali i sovraccennati, non sarebbe
argomento decisivo per negargli il dono della contemplazione
infusa.
Per altro, come si spiega che una persona,
tocca, anzi trafitta con frequenza dai più acuti dispiaceri, da
quei dispiaceri che fanno sanguinar il cuore, si mostri proprio
allora più lieta del solito? Le afflizioni producono dunque
allegrezza? Il dolore, nei cuori elevati alla contemplazione, si
trasforma misticamente in amore, e l'amore è quello che dilata
i cuori. Questo è il primo dei tre fatti.
Il secondo è che negli ultimi anni Don
Bosco dopo intere mattinate spese nel ricevere visitatori,
soleva, dovunque si trovasse, starsene almeno per un'ora del
pomeriggio nella propria camera, dove intimi suoi lo
sorprendevano sempre seduto allo scrittoio, con la persona
eretta, con le mani giunte, in atteggiamento di gran dolcezza,
tutto assorto nella considerazione delle cose celesti. Era
appunto l'ora in cui lo vide estasiato la suora del capo
precedente.
Così pure, negli ultimi anni, - e siamo al
terzo fatto -, quando per le forze affrante la vivezza dei
sentimenti prendeva il sopravvento, egli celebrando ora
s'inteneriva visibilmente in tutto l'essere suo, ora appariva
come pervaso da un sacro tremito, massime nell'istante
dell'elevazione.
Sta bene riferire qui, per rincalzo ed a
maggiore illustrazione, una testimonianza resa da Don Cerruti
nel processo informativo. Parlando dei due ultimi anni del
nostro Santo, egli depose: «Quando e il mal di capo e il petto
affranto e gli occhi semispenti non gli permettevano più
affatto di occuparsi, era doloroso e confortante spettacolo
vederlo passare le lunghe ore seduto nel suo povero sofà, in
luogo talvolta semioscuro, perché i suoi occhi non pativano il
lume, pure sempre tranquillo e sorridente, con la sua corona in
mano, le labbra che articolavano giaculatorie e le mani che si
alzavano di tratto in tratto a manifestare nel loro muto
linguaggio quella unione e intiera conformità alla volontà di
Dio, che per troppa stanchezza non poteva più esternare con
parole. Quanto a me sono intimamente persuaso che la sua vita,
negli ultimi anni soprattutto, fu una preghiera continua a Dio.
Così opinano anche gli altri. Tanto è vero che, entrati in sua
camera per vederlo e parlargli, lo trovavamo sempre come uno che
attende alla più profonda meditazione, pur senza darne segno
esteriore, che il suo volto era sempre lieto, sereno e
tranquillo, com'erano di pace, di carità e di fede le parole
che gli uscivano di bocca».
Secondo effetto dell'orazione passiva è un
soave bisogno di pianto. Nell'intima unione dell'anima con Dio,
l'amorosa conoscenza della divina bontà sveglia dolci e vive
emozioni nel cuore, che, non capendo più in se stesso, chiede
aiuto agli occhi, secondo un'immagine di santa Caterina da
Siena.
Don Bosco ebbe il dono delle lacrime alle
quali non gli bastavano spesso le forze di comandare.
Nell'ultimo viaggio a Roma, celebrando
nella nuova chiesa del Sacro Cuore, più di quindici volte ruppe
in pianto, mentre il sacerdote che l'assisteva s'ingegnava di
distrarlo, perché potesse finire. Il pianto gli si ripigliò
dopo con istraordinaria commozione dei molti che lo circondavano
accompagnandolo. Durante tutta la vita sacerdotale, predicando
su certi argomenti, per evitare di piangere pensava apposta a
cose ridicole, ma indarno. Queste sue lacrime però facevano un
bene grandissimo a chi n'era testimonio, motivo forse non
estraneo ai disegni della Provvidenza nel concedergliele così
irrefrenabili. Più ampi ragguagli ne abbiamo dati altrove, né
servirebbe ora il ripeterci.
Terzo effetto è sentire la presenza di Dio
con una certezza, che esclude fin la possibilità del dubbio.
Santa Teresa dichiara la cosa in questi termini: «Dio viene a
porsi nell'intimo dell'anima siffattamente, che essa, rientrata
in sé, non può in alcun modo dubitare di essere stata in Dio né
che Dio è stato in lei; la qual verità le rimane così
saldamente impressa, che, quand'anche passasse più anni senza
venire di nuovo elevata a quello stato, non le sarebbe possibile
né dimenticare il favore ricevuto né dubitare della sua realtà».
Don Bosco, era pieno del pensiero di Dio:
dimostrarlo qui sarebbe ripetere cose dette. Derivava da ciò il
fascino, di cui parla monsignor Tasso, quando dice: «Bastava
trattenersi un po' con lui per subito accorgersi che era
veramente homo Dei; il soprannaturale traspariva da ogni sua
parola e da tutta la sua persona. Questo l'ho provato io per
esperienza».
Quarto effetto: forza, coraggio,
inalterabile pazienza a tutto soffrire per amor di Dio. Anzi,
queste anime sono tanto accese del divino amore, che ardono
nella brama di patire per Iddio; la qual brama va ognor
crescendo insieme con quella di essere sempre più sue. Don
Bosco fu così. È vero che non poche delle pagine precedenti
cantano la sua magnanimità sovrumana in mezzo alle pene;
tuttavia due nuove testimonianze ce ne tramandino ancora l'eco.
Nella prima, riferentesi alle pene morali,
il Servo di Dio Don Rua, enumeratele, prosegue: «Fu sempre
ammirabile la sua pazienza, la sua rassegnazione, il suo
coraggio. Pareva che le difficoltà e le tribolazioni
gl'infondessero forze, talmente che, sebbene addolorato,
specialmente quando le opposizioni gli venivano dalle autorità
ecclesiastiche, tuttavia non perdeva mai la sua serenità; anzi
pareva che appunto in quei tempi di tribolazione, egli
acquistasse maggior coraggio; giacché lo si vedeva più allegro
e più faceto del solito». Riguardo poi alle pene fisiche, già
da noi descritte, molte e gravi, lo storico Don Lemoyne attesta:
«Egli non pregava mai per la sua guarigione, e così divenivano
volontarie le sue sofferenze. Di queste mai si lamentò né
s'impazientì, e continuava a lavorare».
Quinto effetto, un desiderio ardente di
lodar Dio. La persona, infiammata d'amor divino, vorrebbe essere
tutta voce per non far altro che dar lode al Signore; vorrebbe
anzi che così Egli fosse universalmente conosciuto, amato,
glorificato. Sa bene che Dio maior est omni laude; pure al
pensiero di sì immensa grandezza e bontà non gusta maggior
delizia che nell'onorare, adorare, ringraziare Dio.
Il grande Serafino d'Assisi, per far paga
questa brama cocente, chiamava in aiuto, con infocati slanci di
carità, tutte le creature, anche le irragionevoli, anche le
inanimate, anche le ideali, perché si unissero a lui in lodare
il comune Creatore. Ma nella Chiesa all'unità va congiunta la
varietà, avverte san Francesco di Sales. Sull'immancabile fondo
d'oro della carità - «tutto è dell'amore, nell'amore, per
l'amore e di amore in seno alla Chiesa» - si dispiega la
policromia mirabile dei Santi.
Don Bosco, anima così innamorata di Dio,
aveva tre modi suoi per invitare e incitare a lodar Dio: poneva
la più scrupolosa diligenza nel decoro del culto divino,
parlava con unzione di Dio e delle cose divine a tutti quelli
che anche solo di sfuggita lo avvicinassero, e si sacrificava
con zelo invitto a promuovere sempre la divina gloria.
Queste tre cose, specialmente l'ultima che
poi abbraccia tutto, hanno dato qui sopra sì copiosa materia da
scrivere, che, se si volesse farne astrazione ben poco
rimarrebbe del presente lavoro. Eppure di fronte a un'ampia
trattazione storica il detto finora è informe abbozzo a petto
del quadro.
Sesto effetto, desiderio grande di giovare
al prossimo. L'anima che vive di Dio, sovente riesce a rendersi
utile al prossimo senza neanche avvedersene, perché nell'atto o
di accogliere o di consolare o di soccorrere, - che sono,
secondo san Tommaso, le tre maniere di aiutare i bisognosi -
riceve misteriosamente dall'alto aiuti, che ne rendono l'opera
efficace.
Dire Don Bosco è dire carità: carità
inesauribile nel trattare coi prossimi, carità ineffabile nel
sollevare afflitti e confortare moribondi, carità eroica
nell'andar in cerca dei mezzi per praticare la carità. Per
questo il mondo ama Don Bosco: nos credidimus caritati.
Piace su questa carità soprannaturale
leggere il pensiero sintetico di colui, che fu di Don Bosco il
vero alter ego e che con Don Bosco portò per lunghi anni pondus
diei et aestus: «La sua vita fu consumata nell'esercizio di
questa carità. La sua carità in parte si può dire che l'ha
prevenuto come dono speciale della divina volontà e andò poi
crescendo e perfezionandosi a misura che si avanzava negli anni.
Egli vedeva nel suo prossimo l'opera di Dio e Dio stesso nel
prossimo, vedeva in ciascuno degli uomini un fratello in Gesù
Cristo, e quindi li amava per amor di Dio e tutte le sue
sollecitudini impiegava senza risparmio per attirare tutti a
Dio. Non era semplicemente naturale simpatia, era l'amore di
Dio, la carità di Gesù Cristo, che lo stimolava a spendersi
tutto per il suo prossimo».
Settimo ed ultimo effetto dell'orazione di
unione semplice, e il più mirabile in un povero figlio d'Adamo,
è la pratica abituale delle virtù teologali, cardinali e
morali in grado eroico, in una misura cioè che e per intensità
e per costanza eccede i limiti comunemente propri degli uomini
virtuosi. Dio, scendendo a tanta larghezza di doni con un'anima,
nell'arricchirla di ogni virtù vuole che tutta la Chiesa se ne
avvantaggi col riceverne edificazione e onore; il che appunto
viene in conseguenza dell'eroismo nell'esercizio delle virtù
cristiane. In tale stato, per la pioggia sovrabbondante delle
grazie celesti, all'anima non resta altro da fare che cooperarvi
mediante il semplice suo consentimento.
Né con questo vi è pericolo che l’anima
s'inorgoglisca, quasi dimentica del vero essere suo; anzi,
quanto più s'innalza nel conoscimento amoroso di Dio, tanto più
s'inabissa nel proprio nulla. Cosicché, crescendo l'umiltà,
crescono pure le grazie, e cresce nel contempo lo slancio
entusiastico e visibilissimo per ogni virtù, nessuna
eccettuata.
È notevole al riguardo un'osservazione del
Poulain, il quale scrive: «Dio non viene solo nell'anima. La
sua azione santificatrice è tanto maggiore e più sensibile
quanto più alta è l'orazione. L'anima, saturandosi di Dio
nell'unione mistica, si sente insieme, e non ne sa il come,
saturare d'amore, d'umiltà e dello spirito di sacrificio. Dio
stesso le dà occasione di esercitarvisi, mandandole prove su
prove: tentazioni, malattie, insuccessi, ingiustizie, disprezzi».
Intavolare adesso una discussione
sull'eroicità delle virtù di Don Bosco, dopoché la Chiesa ha
sentenziato, sarebbe portar acqua al mare. Un rilievo però
merita di venir posto in evidenza: balza fuori spontaneo
dall'ultimo periodo sopra citato. Dell'intervento divino,
segnalato ivi dall'autore, la vita intera di Don Bosco ha
sperimentato la varia e ininterrotta vicenda. Ora si badi
all'insegnamento di san Paolo, quando scrive: Il Signore usa la
sferza con ogni figliuolo che riconosce per suo. Il qual
linguaggio, duro e impervio ai mondani, significa che le
tribolazioni, essendo mezzi usati da Dio per purificare e
spingere le anime nella via della perfezione, costituiscono per
sé una prova dell'amore di Dio. Prove tali di amore Don Bosco
ebbe da Dio in tutto il corso della sua vita; prove simili di
amore egli ha date a Dio, praticando eroicamente in mezzo alle
croci inviategli ogni virtù dal principio alla fine della sua
mortale carriera. La vita di lui ci sta dinanzi in una chiarità
diafana, nella quale niente si sottrae al nostro sguardo
scrutatore; ebbene niente vi scorgiamo che non sia santità.
Dice il Cagliero, e con le sue parole
affrettiamoci alla conclusione: «L'eroismo delle sue virtù
praticate nella fanciullezza e gioventù mi fu attestato più
volte da' miei conterranei; da sacerdote, e direttore
dell'Oratorio e Superiore della Congregazione lo attestano con
me tutti gli altri confratelli, spettatori della sua vita. Di
ritorno dall'America, trovai il Servo di Dio più sensibile e più
ardente nella sua carità, più unito con Dio e maggiormente
ripieno di spirituale bontà; vidi anzi, se l'amor filiale non
m'inganna, la sua veneranda canizie circondata da una specie di
celeste aureola e di angelico aspetto e in qualche modo quasi già
glorificata la sua vita, spesa tutta nel sacrificio di se stesso
per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime».
Ancora un'osservazione. Ma dunque anche Don
Bosco è stato un mistico? Sappiamo bene che a non pochi sembrerà
questa, per non dir peggio, un'idea peregrina; ma la colpa non
è della mistica certamente. Due false idee stravolgono le menti
dei profani. Credono che mistico si opponga a reale, si oppone a
fisico naturale. Mistico si dice di ciò che costituisce una
realtà soprannaturale. E poi s'immaginano che gli uomini detti
mistici vivano così assorti nelle loro contemplazioni che nulla
vedano e nulla intendano delle cose di questo mondo.
Invece un autore che fa testo in materia,
tratteggia così la figura dei mistici: i veri mistici sono
persone di pratica e di azione, non di ragionamento e di teoria.
Hanno il senso dell'organizzazione, il dono del comando e si
rivelano forniti di ottime doti per gli affari. Le opere da essi
fondate sono vitali e durevoli; nel concepire e dirigere le loro
imprese danno prova di prudenza e di ardimento e di quella
giusta idea delle possibilità che è il carattere del buon
senso. E infatti sembra proprio che il buon senso sia la loro
qualità predominante: un buon senso non turbato né da
esaltazioni morbose, né da immaginazioni disordinate, e unito a
una molto rara facoltà di discernimento». Questo, se non
m'inganno, è il vivo ritratto di Don Bosco, nel quale la
contemplazione illuminava e dirigeva l'azione.
Donoso Cortes diceva che, se avesse dovuto
trattare con qualche diplomatico la questione più spinosa,
avrebbe cercato per consigliere e guida l'uomo più mistico. Chi
più mistico di san Bernardo? Ebbene, si occupò di tutto e di
tutti, sicché non si può scrivere la storia della sua vita
senza scrivere quella del suo tempo. E santa Teresa e tanti
altri? Si può applicare a Don Bosco quello che fu detto di san
Bernardo, sempre occupato in tanti affari: «La periferia, in
quella sua vita, non dava noia al centro, e il centro non dava
noia alla periferia». Periferia era l'attività esteriore,
centro il mistico raccoglimento interno. Che le anime pure e
illuminate non siano buone a nulla, dice l'autore citato, è una
scoperta moderna.
CAPO XIX. - Nel placido tramonto.
Dopo una vita straricca di doni
soprannaturali come quella di Don Bosco, chi sa quanti si
sarebbero aspettato che all'approssimarsi della fine dovessero
sfolgorare in lui lampi straordinari, preludio dei fulgori
eterni; invece non ne fu nulla, ma tutto passò nelle forme e
nelle condizioni solite a riscontrarsi in chi si avvia a una
morte preceduta da lunga e dolorosa infermità: se pure non si
deve considerare straordinario il modo, con cui Don Bosco
sopportò fino all'ultimo i suoi mali. La santità cresce fino
al termine estremo della vita; allora anzi, meglio di prima, si
vede chi è veramente santo.
«La morte di un santo, scrive il Faber, è
un'opera d'arte divina, un capolavoro soprannaturale tutto
risplendente di eterna bellezza; non ve ne sono due che si
somiglino, e tutte sono ammirabili». Il medesimo autore,
enumerando le morti più preziose agli occhi di Dio, ne mette
fra queste una, che chiama «morte del distacco». Fa una simile
morte chi non ha nulla da sacrificare, nulla di cui spogliarsi,
nulla da lasciare, perché la sua anima o non s'è mai attaccata
alla terra o se n'è staccata da molto tempo, così che la morte
spirituale andò innanzi alla morte fisica. «Una tal morte,
dice, è puramente un atto di amore. Potrebbe dirsi l'esecuzione
di un rito sacro, anziché di un castigo. L'uomo distaccato non
è più figlio della terra, ma è un angelo nei vincoli di una
carne mortale».
Sotto tale aspetto ci si presenta Don Bosco
durante i quarantadue giorni, nei quali si preparava a lasciare
la terra per il cielo: uomo non più di questo mondo, ma tutto
rapito nell'aspettazione fidente dei beni futuri. Il Signore
dispose che nel non breve periodo della malattia ci edificasse
dal letto de' suoi dolori con la sua eroica pazienza, con il suo
inestinguibile ardore per il bene delle anime e con la sua
fervorosa pietà: triplice effetto di quella sua non mai
interrotta unione con Dio, che lo faceva soffrire per amor di
Dio, amare di soprannaturale amore il prossimo e guardare con
filiale tenerezza il Signore.
Con queste tre emanazioni della sua unione
con Dio può trovare posto anche la sua divozione incondizionata
al Vicario di Gesù Cristo. Don Bosco però è sempre Don Bosco:
non aspettiamoci dunque esteriorità impressionanti: gli intimi
suoi sentimenti s'intuiscono attraverso manifestazioni misurate
e tranquille. Non è possibile che agli occhi di chi bene
osserva stia nascosta l'interiorità di quegli uomini, la cui
vita abscondita est cum Christo in Deo? Andiamo pertanto a
considerare una a una le particolarità suindicate.
A Don Bosco la pazienza non venne meno un
istante in tutte le penose vicende del male che lo afflisse,
perché lo sorreggevano le tre virtù teologali. La fede gli
faceva riguardare l'infermità come inviatagli da Dio per il
bene dell'anima sua, la speranza gl'infondeva imperturbabile
quiete di animo nella fiduciosa attesa degli aiuti divini per
sopportare tutti gl'incomodi dall'infermità causati; la carità
gl'ispirava conformità perfetta al divino volere, poiché
soffriva per puro amor di Dio. Questa umile pazienza era da lui
esercitata in parole, in opere e in pensieri.
Nessuno in quarantadue giorni udì mai
dalle labbra di Don Bosco il minimo lamento né per le
sofferenze né per il servizio né per i modi e mezzi di cura.
Ma, senza questo, è cosa tanto ordinaria nei malati parlare del
loro stato! È uno sfogo della natura. Godono in raccontare ogni
caso occorso, vogliono che si sappia come han passato la notte e
il giorno, descrivono l'andamento del male e, pronosticano
quello che verrà. Quando poi non cercano deliberatamente di
muovere a compassione di ciò che soffrono, gustano almeno di
sentirsi compassionare spontaneamente da chi li visita, massime
se li si loda di saper sopportare i loro incomodi. Nulla di
tutto questo in Don Bosco.
Il coadiutore che lo vegliò per quaranta
notti, ritrasse con semplicità nei processi la sua maniera di
comportarsi a tal riguardo dicendo: «Metteva in pratica il suo
motto che mi ripeteva sovente da sano: "Fare, patire e
tacere". Allora, non potendo più fare, pativa e taceva».
Taceva, s'intende, sul suo patire tanto che della parola non
cessò mai di servirsi, finché non gli fu impossibile, a scopo
di bene.
Una volta sola, due giorni prima di morire,
gli disse": - Caro mio, quanto soffro! Ma tosto fece
seguire un'espressione di umiltà: - Se continua così ancora un
poco, non so se saprò resistere. Indi si rianimò, alzando gli
occhi al cielo ed esclamando con gran fede: - Sia fatta la
volontà di Dio in tutte le cose! Spesso, secondo il solito,
dissimulava il suo soffrire, pronunciando motti arguti, che
distraevano l'attenzione degli astanti, come quando ebbe subita
l'operazione, della quale parlai altrove. Pochi minuti dopo, a
chi gli domandò come stesse: - Mi hanno fatto un taglio da
maestro, - rispose. E l'altro: - Povero Don Bosco! avrà sentito
molto male. Ma egli: - Credo che quel pezzetto di carne
staccatomi non abbia sentito nulla.
Una sera l'Economo Generale Don Sala: - Don
Bosco, gli chiese, si sente molto male, non è vero? - Eh, sì!
rispose modestamente. Ma tutto passa, e passerà anche questo.
Ciò udito, Don Sala gli domandò che cosa potesse fare per
alleviarlo un poco. Prega! fu la risposta. Poi egli stesso,
giunte le mani, si raccolse in preghiera. A quanti lo
compassionavano, rispondeva: - Il Signore ha sofferto più di
me.
Paziente si mostrò in ogni suo atto. La
malattia fu lunga e dura. L'esperienza insegna che in simili
casi anche i temperamenti più saldi hanno i loro scatti: la
nervosità li eccita. Don Bosco si abbandonò sempre nelle mani
dei medici che lo curavano, e delle persone che lo assistevano.
Si può ben immaginare quante e quali fossero le premure di
queste ultime. L'infermo, dimentico di sé, esprimeva il suo
rincrescimento per i sacrifici che dovevano fare; e siccome la
mielite nel muoversi gli causava spasimi e quelli se
n'accorgevano, egli per toglierli di pena usciva in qualche
facezia.
Che impresa allorché bisognava
trasportarlo da un letto all'altro! Sebbene si facesse questo
con infiniti riguardi, erano inevitabili gravi sofferenze, anche
perché mancavano mezzi adatti, e gli esecutori non avevano
l'abilità degli infermieri di professione. Il povero paziente,
sempre tranquillo, si lasciava muovere e trattare come un
automa, dicendo ogni tanto qualche piacevolezza. E si che la
manovra si doveva ripetere quasi tutti i giorni. Una notte
voleva da bere, ma gli si dovette negare per la troppa frequenza
del vomito: non si scompose, ma disse: - Bisogna imparare a
vivere e a morire; l'una e l'altra cosa. Di sue esigenze per
avere il conforto di qualche delicatezza, non è nemmeno da
parlare: una volta anzi s'allarmò, perché gli parve di
avvertire alcun che d'insolito.
Quando nelle ultime settimane lo crucciava
un'ardente sete, che né acqua né ghiaccio valevano a smorzare,
si ricorse all'acqua di seltz. Questa sembrò arrecargli
sollievo; ma egli, credendo che fosse una bevanda costosa,
rifiutò assolutamente di giovarsene. Per acquietarlo bisognò
fargli vedere che costava sette centesimi alla bottiglia. Cade
quanto mai opportuna anche qui un'osservazione del Faber. «Non
vi è carattere, dice, più universale nei Santi, che il loro
orrore per le dispense, e il crescere di questo orrore è
proporzionato al crescere del bisogno e dei diritti che ne
possono avere».
Quali fossero i pensieri che gli occupavano
la mente, continueremo a vederlo di mano in mano che andremo
avanti. Qui in tema di pazienza basti accennare al suo spirito
di rassegnazione alla volontà di Dio. Dopo una vita attiva come
la sua, parrebbe che dovesse farglisi innanzi spesso l'idea del
bene che avrebbe continuato a compiere, ricuperando la salute. I
malati accarezzano volentieri e senza rimorso tale supposizione,
immaginandosi di bramare ciò unicamente per servire Dio. Ma le
anime sante sanno che il miglior modo di servir Dio e servirlo a
modo suo, e quindi, se Dio vuole l'infermità, così sia!
Questo sentimento di perfetta rassegnazione
non abbandonò un istante Don Bosco. Tutti i testimoni oculari
sono unanimi a proclamarlo. Reiteratamente infatti or l'uno or
l'altro i Superiori lo eccitavano a pregare per ottenere la
guarigione, persuasi com'erano che, se anche lui avesse pregato,
la grazia si sarebbe ottenuta. Ma egli non acconsentì mai; ogni
volta ripeteva: - Sia di me la santa volontà di Dio. Anzi,
taluno, suggerendogli giaculatorie, fece il tentativo d'inserire
quasi di soppiatto fra le altre un: - Maria Ausiliatrice, fatemi
guarire. Ma a questo punto Don Bosco tacque.
Nell'esprimere la sua rassegnazione, soleva
alzar le braccia al cielo, giungendo poi le mani.
Paralizzataglisi a poco a poco la parte destra e reso immobile
quel braccio, non cessava di alzare il sinistro, ripetendo: -
Sia fatta la vostra santa volontà.
- Perduta infine la parola, levava di tanto
in tanto la mano nello stesso modo, rinnovando molto
probabilmente col muto gesto la segreta offerta della vita al
Signore.
Don Bosco, che per tutta la vita aveva
messo in pratica la massima di un autore d'ascetica: «Una
conversazione sacerdotale deve sempre suggerire un Sursum corda»,
non poteva scordarsene sul finire dei suoi giorni. Già di per sé
il vederlo là sofferente, ma tutto composto a rassegnata
tranquillità, riempiva di edificazione; aveva però sempre
parole che facevano del bene ai presenti e stimolavano a farne
agli assenti. Parole veramente poteva dirne poche; ma il suo
cuore, unito a quello di Gesù, gli metteva nella voce una
vibrazione tale, che suscitava emozioni salutari.
Con quelli che erano più assidui al suo
capezzale, come il suddetto coadiutore e il giovane segretario
Don Viglietti, non aveva solo affettuose espressioni di
ringraziamento o amabili piacevolezze, ma anche esortazioni a
rendergli per motivi soprannaturali i servizi consueti. Al
primo, per esempio: - Ricordati, mio caro, che in fin di vita
raccoglieremo il frutto delle buone opere fatte. Procura di
lavorare per la gloria di Dio, e il Signore ti pagherà bene. E
al secondo con paterna bontà: - Dirai a tua madre che la
saluto, che cerchi di far crescere cristianamente la famiglia e
che preghi anche per te, affinché sia sempre un buon prete e
salvi molte anime.
Questa del salvare anime era una delle sue
raccomandazioni più frequenti. Disse un giorno a Mons.
Cagliero: - Domando una cosa sola al Signore, che possa salvare
la povera anima mia. A te raccomando di dire a tutti i Salesiani
che lavorino con zelo. Lavoro, lavoro! Adoperatevi
indefessamente a salvare anime. E alla Superiora Generale delle
Figlie di Maria Ausiliatrice, dopo averla benedetta: - Salvate
molte anime. Di nuovo al Cagliero, cinque giorni prima della
morte, mormorò con gran fatica: - Salvate molte anime nelle
Missioni.
Il Cagliero amò poi sempre ricordare e
commentare animatamente la calda raccomandazione del caro Padre
circa il lavoro. Non per nulla Don Bosco la rivolse in quegli
estremi a preferenza di altre. La laboriosità è una delle più
genuine tradizioni salesiane. Sì può estendere anche ai figli
di Don Bosco quello che Don Marmion dice dei figli del suo S.
Benedetto.
La Regola salesiana come la benedettina non
prescrive penitenze straordinarie, come cilizi, discipline e
simili; ma il lavoro costituisce nell'una e nell'altra famiglia
religiosa la forma di penitenza fatta per esse. Tutti nella
Chiesa vanno alla vita religiosa per cercare Iddio. Ora le due
Regole impongono di cercarlo non solo con la preghiera, ma anche
col lavoro: ora et labora, troverà Dio tanto più chi più gli
darà gloria, e lo glorificherà con la libera disposizione
delle sue forze impiegate nel servire la sua volontà suprema
secondo l'obbedienza. Ecco in fondo il pensiero che a Don Bosco
morente mise sulle labbra il pressante appello.
Le due Congregazioni da lui fondate
richiamavano naturalmente la sua paterna attenzione; gli estremi
suoi consigli erano per la santificazione dei loro membri e per
la loro conservazione e feconda attività a bene delle anime.
Richiesto di un ricordo per le Figlie di Maria Ausiliatrice: -
Ubbidienza, rispose. Praticarla e farla praticare. E a Don
Bonetti, quando mancavano appena tre giorni alla fine: -
Ascolta. Dirai alle Suore che, se osserveranno le Regole, la
loro salvezza è assicurata. Il giorno avanti, con un filo di
voce e in tono incoraggiante, aveva detto a Mons. Cagliero: - La
Congregazione non ha nulla a temere. Ha uomini formati. Prendila
a cuore. Aiuta gli altri superiori in tutto quello che potrai.
Quella sera Don Sala, trovandolo un po' riposato, quasi per
fargli animo, gli disse: - Don Bosco, ora si troverà contento,
pensando che dopo una vita di tanti stenti e fatiche è riuscito
a fondare case in varie parti del mondo e a stabilire saldamente
la Congregazione Salesiana. Sì, rispose. Ciò che ho fatto,
l'ho fatto per il Signore. Si sarebbe potuto fare di più. Ma
faranno i miei figli. La nostra Congregazione è condotta da Dio
e protetta da Maria Ausiliatrice.
Non faccia meraviglia che si ponga qui un
cenno sulla divozione di Don Bosco verso il Vicario di Gesù
Cristo, manifestata sul letto di morte. Non pensava egli e non
insegnava essere il Sommo Pontefice l'anello che unisce gli
uomini a Dio? Gli rese una magnifica testimonianza Pio XI,
quando affermò di scienza propria che Don Bosco metteva al di
sopra di ogni gloria l'essere il fedele servitore come di Gesù
Cristo e della sua Chiesa, così del suo Vicario.
Orbene, durante la malattia, allorché fra
un dolore e l'altro poteva riaprire il cuore ai nobili
sentimenti che lo avevano animato nel corso di tutta la vita,
fece su tal proposito a Mons. Cagliero una rivelazione; disse
infatti che la cosa era stata tenuta fino a quel punto segreta.
E il geloso arcano consisteva in questo: - La Congregazione e i
Salesiani l’hanno per iscopo speciale di sostenere l'autorità
della Santa Sede, dovunque si trovino, dovunque lavorino.
Chi conosce i tempi che furono suoi, sa
comprendere facilmente tutto il perché dell'aver occultato agli
occhi del pubblico un simile articolo del suo programma di
azione. Ritornò sull'argomento in un'affettuosa visita fattagli
dal Card. Alimonda, Arcivescovo di Torino. Non accennò più a
voler rivelare un mistero, ma espresse un desiderio, e furono
solenni le sue parole: - Ho passato tempi difficili, Eminenza.
Ma l'autorità del Papa... l'autorità del Papa. L'ho detto qui
a Mons. Cagliero: i Salesiani sono per la difesa dell'autorità
del Papa, dovunque lavorino, dovunque si trovino. Si ricordi,
Eminenza, di dirlo al Santo Padre.
Il Cardinale due mesi dopo, nella solenne
commemorazione del defunto, narrato della visita e riferite
quelle parole, proseguiva: «In quelle parole il venerabile Uomo
mi apriva il suo testamento. Che dico aprire? L'intera sua vita
privata e pubblica è nota all'universo qual testamento papale».
E quando il successore di Don Bosco nella prima udienza
accordatagli da Leone XIII rievocò questi sentimenti del
lacrimato Estinto, il Papa esclamò: - Oh! si vede che Don Bosco
era un santo, simile in questo a S. Francesco d'Assisi che,
venuto a morire, raccomandò caldamente ai suoi religiosi di
essere sempre figli devoti e sostegno della Chiesa Romana e del
suo Capo. Praticate queste raccomandazioni del vostro Fondatore,
e il Signore non mancherà di benedirvi. Senza dubbio, chi si
accingerà a studiare la devozione di Don Bosco al Vicario di
Gesù Cristo, troverà abbondante materia per dimostrare che
tale devozione era fatta di venerazione profonda, di amore
cordiale e di obbedienza assoluta.
Ci rimane a dire della pietà, resa
manifesta e insieme alimentata, come sempre, dalla preghiera,
dalle due principali divozioni del Santo e dai Sacramenti: «Pregava
quasi continuamente», attesta il solito coadiutore nei
processi. «Continuamente pareva assorto in Dio», rincalza a
sua volta il segretario. «Lo dicevano, soggiunge, il suo
contegno umile e divoto, i suoi sguardi ardenti al Crocifisso, i
baci all'abitino e alle medaglie della Madonna, le giaculatorie
che numerose e frequenti gl'infioravano il labbro». L'abitino
era quello del Carmine, indossatogli per suo desiderio durante
la malattia dal Salesiano che aveva la facoltà d'imporlo.
Quanto al Crocifisso, oltre a quello che portava ordinariamente
al collo, negli ultimi giorni ne aveva con viva compiacenza
ricevuto uno, baciando il quale poteva acquistare ogni volta
indulgenza plenaria. A chi, vedendolo penare più del solito,
gli aveva suggerito di pensare per confortarsi ai patimenti di
Gesù, rispose: - È quello che faccio sempre.
Nonostante i mali che lo travagliavano,
voleva che il segretario dicesse ogni mattina con lui le
preghiere, gli leggesse la meditazione e gli facesse altre pie
letture. Tutte le mattine, fino alla festa di S. Francesco di
Sales, assistette divotamente alla santa Messa, appoggiato sui
guanciali; la celebrava il medesimo segretario nella cappella
attigua alla sua stanzetta. In gennaio, provando uno smarrimento
di testa, disse: - Mi sembra di pregare sempre; ma non lo so di
certo. Aiutatemi voi.
Non solo pregava, ma faceva pregare. Da
principio disse ai Superiori che pregassero tutti per lui e
invitassero tutti i Salesiani a pregare, affinché potesse
morire in grazia di Dio, giacché non desiderava altro. Nel
pomeriggio del 24 gennaio, stando malissimo, mandò a chiamare
il giovane sagrestano Palestrino, del quale aveva molta stima, e
gli fece dire che rimanesse a pregare Gesù e Maria per tutto il
tempo libero, affinché, mentre aspettava l'ora sua, potesse
avere viva fede. Dopo, il giovane venne introdotto presso di lui
che gli ripeté la stessa cosa tutto commosso, e poi lo
benedisse. Verso sera, contrariamente a ciò che succede
negl'infermi, si sentiva più sollevato, il che come disse a Don
Lemoyne, era in grazia delle preghiere di quel buon giovane. In
seguito, crescendogli la difficoltà di parlare, si raccomandò
agli astanti che gli suggerissero giaculatorie divote.
Quante novelle prove diede della sua
costante e fervida divozione a Maria Santissima ed a Gesù
Sacramentato! Godeva di ricevere spesso la benedizione di Maria
Ausiliatrice secondo una formula approvata dalla Congregazione
dei Riti. Teneva abitualmente in mano la corona del rosario. Una
volta, baciando la medaglia, esclamò: - Ho sempre avuto grande
fiducia nella Madonna. Ma anche senza che lo dicesse, chiunque
avesse osservato come ne baciava l'effigie, avrebbe pensato di
lui la medesima cosa.
Sul finire del dicembre disse a parecchi
Superiori: - Raccomando ai Salesiani la divozione a Maria
Ausiliatrice e la frequente comunione. Parve a Don Rua che
questa potesse essere la strenna da mandare alle Case per il
nuovo anno, e gliene fece parola. Questo sia per tutta la vita,
- gli rispose. Poi annuì al desiderio espressogli. Poco dopo,
rivolto a Mons. Cagliero, gli disse: - Propagate la divozione a
Maria Santissima nella Terra del Fuoco. Se sapeste quante anime
Maria Ausiliatrice vuol guadagnare al cielo per mezzo dei
Salesiani! E ancora un'altra volta al medesimo: - Quelli che
desiderano grazie da Maria Ausiliatrice, aiutino le nostre
Missioni e saranno sicuri di ottenerle.
Ai primi di gennaio, quando tutti
trepidavano per timore dell'imminente catastrofe ,ecco un
improvviso progressivo miglioramento. Ci videro tutti una grazia
particolare per le tante preghiere che si facevano in ogni
parte. La sera del 7 dettò per Don Lemoyne al segretario un
messaggio, che diceva: «Come si può spiegare che una persona,
dopo ventun giorni di letto, quasi senza mangiare, con la mente
indebolita all'estremo, ad un tratto sia ritornata in sé,
percepisca ogni cosa e si senta in forze e quasi capace di
alzarsi, scrivere, lavorare? Sì, mi sento sano in questi
momenti, come se non fossi mai stato ammalato. A chi domandasse
il come, gli si può rispondere così: Quod Deus imperio, tu
prece, Virgo, potes». È indescrivibile la gioia che invase
l'Oratorio a si inaspettata buona novella. Nei punti della casa
più frequentati si leggeva, su cartelli appesi ai muri, il
verso latino, che esaltava l'onnipotenza supplicante di Maria.
Durante la vita aveva pregato chi sa quante
volte la Madonna, affinché lo aiutasse a salvare i suoi giovani
e a ben dirigere la Congregazione. Il ricordo di tante
invocazioni, in momenti di assopimento, gli suscitava dentro la
rappresentazione di scene quali aveva vedute spesso, nelle quali
gli era stato spontaneo e fervido il ricorso a Maria.
Un giorno, scossosi a un tratto, battè le
mani gridando: - Presto, presto a salvare quei giovani! Maria
Santissima, aiutateli! Madre, Madre! Un altro giorno fu udito
nel dormiveglia esclamare: - Ecco, sono imbrogliati! Su,
coraggio! avanti! sempre avanti! Madre! Madre! E ripetè una
ventina di volte questa tenera invocazione. Un po' più tardi,
essendo pienamente in sé, giunse le mani e con ardore replicò
tre volte: - Oh Maria! oh Maria! oh Maria! Quel chiamare la
Madonna con sentimento così filiale fu cosa molto frequente
sull'ultimo, finché gli durò con la conoscenza la favella.
Il suo serafico ardore per Gesù
Sacramentato gli traspariva dal volto nel ricevere la santa
Eucaristia. Ogni mattina, tranne le poche volte che non era
potuto restar digiuno, faceva la comunione, alla quale non gli
sembrava mai di essere abbastanza preparato; giacché quasi
tutti i giorni, visitato dal suo confessore si voleva
riconciliare. Si comunicò fino al 29 gennaio, festa di S.
Francesco di Sales. Quella mattina alcuni pensavano che non si
dovesse comunicarlo, perché sembrava fuori dei sensi; ma
prevalse l'opinione contraria. Si ritenne che al momento giusto
si sarebbe riavuto. E fu così. Avvisato che presto sarebbe
venuto il Signore, non si mosse. Ma appena il celebrante gli si
accostò con l'ostia santa e disse ad alta voce il Corpus Domini
nostri Jesu Christi, l'infermo si scosse, aprì gli occhi, fissò
l'ostia, giunse le mani e, ricevuto il Signore, stette raccolto,
ripetendo parole di ringraziamento suggeritegli dal Superiore
che lo assisteva.
Questa fu l'ultima sua comunione; ma non
aveva aspettato tanto a domandare il Viatico. Da tre giorni
appena rimaneva a letto, quando disse al segretario: - Fa' che
tutto sia pronto per il santo Viatico. Siamo cristiani, e si fa
volentieri a Dio l'offerta della propria vita. Il tono parve così
risoluto, che nessuno dei Superiori ardì assumersi la
responsabilità di differire; perciò fu deciso per l'indomani,
vigilia di Natale. Quando tutto era pronto, venne avvertito.
Allora, come tutto preoccupato, disse ai presenti: - Aiutatemi,
aiutatemi voialtri a ricevere Gesù. Io sono confuso. In manus
tuas, Domine, commendo spiritum meum.
La processione, formata da tutto il piccolo
clero e da quanti sacerdoti e chierici poterono prendervi parte,
si avvicinava. Udendo i canti, Don Bosco s'intenerì; ma al
veder comparire il Santissimo recato da Mons. Cagliero, ruppe in
pianto. Rivestito della stola, «sembrava un angelo», nota qui
il diario. Monsignore, parlandone nei processi, disse che gli
era parso di vedere il S. Girolamo del Domenichino.
Nemmeno per l'Olio Santo aveva voluto
indugi. Alle sue insistenze Monsignore glielo amministrò la
sera stessa del Viatico. Prima l'infermo aveva espresso il
desiderio che si chiedesse per lui la benedizione del Papa, e la
cosa fu eseguita con la massima prontezza. Ricevuto il
sacramento, non parlava più che di eternità e di argomenti
spirituali.
Incantava tutti la serenità, che
abitualmente gli traspariva dall'aspetto, dallo sguardo e
dall'accento. Tale serenità egli mantenne fino all'estremo;
anzi gli rimaneva impressa nel volto anche dopo aver perduta
oramai ogni percezione del mondo esteriore. Non so trattenermi
dall'aggiungere, che, vedutolo l'ultima sera, mi sembra ancora
di aver dinanzi agli occhi quella soave immagine. Appoggiato sui
guanciali, presentava le fattezze del viso così delicatamente
composte da non produrre l'impressione che si trovasse nello
stato preagonico. Non si sarebbe mai cessato di rimirarlo. Anche
dopo la morte, la vista del suo volto esanime infondeva un senso
di dolce quiete, che faceva esclamare: Quanto è bella agli
occhi di Dio e degli uomini la morte dei santi!
Ho accennato alla visita fatta all'infermo
dal grande Cardinale Alimonda. Per lui, come disse poi nella
commemorazione, «fu un veemente affetto, una legge il visitarlo».
Stupì nel vederlo così tranquillo di spirito e così pieno del
pensiero di Dio; onde nell'uscire si volse a Mons. Cagliero che
lo accompagnava e gli disse: - Don Bosco è sempre con Dio, è
l'unione intima con Dio. I segni di questo divino contatto
abituale, neppure l'avvicinarsi della morte, anzi neppure la
morte stessa, potè farglieli scomparire.
CAPO XX. - Gemma sacerdotum.
L'autore danese d'una vita di Don Bosco,
studiando il Santo, ne riportò un'impressione, che tutti i
biografi anteriori non potevano non provare, ma che egli solo
espresse in modo geniale. Scrive: «Don Bosco è uno degli
uomini più completi e più assoluti che abbia conosciuto la
terra. Nella maggior parte delle creature che la Chiesa coronò
con l'aureola dei Santi, c'è sempre alcunché di umano, e certe
volte, come in Sant'Ambrogio, perfino di troppo umano. Nella
vita di Don Bosco niente o quasi niente di tutto ciò. In lui
tutto è luce, senza ombre, il che, da un punto di vista
artistico, costituisce una difficoltà. Tutto il quadro infatti
dev'essere eseguito in bianco: bianco su bianco, luce su luce. I
giusti, dice il Vangelo, splenderanno come il sole. E
chi può dipingere il sole?» Ebbene, su questo fondo di candida
innocenza Don Bosco venne erigendo l'edificio della sua santità
sacerdotale.
Questo è il carattere della santità di
Don Bosco; perché, anche prima di essere sacerdote, anelava a
diventarlo e siffatta aspirazione diede, si può dire, il tono a
tutta la sua vita, dai cinque ai ventisei anni. Quando il
pensiero di farsi prete si sia affacciato alla sua mente, è
difficile determinarlo: sembra quasi nato con lui, e lo manifestò
non appena le circostanze gli permisero di percepire chi fossero
e che cosa facessero i preti. Da quel momento l'ideale del
sacerdozio s'impadronì talmente di lui, che impresse alla sua
condotta una sacerdotale direttiva.
Lasciamo stare il mimetismo delle cerimonie
liturgiche, fenomeno non infrequente nei fanciulli di famiglie
cristiane; parlo invece di quell'apostolato, che prese ad
esercitare fin da piccino nelle forme proprie dello zelo
sacerdotale. Son cose note. Allorché poi divenne chierico, mise
ogni cura a spogliarsi di ogni abitudine che avesse pur solo
qualche parvenza di mondanità, rinunciando a sonare il violino,
suo strumento prediletto, ad andare a caccia e perfino a leggere
i classici profani e dedicandosi tutto a studi sacri, a
insegnare il catechismo, alle funzioni del culto, così che,
accostandosi a ricevere il presbiterato, vi portava un'anima già
da lunga data sacerdotale, che dopo l'imposizione delle mani e
la grazia del sacramento vibrò ancor più di prima per
quaecumque sunt vera, quaecumque pudica, quaecumque iusta,
quaecumque sancta, quaecumque amabilia, è detto con parole
dell'Apostolo nella Messa in suo onore. Don Bosco volle dunque
essere e fu essenzialmente sacerdote nell'esempio e nella
parola, nell'azione e nella preghiera.
L'esemplarità sacerdotale di Don Bosco non
va ricercata qui nella pratica delle virtù: la canonizzazione
ci assicura fuor d'ogni dubbio, che le esercitò egli in grado
eroico. Ora ci contenteremo di mettere in rilievo quanto egli
fosse esemplare nel concetto che aveva della dignità
sacerdotale. Lo fece sentire in una forma, direi, unica nel
1866. Quando il Governo della nuova Italia stava ancora a
Firenze, il Presidente del Consiglio lo pregò di accettare le
parti d'intermediario officioso presso Pio IX per la soluzione
di spinosi affari. Il Santo, nella speranza di render un gran
servizio alla Chiesa, aderì all'invito; ma, nell'atto di
presentarsi al Ministro, sapendo con chi aveva da trattare,
prima di entrare in materia, non temette di fargli questa
dichiarazione perentoria: - Eccellenza, sappia che Don Bosco è
prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo a' suoi
giovani; e come è prete in Torino, così è prete a Firenze,
prete nella casa del povero, prete nel palazzo del Re e dei
Ministri.
Par di vederlo e di sentirlo! Era suo
costume parlare adagio, con dolce gravità, dando peso a ogni
parola; così dovette aver parlato quella volta. Noi immaginiamo
facilmente la sorpresa del Ministro, che tuttavia si affrettò a
dargli le più ampie assicurazioni. Se invece avesse fatto lo
scandalizzato, Don Bosco avrebbe con tutta semplicità e
franchezza risposto a lui, come già ad altri: - Le par nuovo il
mio linguaggio, perché Ella non ha mai avuto occasione di
parlare con un prete cattolico.
Il prete, secondo un assioma ripetuto
spesso da Don Bosco, è sempre prete, e tale deve manifestarsi
in ogni istante. Sei anni dopo l'ordinazione sacerdotale, fra i
ricordi degli esercizi spirituali, si era trascritto il detto di
S. Giovanni Crisostomo: «Il sacerdote è soldato di Cristo». E
per l'appunto, il soldato è sempre soldato, sempre cioè in
attività di servizio.
L'alto concetto che Don Bosco aveva del
sacerdozio, traluce pure da altre sue manifestazioni. Egli,
sempre così umile, gradiva i segni d'onore, che riceveva da
tante parti, anche da intere popolazioni durante i suoi viaggi.
Perché? Lo diceva: perché tali dimostrazioni riteneva rivolte
non alla sua persona, ma al carattere sacerdotale e quindi alla
Chiesa e alla fede.
Un giorno, ospite di una nobile famiglia
torinese, sentendosi fare grandi elogi, lasciò dire e poi
rispose: - Sono ben contento che si abbia tanta stima del
carattere sacerdotale; per quanto si dica bene del sacerdote,
ossia della sua dignità e del corredo di virtù, delle quali
deve essere fornito, non si dirà mai abbastanza. Un'altra volta
diede libero sfogo al suo sentimento in una forma improvvisa e
vivace. Entrando in un istituto femminile con un prete suo
amico, dopo aver mormorato fra sé e sé la preghiera: Fac,
Domine, ut servem cor et corpus meum immaculatum Ubi, ut non
confundar, disse al compagno: - Vedi, mio caro, un sacerdote
fedele alla sua vocazione è un angelo, e chi non è tale, che
cosa è? Diventa un oggetto di compassione e spregio per tutti.
Per questo, è naturale che onorasse negli altri il carattere
sacerdotale; infatti con i sacerdoti abbondava in segni di stima
e di rispetto e, venendo a sapere di chi non rispettasse il suo
carattere, se ne affliggeva fino alle lacrime e avrebbe voluto
nascondere colui agli occhi di tutti. Con quanta carità si
adoperava a riabilitare i disgraziati raccomandatigli dai
Vescovi! Di questo riparleremo.
È a deplorare che non si abbiano intere le
sue prediche ai sacerdoti in esercizi spirituali. Argomentando
dai magri riassunti rimastici, se ne indovina l'efficacia, perché
doveva parlare ex abundantia cordis. Quanto sono contento di
essere sacerdote! esclamò una volta, discorrendo con un prete.
Lo disse, perché umilmente pensava che solo l'essere stato
sacerdote l'avesse in tempi difficili preservato dalle vertigini
di certe teste riscaldate; ma l'essere sacerdote formò in ogni
tempo la sua più intima soddisfazione, com'era il suo maggior
titolo d'onore, che non omise mai di premettere al proprio nome
nei libri e nelle lettere, cosa allora affatto fuori d'uso.
Chi poi più sacerdote di lui nel parlare?
Possiamo ritenere con morale certezza, che Don Bosco non dovette
render conto a Dio di alcuna parola oziosa. Di Don Bosco
predicatore abbiamo detto abbastanza nel capo dodicesimo; di
altre sue manifestazioni verbali si occupano specialmente i capi
tredicesimo e sedicesimo. Ma l'amore sacerdotale delle anime,
che animava la sua parola in pulpito o in camera o in cortile,
non lo abbandonava neppure altrove.
In casa e fuori di casa, o trattasse di
affari o partecipasse a liete conversazioni, gli astanti
sentivano sempre la presenza del sacerdote, abituato al pensiero
di Dio e dell'eternità, perché a tempo e luogo sapeva essere
sale e luce. Lo comprese a meraviglia in Francia quel Marchese,
che dinanzi a un eletto circolo di persone aristocratiche non
potè trattenersi dall'esclamare: Don Bosco, prèche toujours. E
ben comprendevano il valore delle sue parole quei giovani
chierici e preti dell'Oratorio che non solo ne facevano tesoro,
ma le consegnavano fedelmente ai loro quaderni, alcuni dei quali
sono giunti fino a noi.
Della sua azione sacerdotale ho pure già
detto molto; tuttavia qualche altra osservazione non sarà di
troppo. Ce ne porge il filo la dichiarazione riferita in
principio. «Prete all'altare». L'abbiamo visto: celebrava come
un Serafino. «Prete in confessionale». Sentiva di essere
sacerdote soprattutto per rigenerare anime alla grazia; che cosa
operasse in lui questo sentimento, lo dicono abbastanza le poche
pagine del capo decimo. «Prete in mezzo a' suoi giovani».
Amava tanto i suoi giovani! «Basta che siate giovani, perché
io vi ami», confessa loro nella prefazione al Giovane
Provveduto. Li amava
da prete. «Difficilmente potreste trovare, soggiunge ivi
stesso, chi più di me vi ami in Gesù Cristo». E lo dimostrava
da prete, non perdonando a fatiche, pene e sacrifici d'ogni
genere e d'ogni momento per il bene delle loro anime. Li
trattava poi da prete.
Fu massima costantemente da lui predicata e
praticata di far in modo che non mai un fanciullo parta
malcontento da noi. Parlava loro da prete. La salvezza
dell'anima: ecco la sostanza de' suoi discorsi ai giovani in
pubblico e in privato. Questa la prima parola nel ricevere un
alunno, questa l'ultima nel congedarlo, questa sempre
incontrandolo uomo fatto.
«Prete a Firenze come a Torino». Ossia in
ogni circostanza, dovunque.
Durante i suoi viaggi in Italia, in Francia
e nella Spagna l'ammirazione generale per il taumaturgo non
sopprimeva la venerazione per il sacerdote santo, quale appariva
agli occhi di tutti coloro che lo avvicinavano; onde un
accorrere ad ascoltarne la Messa, a udirne la parola, ad
aprirgli la coscienza. Di ritorno da Parigi nel 1883 disse
d'avervi dovuto risolvere buon numero di casi, ognuno dei quali
avrebbe meritato che facesse quel viaggio.
«Prete coi poveri». Al par di Gesù
predilesse i poverelli e tra i figli dei popolo cercava, al par
di Lui, i suoi discepoli. E poi chi non sa, che dire Don Bosco,
è dire gioventù povera? Narrando come nessun bisognoso
ricorresse a lui senz'averne qualche soccorso, il biografo
conchiude con una luminosa espressione: «Così povero, Don
Bosco era generoso come un re». Il Messia fra i caratteri
distintivi della sua missione indicò il pauperes evangelizantur
d'Isaia; il prete
tanto più è prete, quanto più ritrae del divino modello
nell'evangelizzare pauperibus.
«Prete con i grandi». Così riassumo la
frase che viene dopo i poveri nella dichiarazione fiorentina per
potervi includere, con quel ch'egli espresse anche quello che
certamente intese. Non tutto era là da specificare. Ma tra i
poveri e i re, non ci stanno solo i ministri; c'è posto anche
per altre categorie di persone, come di quelle facoltose e delle
istruite. Don Bosco ebbe frequentissimi contatti con uomini
ricchi di avere o di sapere. Alle porte dei doviziosi picchiò,
picchiò senza tregua. Ricevette in copia. Profonda la sua
gratitudine, ma da prete, ossia ignara di ciò che fosse
servilismo. Egli infatti moveva da questo principio: - Noi
facciamo pure ai ricchi una grande carità, aiutandoli a
osservare il precetto divino del quod superest, date
eleemosynam.
A ricchi schiavi delle ricchezze faceva
egli stesso preziose limosine spirituali. Perfino un israelita
danaroso, che aveva desiderio di conoscerlo e n'era stato
appagato, uscì dall'Oratorio dicendo che, se in ogni città vi
fosse un Don Bosco, tutto il mondo si sarebbe convertito. Un
altro israelita dovizioso e per giunta rabbino diceva di essere
stato due volte a trovare Don Bosco, ma che non vi sarebbe più
tornato una terza, perché si sarebbe sentito costretto a stare
con lui. Da simili espressioni è facile arguire che entrambi
videro di Don Bosco non soltanto l'abito, ma anche l'animo
sacerdotale.
Se con i ricchi non piaggiava, con i dotti
non si metteva in soggezione. Possedeva anche lui la sua
scienza, quella che la Scrittura dice dover essere deposito
sacro dei ministri di Dio, e la dispensava volentibus et
nolentibus. Nell’84,
un avvocato straniero di grande rinomanza, ricercato difensore
dei diritti ecclesiastici, dopo aver ragionato col Salmo della
propria attività in favore della Chiesa, si sentì rivolgere a
bruciapelo questa domanda: - E lei, signore, questa religione
che tanto onoratamente sostiene, la pratica anche? - L'altro,
sconcertato, tentava di cambiar discorso; ma Don Bosco,
tenendone la mano stretta fra le sue, a insistere: - Non si
divincoli, risponda: questa religione che pubblicamente difende
così bene, la pratica pure? - Fu il colpo di grazia per
l'interlocutore, il quale era arrivato al punto da non credere
più nemmeno alla confessione.
Accomiatandosi da una nobile famiglia dopo
la mensa, Don Bosco aveva detta a ognuno la sua buona parola,
salvo che a un generale, ospite al par di lui. Uomo istruito, ma
indifferente nelle cose di fede, il vecchio soldato gli chiese
anche per sé qualche parola da serbare come ricordo del felice
incontro. Preghi per me, signor generale, fece il servo di Dio,
preghi, perché il povero Don Bosco si salvi l'anima. Scosso, il
generale replicò: - Io pregare per lei! Piuttosto suggerisca a
me qualche buon consiglio. Don Bosco, fermatosi un istante come
per raccogliere le idee, rispose con serena fermezza: - Signor
generale, pensi che ha ancora una gran battaglia da combattere;
se vince, sarà ben fortunato. Quella per la salvezza
dell'anima. I presenti si guardarono stupefatti; ma il generale
esclamò che solo Don Bosco gli poteva parlare così franco.
Ci commuove un suo colloquio con il
settantenne conte Cibrario, storico liberale di certa fama e
ministro di Stato. Il dialogo si chiuse intorno a queste parole
altamente sacerdotali: - Signor Conte, Ella sa che io le voglio
molto bene e nutro per lei grande stima. Se, come dice, la sua
vita non può più essere lunga, si ricordi che prima di morire
ha qualche partita da aggiustare con la santa Chiesa.
A Parigi, visitato da Paolo Bert, già
ministro della pubblica istruzione, portò il discorso sulla
vita eterna e adagio adagio lo indusse alla revisione immediata
d'un suo libro di morale per le scuole, sul quale si erano
versati poc'anzi fiumi d'inchiostro. A Parigi pure, come fu
drammatica la conversazione con Victor Hugo! Ne possediamo il
testo, redatto secondo il ragguaglio datone da Don Bosco e
ritoccato di suo pugno. Il celeberrimo romanziere, entrato con
tutt'altre idee, uscì pensieroso sul mistero dell'oltretomba.
Moltissimo Don Bosco ebbe da fare con
persone autorevoli. Rispettava la loro autorità, ma trattando
con esse non lasciava alla porta la sua sacerdotale autorità.
Lo sperimentò il ministro Urbano Rattazzi una volta che,
interrogatolo se fosse incorso nella scomunica con i suoi atti
di governo, ne ricevette dopo tre giorni la seguente risposta: -
Ho esaminato la questione, ho cercato, ho studiato per poterle
dire che no; ma non ci sono riuscito. Della risposta il fiero
liberale gli si professò riconoscente, dichiarandogli di
essersi rivolto a lui, perché ne conosceva la schiettezza.
Nel 1874 a Roma, uscendo dal gabinetto del
ministro degli interni, confidò a persona intima d'averne dette
di secche a sua eccellenza, e non senza frutto. A Lanzo Torinese
due anni dopo, inaugurandosi la ferrovia, fu scelto quel
collegio salesiano per il ricevimento delle autorità. Vi erano
tre ministri famosi con un seguito di senatori e deputati, tutti
liberaloni di sei cotte. Don Bosco vi si recò. Durante il
sollazzevole e non breve trattenimento, divenne a poco a poco il
re della conversazione; del che si valse per piegare con urbana
piacevolezza le chiacchiere di quei signori a riflessioni utili,
su cose di religione, che essi non udivano più da chi sa quanto
tempo.
Ma anche a teste coronate e scoronate Don
Bosco non aveva, anni addietro, risparmiate verità salutari.
Agli ex-reali di Napoli, esuli in Roma, ricordati i torti fatti
dai loro maggiori alla Chiesa, consigliò la rassegnazione,
perché i disegni della Provvidenza non erano quelli da essi
vagheggiati.
Prima ancora, la devozione e l'affetto a'
suoi Re Sabaudi non l'avevano trattenuto dal levar la voce per
ritrarre il Sovrano da mali passi. Effetto non vi fu purtroppo;
ma più tardi Vittorio Emanuele II mostrò di aver apprezzato la
sua franchezza sacerdotale, dicendo all'Arcivescovo di Genova,
già suo precettore a corte, che Don Bosco era veramente un
santo prete. Così Don Bosco obbediva, sì, all'ingiunzione
dell'Apostolo: Reddite omnibus debita... cui honorem, honorem,
quindi non mai una parola irriverente, e voleva ne' suoi il
rispetto alle autorità costituite; ma per quanto corressero
critici i tempi, tenne sempre alto il suo decoro di sacerdote.
Don Bosco, se fu prete con tutti, lo fu
anche con superiori e confratelli nell'ordine sacerdotale. Fu
prete col Papa. La sua condotta verso il Vicario di Gesù Cristo
non poteva essere più rettilinea. Se n'era tracciato il
programma così: - Tutto col Papa, per il Papa, amando il Papa.
Da questa premessa i corollari venivano senza sforzo. Eccone uno
per i giovani: - Quando vedete che un autore scrive poco bene
del Papa, sappiate che il suo non è un libro da leggere. Eccone
un altro per certuni che lo interrogavano sulle violente
annessioni di province romane: - Come cittadino, sono pronto a
difendere la patria anche con la mia vita; ma, come cristiano e
come sacerdote, non potrò mai approvare queste cose.
Un suo perfetto conoscitore, il Vescovo
Manacorda di Fossano, attesta nell'elogio funebre: «Nessuno,
fra quanti l'avvicinavano, udì parola da lui che non fosse
improntata alla docilità d'innocente fanciullo» verso il Papa.
Abbiamo udito le sue dichiarazioni sul letto di morte.
Prete con i Vescovi. Venerava in essi e
faceva venerare la pienezza del sacerdozio. Prove sublimi della
sua coraggiosa devozione ai Pastori della Chiesa si ebbero verso
i gloriosi perseguitati politici: l'Arcivescovo Fransoni di
Torino durante la prigionia e l'esilio; il Vescovo di Fermo
Card. De Angelis e il Vescovo Rota di Guastalla, condannati a
domicilio coatto in Torino. Ospitare un Vescovo nell’Oratorio
stimava Don Bosco gran fortuna. Ne annunciava la venuta, Io
attendeva alla porta, lo presentava ai giovani, lo circondava di
mille attenzioni. Nel decreto sull'eroicità delle virtù fa
capolino un'allusione alle difficoltà corse fra Don Bosco e
l'Arcivescovo Gastaldi: la storia dice fino a qual segno in
circostanze inverosimili Don Bosco siasi mostrato prete con il
suo Vescovo.
Prete con i preti. Il carattere
sacerdotale, rispettato nella propria persona, gli era oggetto
di riverenza negli altri. Quanta cordialità trovavano sempre
nell'Oratorio i sacerdoti! Ma intanto Don Bosco non si scordava
mai di essere prete anche con loro, non perdendone di vista le
anime. Gli fiorivano sulle labbra secondo i casi ora l'una ora
l'altra di alcune sue massime: - Il prete deve attendere alla
salvezza delle anime, ma prima d'ogni altra deve pensare a
salvar la propria. Un prete non va mai solo né in paradiso né
all'inferno. Salve; salvando salvati.
Che deferenza nelle sue relazioni con
parroci! Ma che schianto all'udire di preti, che disonoravano il
loro carattere! Non si perdeva per altro in sterili
deplorazioni. Con rispettosa carità, ora di propria iniziativa
ora per raccomandazioni di Vescovi, s'industriava a
riabilitarli, esortandoli, tenendo con essi lunghe conferenze,
porgendo soccorsi pecuniari, accogliendoli presso di sé per un
dato tempo. Dava poi santamente la caccia a preti e a ex-preti
politicanti e antipapali nell'unico intento di trarli a
ravvedersi. Il celebre ex-gesuita e gran teologo Passaglia, il
quale pur laicizzato, disse che Don Bosco possedeva tutti i
carismi dello Spirito Santo, evitava d'incontrarlo per timore di
essere da lui vinto. Sperò anche di guadagnare il famoso
ex-canonico Gioberti. Gli fece visita col teologo Borel, ne
scandagliò l'anima, entrò nell'argomento scottante; ma il
caritatevole e sacerdotale tentativo naufragò contro l'orgoglio
dell'uomo. Ma ricondusse un bel numero di preti traviati
all'onore sacerdotale. Del suo zelo per fare dei preti abbiamo
già parlato.
Appartiene all'azione sacerdotale anche la
sua feconda attività di scrittore: è l'argomento del capo
dodicesimo. Pongo ancora qui un suo canone letterario, che ci fa
toccar con mano, quanto delicata fosse la coscienza sacerdotale
di lui come scrittore. Ragionando con Salesiani della sua Storia
ecclesiastica, : - Io non scrivo per i dotti, ma per il popolo e
per i giovanetti. Se, narrando un fatto poco "onorevole e
controverso, turbassi la fede di un'anima semplice, non sarebbe
un indurla nell'errore? Se espongo a una mente rozza il difetto
di un membro d'una Congregazione, non le ingenero dubbi verso
l'intera comunità? E questo non è errore? Solo chi consideri
tutta la storia di duemila anni, può vedere che le colpe anche
di uomini eminentissimi non offuscano affatto la santità della
Chiesa, ma sono una prova della sua divinità. Le sinistre
impressioni ricevute in tenera età da parole imprudenti portano
sovente lacrimevoli conseguenze per la fede e per il buon
costume.
Fra' Angelico diceva che chi fa le cose di
Cristo, deve stare sempre con Cristo. Ottimo canone di arte
religiosa senza dubbio; ma sarà tanto più legge fondamentale
di sacerdotale ministero questa, che, chi intende a formare
Cristo stesso nelle anime, viva abitualmente di Cristo. Don
Bosco sarebbe davvero un forte enigma, se noi potessimo anche
solo dubitare che la sua portentosa efficacia nel ministero
sacerdotale egli la derivasse da altra fonte che non sia la
intensa vita di unione con Gesù Cristo, del quale volle essere
e fu in ogni tempo solo fedele ministro.
Vi fu bene chi, impressionato dal gran
lavoro che Don Bosco andava continuamente facendo, si domandò
dinanzi a Pio XI quando egli potesse trovare il modo di
raccogliersi con Dio in preghiera; ma il Papa, che conosceva
bene Don Bosco, argutamente rispose che bisognava piuttosto
cercare non quando pregasse, bensì quando non pregasse. Se si
volle dire che egli non dedicava lungo tempo, come fecero altri
Santi, alla meditazione, questo è vero; ma è anche vero che
santa Teresa ammonisce: «Credete a me, non il lungo tempo dato
alla preghiera fa progredire l'anima; se anche impiega parecchie
ore in opere buone per carità o per obbedienza, il suo amore
s'infiamma più rapidamente in pochi minuti, che non dopo lunghe
ore di meditazione. Tutto deve venire dalla mano di Dio».
Qui dunque verrebbe la quarta cosa da
trattare, la preghiera; ma se n'è già detto tanto in questo
volume! Tuttavia desidero insistere sulla singolarità più
volte ricordata del suo pregare. Questa però non era così sua,
che non entrasse già nella dottrina e nella pratica antica. È,
per esempio, pensiero di S. Gregorio Magno, che la
contemplazione debba andare strettamente unita all'amore attivo;
su di che ha alcune pagine assai profonde. Un periodo solo fa
proprio per noi, là dove dice: «La nostra carità dev'essere
infiammata dall'amor di Dio e del prossimo, in modo che per la
quiete della contemplazione e dell'amor di Dio la nostra mente
non lasci la carità del prossimo, e in seguito non voglia tanto
occuparsi nei servizi del prossimo da lasciar spegnere in sé la
fiamma di quell'eterno amore». Così appunto visse Don Bosco:
fu in lui fervida azione non disgiunta da intensa
contemplazione.
Perciò attuava ottimamente in sé lo stato
descritto da san Bernardo, quando inculca che la contemplazione
formi quella raccolta di idee, di amore e di energia, che per
sovrabbondanza si riversi nell'azione. Tutto ciò concorda con
il giudizio di un vivente scrittore d'ascetica, il quale scorge
in Don Bosco «una perfetta unificazione dell'orazione e della
contemplazione», tanto che egli può dirsi «un contemplativo
operante».
Il pensiero della santità sacerdotale di
Don Bosco dominava la mente di Pio XI, allorché, parlando a un
numeroso stuolo di seminaristi, cominciò dicendo: «Si è
chiuso l'Anno Santo con la figura di un grande sacerdote, che
ebbe la vera e fattiva coscienza di essere lo strumento della
Redenzione, specialmente nei riguardi della gioventù così
insidiata, così pericolante, così bisognosa». Svolgeva quindi
il suo concetto spiegando come il nuovo Santo dovesse venir
proposto a modello di futuri sacerdoti, quali erano coloro che
lo ascoltavano. Pertanto Don Bosco resta e resterà il modello
dei sacerdoti, che consumano quotidianamente le loro forze in
promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime; poiché
egli è veramente gemma sacerdotum, come la Chiesa chiama nel
divino Ufficio san Martino di Tours.
Se Don Bosco fu la perla dei sacerdoti,
questo non vuol dire che soltanto ai sacerdoti sia da proporre a
modello. Il "Papa di Don Bosco" in numerose udienze
pubbliche dopo la beatificazione e dopo la canonizzazione,
rivolgendo la parola e distribuendo la medaglia del nuovo Beato
o del nuovo Santo alle più disparate qualità di persone,
trovava sempre in lui qualche opportuno lato speciale da
presentare alla loro imitazione. E ciò faceva senza sforzi
dialettici, ma con osservazioni evidenti e naturali e,
soprattutto, fondate nella realtà.
Dopo aver lette le relazioni di quelle
udienze, vien quasi da pensare che la santità di Don Bosco sia
stata, per dir così, una santità enciclopedica, cioè di
carattere universale. Lo dimostrò infatti il mondiale
entusiasmo, che salutò la sua elevazione agli onori dell'altare
e lo dimostrano tuttora sia il suo culto diffuso fra tutte le
genti sia la sua divozione praticata presso ogni ceto di
persone.
Egli appare veramente il Santo di tutti.
Fine libro.