del Sac. EUGENIO CERIA
DON BOSCO CON DIO.
Presentazione.
A partire dalla morte di don Bosco, la preoccupazione
dominante dei suoi figli, e di tutti coloro che in qualche modo si sentono
chiamati a prolungarne nel tempo lo spirito, è stata quella di custodire
e sviluppare fedelmente, senza deformazioni ma anche senza arresti, il suo
carisma. Questo prezioso compito ha dato origine ad una massa di scritti a
dir poco imponente: si parla di oltre mille biografie del santo, con più
di trentamila pubblicazioni divise tra opere di documentazione, studi e
lavori di divulgazione.
Di questo abbondantissimo materiale, non tutto merita
di essere ricordato. Ma oramai la tradizione salesiana possiede i propri
classici: i libri che si impongono per rigore scientifico, o per finezza
di intendimento; i libri che non invecchiano, perché sanno illuminare e
scuotere le coscienze oggi quanto lo fecero al loro tempo. Il Don Bosco
con Dio don Eugenio Ceria ne rappresenta uno tra i migliori.
Passato attraverso due edizioni, una piuttosto breve,
e l'altra, definitiva - arricchita di cinque nuovi capitoli e ritoccata
nei dettagli - che risale al 1946, questo eccellente libretto ha
cominciato a prendere forma nella mente dell'autore in seguito alla
constatazione, molto significativa e tuttora attuale, della scarsa
attenzione prestata alla vita interiore del santo prima e dopo la sua
morte. «Rapiti dalla vista dei prodigi della sua multiforme attività»,
scrive seccamente don Ceria, «i contemporanei ne ammirarono i trionfi
senza quasi por mente che omnis gloria eius ab intus. Anche la generazione
venuta su dopo la sua morte ha guardato di preferenza alle opere di don
Bosco, studiandone le forme e gli sviluppi, senza darsi guari pensiero di
scrutarne a fondo il principio animatore, quello che ha costituito sempre
il gran segreto dei Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio».
Già allora, come adesso, bisognava mutare registro,
passando dai frutti visibili di un albero generalmente ammirato, ma troppo
poco scrutato, alle radici nascoste di tanta fecondità. Occorreva «sollevare
un lembo» del velo «di una vita che in apparenza si svolgeva come altre
consimili, ma che in realtà nascondeva tesori di grazie e di doni
soprannaturali».
Risorse di un autore.
Don Ceria lo ha fatto con grande determinazione ed
intelligenza, giocando su cinque diversi fattori di composizione.
Innanzitutto, si è avvalso della competenza
acquisita dalla relazione dei volumi delle Memorie Biografiche che portano
la sua firma. In secondo luogo, si è applicato ad un paziente lavoro di
rivisitazione delle fonti, orali e scritte, a sua disposizione, per «riandare
con affetto di figlio esempi ed insegnamenti del Padre», e fissarsi «su
ogni particolare che sembrasse degno di menzione circa la sua vita di
unione con Dio».
Nel far questo - e siamo al terzo fattore - ha messo
a frutto le possibilità che gli venivano dal trovarsi in un ambiente che
ancora viveva dei ricordi diretti di importanti collaboratori di don
Bosco. E vi ha aggiunto il filtro di discernimento e la chiave di lettura
assicurati da una buona conoscenza dei principi fondamentali della
teologia spirituale, nella prospettiva, per fare qualche nome, di un san
Tommaso d'Aquino o del gesuita A. Poulain.
Infine, si è largamente servito dei suggerimenti che
gli erano ispirati dalla propria finezza di intendimento spirituale.
Un piccolo saggio di teologia spirituale.
Ne è risultato un lavoro che si mostra esemplare,
pur nella modestia degli intenti, non solo dal punto di vista della
edificazione propriamente intesa, e cioè della capacità mistagogica di
illuminare la mente e muovere la volontà dei lettori, ma anche da quello
specificatamente scientifico della teologia spirituale, rigorosamente
compresa come teologia della esperienza cristiana.
Uno sguardo all'indice ci aiuta a provarlo. Ma si
impone una premessa. Grazie al proprio carattere di studio critico della
appropriazione soggettiva personale del messaggio oggettivo della fede (di
pertinenza della teologia dogmatica e morale), la teologia spirituale
coniuga il metodo induttivo storico, rivolto alla concreta vicenda di un
soggetto spirituale, con il metodo deduttivo sistematico, richiesto dalla
presenza di una forma autentica di vita cristiana. Fondandosi sulla
storia, essa suppone una biografia. Interpretandola in chiave di fede,
essa esige un accostamento teologico.
In tale prospettiva, non mancano autori - ad esempio
H.U. von Balthasar - che identificano la teologia spirituale con
l'agiografia teologica. Ebbene, i venti capitoli del saggio di don Ceria
si muovono interamente su questa linea, includendo, e componendo in unità,
tanto la biografia quanto la riflessione sistematica di indole teologica.
Il dato biografico si fa palese già nella
titolazione dei primi sette capitoli, dedicati alla vita di don Bosco
fanciullo, in famiglia ed a scuola; poi giovane, in seminario; e poi
prete, nel principio della sua missione, nella sua seconda tappa, nella
sede stabile, e nel periodo delle grandi fondazioni. E si allarga al
capitolo diciannovesimo, che ne considera il «placido tramonto». Il dato
sistematico, invece, si fa luce specialmente a partire dal capitolo
ottavo, con una sequenza di ritratti tesi ad illustrare dapprima la forza
del santo nelle prove della vita, e poi le sue caratteristiche di
confessore, predicatore, scrittore, uomo di fede, ed apostolo della carità,
ricco di doni ordinari e straordinari; sino alla sottolineatura della
connotazione profondamente sacerdotale della sua santità.
Fisionomia di un santo.
Dall'intreccio delle due componenti, condotto non
soltanto nella partizione segnalata, ma anche al suo interno, entro la
nervatura che attraversa la totalità del saggio, scaturisce una identità
spirituale stabilita con chiarezza sui tre assi portanti del rapporto con
Dio, del rapporto con il prossimo e del rapporto con se stesso.
Il punto cardine del volto spirituale di don Bosco è
ravvisato, senza esitazioni, nella verità di una intensissima incessante
unione con Dio, alla quale tutto fa capo. Tanto basta a giustificare il
titolo generale dell'opera.
Da questo fondamento deriva la ferma preminenza
concessa alla fede, sia sul versante del consenso esistenziale che su
quello dell'assenso intellettuale. Perfettamente consapevole della
assolutezza salvifica di Dio, don Bosco si rivela uomo che vive di fiducia
nel Signore e di affidamento alla sua iniziativa; che esprime questa sua
opzione in una forte devozione mariana; e che non lascia occasione di
incrementarla, in sé e negli altri, anche dal punto di vista dottrinale.
Animato dalla convinzione che Dio fa tutto facendo fare tutto, egli si
colloca agli antipodi della concezione riduttiva di stampo protestante che
ritiene sottratto a Dio quello che viene concesso all'uomo, e traduce la
completezza della sua concezione nella simultanea richiesta di una sentita
schietta umiltà e di un crocifiggente vincolo di incessante lavoro: la
prima come conseguenza del sapere che tutto dipende e proviene da Dio, ed
il secondo come accettazione del progetto di Dio di coinvolgere pienamente
l'uomo nella sua azione di salvezza.
Il piano del rapporto con Dio, rimanda, pertanto, al
piano del rapporto con gli uomini. La fede collaborante di don Bosco
diventa impegno incondizionato per la salvezza delle anime. Impegno che
don Ceria coglie soprattutto in tre ambiti: quello della opposizione
instancabile al potere del peccato, unica disgrazia radicale dell'uomo
perché male rivolto contro la sua verità più intima; quello della
coltivazione della amorevolezza, e cioè di un amore del prossimo non solo
reale ma anche percepibile ed attraente; e quello della alimentazione, nei
preti, di una vita pienamente sacerdotale, fatta di apprezzamento della
propria vocazione, di stima della dignità degli altri preti, di
sollecitudine nei loro confronti, e di crescita del senso della Chiesa e
del papa.
Condizione, ma assieme conseguenza, della retta
impostazione del rapporto fondamentale con Dio e di quello derivato col
prossimo viene ad essere il giusto inquadramento del rapporto con se
stessi. Per questo aspetto della vita concreta di don Bosco, don Ceria dà
risalto alla compresenza pasquale della morte (pazienza e mortificazione)
e della risurrezione (gioia interiore ed allegria esteriore), rilevando
l'eccezionale livello raggiunto dal santo in entrambe.
Il segreto di don Bosco: lo spirito di preghiera.
Rintracciate le linee portanti del ritratto
spirituale di don Bosco disegnato da don Ceria in queste pagine, ci pare
utile soffermarci un tantino più in dettaglio, per facilitarne la
lettura, sulla sequenza di idee che le danno sostanza.
Il punto di partenza si trova, come già sappiamo,
nell'instancabile spirito di preghiera di don Bosco. Don Ceria documenta
sia la sua realtà che la sua centralità.
A prova della sua realtà, egli adduce
l'atteggiamento del santo, abitualmente impregnato di Dio, la sua «facilità
a parlare di Dio con sentimento verace», la forza eccezionale da lui
dimostrata nei travagli della vita, il solido spirito di pietà presente
nei suoi discepoli, e la costante proiezione della sua azione educativa
sulla promozione della vita spirituale. Come risulta dalla testimonianza
dei contemporanei, scrive, «l'amore divino gli traspariva dal volto, da
tutta la persona e da tutte le parole che gli sgorgavano dal cuore». Era
sua massima «che il sacerdote non dovrebbe mai trattare con alcuno senza
lasciargli un buon pensiero». Sopportava ostacoli, inciampi e disgrazie
con tale forza che «quando appariva più gaio e più contento del solito,
i suoi collaboratori, edotti dall'esperienza, si sussurravano con pena
all'orecchio: oggi don Bosco deve essere in qualche imbarazzo ben serio,
giacché si mostra più lieto dell'ordinario». Abituò i suoi aiutanti a
pregare devotissimamente, a tal punto da sembrare «che non sapessero dire
quattro parole in pubblico o in privato senza farci entrare in qualche
modo la preghiera». Riteneva che senza l'elemento religioso «l'educazione
non solo era senza efficacia, ma non aveva nemmeno significato».
Per la conferma della centralità attribuita alla
preghiera, don Ceria cita le soluzioni conferite dal santo ai rapporti
preghiera ed azione e preghiera e studio, e ricorda il suo grande
apprezzamento per le pratiche di pietà.
Sul primo versante, constata che don Bosco non separò
preghiera ed azione, ma neppure mai le confuse. Tramite la preghiera di
ogni momento (giaculatorie, aspirazioni interiori, eccetera) trasformò
ogni attività in orazione; senza cadere nell'illusione di «supporre che
il prodigarsi a vantaggio del prossimo dispensi dall'obbligo di trattare
assiduamente ed interiormente con Dio».
Sul secondo versante, riferisce che don Bosco si
regolò sul principio che «per gli ecclesiastici lo studio è mezzo, non
fine a sé, e mezzo di second'ordine per fare del bene alle anime,
dovendosi mandare innanzi a tutto la santità della vita»; per cui «fu
lungi mille miglia dal subordinare all'amore del sapere lo spirito di
preghiera».
E rispetto alle pratiche di pietà, rammenta che egli
«si scrisse e prescrisse un regolamento di vita chiericale in sette
articoli», dei quali «il sesto era così concepito: oltre alle pratiche
ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco di
meditazione ed un poco di lettura spirituale».
Il rapporto con Dio.
Dall'incessante unione di don Bosco con Dio, don
Ceria fa derivare prima di tutto la sua grande fede, il si della volontà
a Dio, che genera la fiducia incrollabile e la stabile convinzione della
paternità onnipotente del Signore. Nessuna difficoltà o strettezza gli
toglieva la pace, dice, perché egli ragionava così: «di queste opere io
sono soltanto l'umile strumento, l'artefice è Dio. Spetta all'artefice, e
non allo strumento, provvedere i mezzi per proseguirle e condurle a buon
fine. Egli lo farà quando e come giudicherà meglio; a me tocca solo di
mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani».
Tuttavia «era sua massima che anche la Provvidenza
vuol essere aiutata dai nostri sforzi; onde, nel cominciamento delle sue
opere, prevedeva già sempre di doversi dare attorno. Non bisogna
aspettare l'aiuto della divina Provvidenza stando neghittosi, soleva dire.
Il Signore si muove in soccorso quando vede i nostri sforzi generosi per
amore suo».
Prova particolarmente evidente di questa concezione
squisitamente cattolica del rapporto dell'uomo con Dio, nella quale il
Deus solus numquam solus é l'azione di Dio si incarna perennemente nella
mediazione umana, fu l'intensa devozione nutrita da don Bosco nei
confronti della Madonna venerata col titolo di Ausiliatrice. Nella
preghiera di don Bosco, santo di una orazione che si trasforma
immediatamente in azione, sta sempre in primo piano la coscienza della
potenza operativa di Maria. «Don Bosco non è nulla, ripeterà egli fino
all'ultimo respiro: chi ha fatto tutto è la Madonna». Nella sua mente,
il ruolo della beata Vergine, lungi dal ridursi ad una funzione di sola
esemplarità, include anche la dimensione del sostegno operativo della
vita dei credenti: mai confuso con quello di Dio, o peggio messo in
alternativa con esso, e però fermamente riconosciuto, quale riflesso
della comunione della creatura col Creatore. Per lui l'Ausiliatrice fu la
rivelazione del potere di Dio di suscitare una vera capacità di salvezza
nelle sue creature.
Le conseguenze di una simile lettura di fede si fanno
particolarmente visibili nell'impulso dato dal santo alla pratica
congiunta dell'umiltà e del lavoro. È un fatto, spiega don Ceria, che
don Bosco morì letteralmente di lavoro. «La sua salda costituzione
fisica gli avrebbe permesso di vivere anche fin oltre i novant'anni;
invece si consumò in un improbo lavoro diurno e notturno». E volle che
il medesimo spirito di laboriosità si perpetuasse nella congregazione
salesiana; perché vi riconobbe la maniera richiesta da Dio di riprodurre
l'obbedienza di Gesù sino alla morte, e perché lo vide come prima e
fondamentale attuazione della ascesi cristiana e come risposta efficace da
dare alle contestazioni rivolte contro la vita religiosa. Egli però «temeva,
temeva assai, che l'efficacia ed il merito del lavoro andassero in fumo
per l'infiltrarsi della volontà propria» e della ricerca di sé. Perciò,
pur raccomandando di dire sempre ai salesiani che lavorassero con ardore,
subito aggiungeva, come ad evitare equivoci, che bisognava «adoperarsi
indefessamente a salvare anime».
Il rapporto con gli uomini.
Così, l'amore di Dio si legava con naturalezza
all'amore del prossimo, ed in esso si verificava il secondo grande esito
dell'intensa pratica di preghiera compiuta da don Bosco consiste
precisamente nell'amore dei fratelli, messo in evidenza dallo zelo per la
salvezza delle anime.
«Giovanni Bosco» scrive don Ceria «nutriva dentro
di sé una pietà fatta come il bene, del quale si dice che è per natura
diffusivum sui. Vedere una persona, e pensare subito a renderla buona o
migliore nel senso più strettamente cristiano della parola» era per lui
un tutt'uno. Questo perché l'ardente unione con Dio lo portava
logicamente a condividere l'amore di Dio per gli uomini: dei quali don
Bosco amò veramente tutto, il corpo e l'anima, la mente ed il cuore, i
valori naturali ed i doni di grazia, pur privilegiando sempre, grazie alla
lucidità che gli veniva dalla fede, ciò che è più importante, e cioè
la santità.
È il motivo per cui il santo non cessò di
interpretare il peccato come la massima disgrazia dell'uomo, e di opporsi
con ogni sforzo alla sua diffusione. «Contro il peccato», afferma don
Ceria, «don Bosco impegnò per tutta quanta la vita una guerra a fondo».
Nei suoi confronti ebbe reazioni fortissime, giudicate esagerate dallo
spirito del mondo, ma giustificate dal fatto che egli «ardeva del divino
amore, ed in ogni peccato sentiva l'offesa fatta a Dio»; giacché, quando
si amava veramente, nessuna offesa fatta all'amato pare piccola, e nessun
sacrificio compiuto per rimuoverla sembra eccessivo.
Don Bosco sapeva bene, peraltro, di essere chiamato
da Dio ad amare soprattutto i giovani; i quali «hanno bisogno, nel
periodo della loro formazione, di sperimentare i benefici effetti della
dolcezza sacerdotale». Questo lo indusse a non perdere mai di vista «tre
massime ispirategli dal suo cuore sacerdotale, e ricordate incessantemente
ai suoi, per cattivarsi l'affetto e la confidenza dei giovani: amare
quello che essi amano, e così ottenere che amino loro pure quello che
amiamo noi per loro bene; amarli in modo che conoscano di essere amati;
porre ogni studio affinché mai nessuno di essi parta da noi malcontento».
Così, scelse per metodo educativo «la bontà sapientemente e soavemente
adattata all'età giovanile», ed elevò «la paternità spirituale al più
alto grado».
Tutto ciò senza cadere in preclusioni o riduzionismi
di alcun genere. La sua predilezione per i giovani, aggiunge don Ceria,
non escluse ma anzi rese ancor più vivi altri interessi paralleli. Tra i
quali si fa luce quello mostrato nei confronti dei sacerdoti, a cui don
Bosco diede soddisfazione con uno straordinario programma di promozione
delle vocazioni ecclesiastiche, e con un intenso - quanto poco conosciuto
- impegno di sostentamento dei sacerdoti bisognosi materialmente e
spiritualmente, o comunque in difficoltà.
La sua sensibilità per quanto toccava la Chiesa, del
resto, era ben nota. Don Bosco non volle mai essere altro che un prete: e
del prete ebbe, fortissimo, il senso della Chiesa, la comprensione del
ministero del papa, e, per l'appunto, la stima della missione sacerdotale.
Il rapporto con se stesso.
Parlando delle tre massime adottate da don Bosco per
l'educazione dei giovani, don Ceria commenta: «Si fa presto ad enunciare
simili aforismi, più presto ancora ad applaudirli; attuarli, invece,
costa continui e non lievi sacrifici».
Le due dimensioni finora considerate rimandano ad una
terza: la vicinanza di don Bosco a Dio, e l'intenso amore del prossimo ad
essa conseguente, non si spiegano senza una profonda componente ascetica
di sacrificio, di distacco, di dimenticanza di sé, e di pazienza. Per
commentarla, don Ceria redige due dei capitoli più suggestivi e
commoventi del suo lavoro: il capo ottavo, dedicato alla considerazione
delle sofferenze morali e fisiche del santo, ed il capo nono, riservato
alla presentazione delle avversità della sua vita.
Il ritratto che ne emerge è tale da scuotere
salutarmente qualunque lettore, anche quello più contaminato dai principi
della società del benessere. Ben oltre i facili trionfalismi che sovente
ne deformano la figura, il santo mostra il suo vero volto di autentico
discepolo del Crocifisso, curvo sotto il peso di croci inaudite che
toccano il cuore.
La vita di don Bosco, dice don Ceria, «fu tutta
quanta seminata di pungenti spine»: incomprensioni, contrasti,
persecuzioni, perfino attentati, strettezze economiche; e poi malanni
fisici così gravi da far dire al suo medico curante che «dopo il 1880
circa, il suo organismo era quasi ridotto ad un gabinetto patologico
ambulante».
Eppure, «non perdeva mai la sua serenità; anzi
pareva che appunto nei tempi di tribolazione egli acquistasse maggiore
coraggio, giacché lo si vedeva più allegro e faceto del solito». Né
chiedeva di essere liberato dai suoi mali. «Per una cosa», riferiscono i
contemporanei, «don Bosco non pregò mai: per la guarigione delle
infermità che lo travagliavano, pur lasciando che pregassero gli altri,
ad esercizio della carità». Il motivo di una condotta così
sconcertante, spiega don Ceria, è relativamente semplice: «Le sofferenze
fisiche accettate con si perfetta conformità al volere di Dio sono atti
di grande amore divino e penitenze volontarie», e «le anime che verso
Dio si sentono fortemente trasportate si danno alla mortificazione quasi
per irresistibile istinto di amore».
Lo confermano i frutti di tanto travaglio. Nel
paradosso cristiano il dolore si trasforma misteriosamente in trascendente
fonte di gioia. Ebbene, l'associazione alla morte del Signore realizzata
dalle sofferenze di don Bosco si accompagnò costantemente all'evento
pasquale di una perenne letizia del cuore. E la gioia fu la méta della
sua opera educativa.
Attualità del lavoro di don Ceria.
Rivolgendosi ai lettori del suo libro, don Ceria
confida di averlo scritto per confutare un grossolano malinteso connesso
alla esaltazione di don Bosco come santo moderno. «In questi tempi di
operosità febbrile», scrive, «chi parla così ha tutta l'aria di
volercelo vantare come il santo dell'azione, quasi che la Chiesa, da san
Paolo ad oggi, non abbia avuto sempre santi attivissimi, e come se ai
giorni nostri un santo di azione debba o possa fare a meno di essere
insieme uomo di orazione», quando invece «non si dà santità senza vita
interiore, né si darà mai vita interiore senza spirito di orazione».
Certo, l'azione in don Bosco ci fu, e raggiunse
livelli che sanno dell'incredibile. Ma venne dalla sovrabbondanza della
vita interiore.
Anche oggi la febbre dell'azione è alta, più che
mai. Si parla continuamente della necessità di vivere con i giovani, di
entrare nei loro problemi, nelle loro sensibilità, nelle loro esigenze. E
bisogna che così avvenga. A che giova, però, mettersi tra i giovani e
condividerne la ricerca, se si è poveri, od addirittura vuoti, di
risposte veraci? Ed in che cosa possono ultimamente consistere tali
risposte, se non nello stare con i giovani alla maniera significativa di
don Bosco, ossia con le qualità interiori che don Ceria riaddita in lui?
Scorrendo le pagine del Don Bosco con Dio, si
sperimenta al vivo un contrasto di mentalità e di pratica di vita con le
sensibilità e gli atteggiamenti odierni che talora mette i brividi. È
l'occasione buona per rimettersi in discussione, e lasciarsi indurre
salutarmente in crisi dalle istanze di verità che presenta. Per questo
viene riproposto. Per questo ancora, domanda di essere ricevuto con la
considerazione concessa ad un autentico dono dello Spirito.
Don Giorgio Gozzelino sdb.
Torino, giugno 1988.
Premessa.
L'idea di questo lavoro mi venne a Frascati nel 1929,
anno della beatificazione di Don Bosco. Mi nacque leggendo l'annuale
relazione, che il reverendissimo Don Filippo Rinaldi, terzo successore di
Don Bosco, aveva inviata in gennaio ai Cooperatori e alle Cooperatrici dei
Salesiani. Chiudeva egli la sua lettera ricordando come, cent'anni
innanzi, il nostro buon Padre, non ancora quattordicenne, facendo da umile
e laborioso garzone di campagna presso una famiglia di agiati agricoltori,
non trascurasse, benché così giovane, l'apostolato fra i coetanei, ma
soprattutto attendesse alla preghiera, e che così lavorando e pregando
trascorse quasi un biennio.
Mi rammentai allora in buon punto che il benedettino
Don Chautard nel suo notissimo libro L'âme de tout apostolat annovera Don
Bosco fra quei sacerdoti e religiosi moderni, i quali, dediti a vita
intensamente attiva, promossero assai il bene delle anime sol perché
furono insieme uomini di profonda vita interiore. Ricordava pure come
monsignor Virili, postulatore nella causa del beato Cafasso, testimoniando
in quella di Don Bosco, avesse dichiarato di reputare Don Bosco un santo,
non solo per le opere fatte, ma anche per il suo spirito di preghiera e di
raccoglimento nel Signore.
Ecco, dissi fra me, ecco un lato di Don Bosco, che,
non messo forse finora abbastanza in luce, meriterebbe di venire
illustrato con qualche cura nell'anno della sua probabilissima
beatificazione.
Rapiti dalla vista dei prodigi della sua multiforme
attività, i contemporanei ne ammirarono i trionfi senza quasi por mente
che era omnis gloria eius ab intus. Anche la generazione venuta su dopo la
sua morte ha guardato di preferenza alle opere di Don Bosco, studiandone
le forme e gli sviluppi senza darsi guari pensiero di scrutarne a fondo il
principio animatore, quello che ha costituito sempre il gran segreto dei
Santi: lo spirito di preghiera e di unione con Dio.
No, non s'illuda di comprendere Don Bosco chiunque
non sappia quanto egli fosse uomo di orazione; frutto ben scarso
ritrarrebbe dalla sua mirabile vita, chi corresse troppo dietro ai fatti
biografici, senza penetrarne a dovere i movimenti intimi e abituali.
Sollevare un lembo di questo velo mi parve allora
cosa di somma edificazione e fors'anche il miglior contributo alla
glorificazione del novello Beato; il velo intendo di una vita, che in
apparenza si svolgeva come altre consimili, ma che in realtà nascondeva
tesori di grazie e di doni soprannaturali. Si può ripetere di Don Bosco
il già detto di altri, ch'egli somigliava all'Ostia santa: fuori
apparenza di pane, e dentro, Gesù Cristo.
Nota: Il Papa Pio XI nel discorso per il decreto
sull'eroicità delle virtù di Don Bosco diceva d'aver ammirato
personalmente in lui «l'immensa umiltà», notando com'egli «il
suscitatore di tutto» si aggirasse per casa «come l'ultimo venuto, come
l'ultimo degli ospiti». Fine nota.
A tali riflessi, mi sarei ben potuto schermire dietro
al comodo, per quanto non mendicato pretesto della mia insufficienza; ma
volli tentar la prova, tanto più che sapevo di ottemperare, così
facendo, al Rettor Maggiore Don Filippo Rinaldi. Nei ritagli dunque di
tempo lasciatimi liberi dalle occupazioni mi diedi attorno a riandare con
affetto di figlio agli esempi e insegnamenti del Padre, fissandomi su ogni
particolarità che mi sembrasse degna di menzione circa la sua vita di
unione con Dio.
Per tal guisa mi si adunò adagio adagio un materiale
sufficiente e sicuro per la compilazione di quest'operetta, che con umiltà
e gioia deposi ai piedi del nostro caro Beato, non senza far voti che
altri con maggior freschezza d'anima, con miglior competenza e perizia
della mia, si rifacesse sull'argomento e ci regalasse un capolavoro. Il
tema lo merita certamente.
Il libro incontrò qualche favore, giacché se ne
fecero due ristampe e alcune traduzioni. Ora per obbedire ad un altro
successore di S. Giovanni Bosco l'ho ripreso in mano, introducendovi qua e
là aggiunte e modificazioni, in modo però da non alterare la forma
primitiva.
Le fonti, a cui ho attinto, sono generalmente le
Memorie biografiche largamente note; la scritta da Don Lemoyne in due
volumi; gli atti dei processi canonici, e documenti d'archivio. Tanto mi
premeva di avvertire, perché i lettori fossero rassicurati intorno
all'attendibilità delle cose esposte, senza bisogno di tante citazioni.
Ogni volta che mi è avvenuto di ricorrere ad altre fonti, l'ho dichiarato
in nota.
Riguardo al titolo, è parso conveniente conservare
quello di prima; il che in nulla detrae alla grandezza di Colui, il quale
sotto il semplice appellativo di Don Bosco operò tante meraviglie e
quelle meraviglie tuttora richiama nell'età prossima alla sua. La pensava
pure così Pio XI, che nell'udienza accordata in S. Pietro il 3 aprile a
tutti i pellegrinaggi organizzati dai Salesiani per la canonizzazione,
dopo aver accennato alle categorie svariatissime di cui si compone la
grande famiglia di Don Bosco, si corresse dicendo «di San Giovanni Bosco»,
ma per soggiungere tosto che il mondo avrebbe continuato a chiamarlo Don
Bosco.
«E sarà bene, continuò, perché è come ripetere
il suo nome di guerra, di quella guerra benefica, una di quelle guerre che
si direbbe la divina Provvidenza voglia concedere di tanto in tanto alla
povera umanità, quasi a compenso delle altre guerre non affatto
benefiche, ma così dolorose e seminatrici di dolori».
Questa edizione esce con cinque nuovi capi e con
ritocchi vari e qualche aggiunta qua e là. È stata anche soppressa la
triplice divisione precedente.
Un mattino di agosto del 1887 nel collegio di Lanzo
Torinese, lo scrivente, salendo lo scalone, giunto sul pianerottolo del
primo piano, si trovò come per incanto a un passo da Don Bosco, fermo là
in atto di attendere qualcuno. Lietissimo dell'incontro, gli baciò con
affettuoso trasporto la mano. Don Bosco gli chiese il nome. Uditolo, fece
un - Oh! di grata sorpresa; indi proseguì: Sono contento. Ambe le
orecchie stavano tese in ansiosa aspettazione; ma non finì la frase,
perché sopravvenne il qualcuno e lo rapì. Al termine di questa umile
fatica, quanto sarebbe giocondo riudire dal labbro del Padre amato quelle
due parolette, ma con senso compiuto! In ogni modo, Egli sa il motivo e il
movente del lavoro; Egli sa il buon volere. Benedica Egli allo sforzo e lo
renda non del tutto infruttuoso.
Sac. Eugenio Ceria.
Torino, 31 gennaio festa di S. Giov. Bosco, 1946.
Introduzione.
Per le anime semplici il Santo è l'uomo delle
visioni, delle profezie e dei miracoli; questi invece sono doni
carismatici, non essenziali alla santità, ma voluti da Dio nella sua
Chiesa fin dalle origini a perenne testimonianza della divina virtù di
lei, e quali mezzi straordinari a destare o a ridestare o a mantener desto
nelle menti degli uomini il pensiero delle cose celesti.
Il Santo è un uomo tutto di Dio; un uomo che,
secondo l’espressione di san Paolo, vive interamente a Dio; uomo dunque
che in Dio ricerca il principio e ripone il fine di tutti i suoi pensieri,
di tutti i suoi affetti, di tutte le sue azioni.
Di questa vita superiore alla naturale tutti i
rigenerati dal battesimo hanno ricevuto in sé gli elementi nella grazia
largita loro dalla bontà infinita di Dio; ma in pratica non sono
moltissimi i cristiani che, corrispondendo perfettamente ai lumi e
agl'impulsi divini, raggiungano tal grado di vita spirituale da potersi
applicare in tutta l'estensione dei termini il detto del medesimo
Apostolo: Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo.
Ora il Santo ci si presenta appunto come colui che
vive a pieno la vita soprannaturale, nella misura, s'intende, concessa a
creatura umana; cosicché abitualmente la sua conversatio in caelis
est:egli dimora sulla terra, ma da cittadino del cielo, tenendo sempre
fisso il cuore là, dove sa essere per lui ogni ragione di vero bene. In
questo consiste lo spirito di preghiera, intesa questa precipuamente nel
senso di ascensione, elevazione, slancio affettuoso dell'anima verso Dio,
senza che nulla al mondo la distolga da quell'oggetto supremo del suo
amore: tirocinio quaggiù della vita celeste, che di Dio sarà la diretta,
l'amorosa, l'eterna visione.
Ciò posto, bisogna aver il coraggio di confessare
che non sempre le Storie Santi, quali oggi vedono la luce un po'
dappertutto, contengono realmente le Vite dei Santi. Senza dubbio i Santi
spiegano altresì un'azione, che va collocata entro la cornice degli
avvenimenti a loro contemporanei; nella parte da essi presa a certi ordini
di fatti o a certe correnti d'idee il credente scorgerà, se si vuole, la
mano della Provvidenza, che invia a tempo e luogo gli eroi capaci di
sostenere nell'umanità missioni di alta importanza religiosa e civile.
Sotto questo rispetto l'agiografia moderna, non lo
negheremo, ha sgombrato il terreno da pregiudizi inveterati, che facevano
riguardare i Santi come esseri cascati dal mondo delle stelle, estranei
alla vita, se non addirittura affetti da monomanie, che si amava tanto di
gabellare per misticismo, nomignolo coniato da ignoranza della mistica e
attribuito con intenzioni canzonatorie anche a fenomeni di natura
altissima.
Sì, è giusto render merito ai seguaci del metodo
storico, se in certi ambienti le figure dei Santi possono affacciarsi oggi
senza più sollevare in certuni le antipatie d'una volta. Ma è pure
innegabile che così la loro individualità vera rischia di venir
menomata, perché scoronata dall'aureola che li fece essere e ce li deve
mostrare quali realmente furono.
Conviene saper distinguere i due aspetti senza
isolarli. Nello studio dei Santi come mai prescindere dalla santità? E
chi dice santità, dice una realtà, su cui sorvoli pure leggermente la
scienza positiva, sia essa storica o psicologica, ma non mai chi abbia
occhi esercitati nell'indagine di fatti appartenenti a un ordine
superiore, dove l'umano s'incontra col divino e intimamente vi si unisce.
Ecco perché falsano il concetto di Santo quegli
Scrittori, i quali stimano che non valga la pena o che sia cosa
indifferente il considerarlo come l'uomo dell'unione con Dio. Così
abbiamo avuto vite di Santi, diremo così, laicizzate o quasi.
E qui torna molto a proposito aggiungere un'altra
osservazione. Abbiamo udito più volte e letto, che Don Bosco è un Santo
moderno. Ci sembra trattarsi qui di un'asserzione che vada fatta con
prudenza e che si debba intendere cum grano salis; altrimenti
s'ingenera il dubbio, che, al pari di tante e tante cose umane, anche la
santità con l'andare del tempo abbia bisogno di ammodernarsi.
Lungi da noi l'idea, che esistano due specie di
santità, la prima buona per i tempi d'una volta e l'altra fatta apposta
per i tempi nostri! L'azione della grazia divina che forma i Santi, non si
muta per mutare di secoli, a guisa delle molteplici attività umane, che
sono sempre in via di modificazione per adattarsi alla variabilità dei
tempi e delle circostanze; né la cooperazione dell'uomo all'azione
santificatrice della grazia di Dio si diversifica oggi da quella che fu
ieri, cambiando stile a seconda dei gusti.
Il perfetto amor di Dio, elemento essenziale della
santità, s'assomiglia per questo al sole, che dal primo giorno della
creazione vivifica la terra, inondandola sempre a un modo di luce e di
calore. Non si pretende con ciò, che l'accennata sentenza non possa
ammettere un'interpretazione ragionevole, a patto però di farle dire
unicamente questo, che anche il Santo è uomo del suo tempo e che quindi,
attuando una missione di bene in un dato periodo storico, piglia
atteggiamenti accidentali che in altre epoche sarebbero stati
anacronistici.
Ciò nonostante, posta l'identità del principio
ispiratore, dell'energia informatrice e del fine supremo d'ogni santa
impresa, il metodo stesso dei procedimenti non riveste mai caratteri di sì
spiccata novità, da giustificare quasi un assioma come questo: tante età,
tante santità.
C'è particolarmente un grossolano malinteso da
scansare, quando si proclama Don Bosco il Santo moderno. In questi tempi
di operosità febbrile chi parla così ha tutta l'aria di volercelo
vantare come il Santo dell'azione, quasiché la Chiesa, da san Paolo, a
oggi non abbia avuto sempre Santi attivissimi e come se ai giorni nostri
un Santo di azione debba o possa far a meno di essere insieme uomo
d'orazione.
Non si dà santità senza vita interiore, né si darà
mai vita interiore senza spirito di orazione. Tale la genuina spiritualità,
ieri, oggi, sempre: azione e orazione, fuse, compenetrate, indivisibili,
come nel di della Pentecoste.
Un profondo conoscitore di san Paolo, cogliendolo
quasi dal vero nell'esercizio dell'apostolato, ce ne abbozza questo
ritratto, del quale ci sembra proprio di riscontrare in Don Bosco una
copia fedele: «Con una facilità incomparabile l'Apostolo associa la
mistica più sublime con l’ascetismo più pratico; mentre il suo occhio
penetra i cieli, il suo piede non perde mai il contatto con la terra.
Nulla è sopra né sotto di lui.
Nel momento in cui si dichiara crocifisso al mondo e
vivente della stessa vita di Cristo, sa trovare per i suoi figliuoli
parole che rapiscono per la giocondità e la grazia, e discende alle
prescrizioni più minuziose sul velo delle donne, sul buon ordine delle
assemblee, sul dovere del lavoro manuale, su la cura di uno stomaco
debole. Perciò la sua spiritualità offre ai cuori più umili un alimento
sempre saporitole alle anime più elette una miniera inesauribile di
profonde meditazioni».
E dalle origini del Cristianesimo balzando in pieno
medioevo, ci troviamo di fronte un san Bonaventura, intorno al quale un
autorevole biografo ci presenta questa osservazione, che sembra anch'essa
scritta per Don Bosco: «Le epoche di lotte chiedono uomini di alta bontà,
che sopra i contrasti di parti riescano a pacificare gli animi: uomini
dalla visione chiara, i quali sappiano ciò che vogliono e vadano dritti
al loro scopo; uomini di preghiera per assicurarsi la pace nel loro
interno e ottenere luce e forza dall'alto».
Ecco dunque che la spiritualità dei Santi, sempre
antica e sempre nuova, non subisce metamorfosi per volgere di secoli né
per mutare di costumi.
Può accadere che uomini apostolici e cristiani
versati nelle scienze sacre, sospinti spesso a ragionare di cose
spirituali, con tutta facilità s'illudano di essere quello che dicono; ma
altro è dire, altro è fare: si può discorrere benissimo di vita
spirituale senza vivere spiritualmente.
Nelle pagine che seguono, i sacerdoti dediti in
special modo ai sacri ministeri troveranno, a Dio piacendo, e per merito
di Don Bosco, qualche lume e qualche stimolo a mandare di conserva il
facere il docere, sicché la pratica preceda, accompagni e segua
l'insegnamento. Serbatoi, non semplici canali ci vuole san Bernardo.
I laici poi, che fra le brighe materiali non perdano
di vista gl'interessi dello spirito, leggeranno con non lieve profitto gli
esempi di un sì indefesso lavoratore, che nel maremagno delle cure
possedeva l'arte di trasformare in preghiera le opere delle sue mani,
attuando con naturalezza incomparabile il semper orare et non deficere.
Non diciamo niente delle persone religiose, perché queste, avendo
l'intelligenza delle cose spirituali, dal pochissimo che noi sapremo
metter loro dinanzi, intuiranno il molto più che il nostro occhio non
discopre.
Lo spirito di preghiera è l'atmosfera del cristiano.
Spanderò, dice il Signore, sopra la casa di David e sopra gli abitatori
di Gerusalemme lo spirito di grazia e di orazione, e volgeranno lo sguardo
a me. La diffusione di questo spirito, cominciata nella grande Pentecoste,
è durata e dura e durerà perenne in seno alla Chiesa, formandovi come
l'aria che vi si deve respirare dai fedeli. I Santi l'hanno respirata
pura, senza interruzione, a pieni polmoni.
Da tale flusso vivificati e virtute corroborati in
interiorem hominem, son venuti eliminando da sé le opere della carne,
enumerate dall'Apostolo nella lettera ai Cristiani di Galazia, e
accogliendo invece i frutti dello Spirito, cioè, al dire del medesimo
Apostolo, carità, gaudio, pace, pazienza, benignità, bontà longanimità,
mansuetudine, fedeltà, modestia, continenza, castità. Questovè
ciò ch'egli chiama vivere di Spirito e camminare in Spirito; ciò ch'egli
intende, quando dice esser ripieni di tutta la pienezza di Dio, Bellissime
cose! Potessimo anche noi comprenderle bene cum omnibus sanctis, ma qui
con Don Bosco e alla sua scuola!
Quanto all'ordine della trattazione, ecco. La via dei
giusti è paragonata dallo Spirito Santo alla luce che comincia a
risplendere, s'avanza e cresce fino al giorno perfetto. Veri figliuoli
della luce, i Santi sono luminaria in mundo, progredendo di virtù in virtù
fino alla perfezione, e arrivando con le loro ascensioni lassù, dove
fulgebunt sicut sol in conspectu Dei.
Terremo dunque dietro con tutta semplicità alla vita
di Don Bosco dall'aurora al meriggio e al tramonto, o meglio al passaggio
dal firmamento della Chiesa militante ai caeli caelorum, agli altissimi
cieli della Chiesa trionfante. Toccheremo per ultimo dei doni
soprannaturali gratuiti, che rifulsero in lui e che, se non sono mezzi
necessari per giungere all'unione con Dio, servono almeno, quando siano
reali, a rivelarne sempre più il grado.
Il nostro cuore intanto trabocca dell'allegrezza,
pensando che dalla gloria dei Beati il nostro caro Padre non ci rischiarerà
più solamente le vie dell'esilio con la luce de' suoi insegnamenti ed
esempi, ma ci si porgerà valido intercessore presso Dio, affinché a noi
pure sia dato di raggiungere felicemente la patria celeste.
CAPO I. - In famiglia.
Nella vita spirituale trasvolano momenti di grazia,
in cui l'anima ha intuizioni improvvise, rapide e salutari. Improvvise
diciamo quanto all'atto in se stesso della facoltà conoscitiva; ma,
sebbene lo Spirito spiri dove vuole, tuttavia , ordinariamente parlando,
in cose di tal genere quel percepire immediato e sicuro suole presupporre
preparazioni interiori più o meno lunghe, più o meno avvertite,
consistenti soprattutto nella fedele corrispondenza ai doni
soprannaturali.
Fanciullo undicenne, Giovannino Bosco ebbe uno di
questi lampi rivelatori. Per arcane inclinazioni del cuore affezionatosi a
un degno sacerdote e messosi con filiale confidenza nelle sue mani, da
quella scuola di corta durata riportò un durevole insegnamento: capì
essere buono per l'anima «fare ogni giorno una breve meditazione». Due
frutti colse da questa chiara visione: «gustare che cosa sia vita
spirituale» e non agire più come prima, cioè «piuttosto materialmente
e come macchina, che fa una cosa senza saperne la ragione».
Così scrisse egli stesso in certe sue
"Memorie" stese per ordine di Pio IX a vantaggio de' suoi figli.
Ma nel luogo qui citato non dobbiamo sorvolare su due parolette assai
significative, sfuggitegli dalla penna. Una è là dove dice che cominciò
non a conoscere od a sperimentare, ma addirittura a «gustare che cosa sia
vita spirituale».
Ecco lo squisito dono della sapienza, che san
Bernardo chiama «saporosa cognizione» delle cose divine. Questo dono
dello Spirito Santo è veramente un gusto soprannaturale che fa assaporare
le cose divine «per una specie di arcana connaturalità o simpatia».
L'altra paroletta rivelatrice è in quell'agire di prima «piuttosto
materialmente». É ben notevole il «piuttosto», che attenua l'avverbio
vicino.
Dunque c'era già nel piccolo l'idea della
spiritualità, vaga e indeterminata quanto si voglia, ma pur distinta da
ciò che è materialità nell'operare. La cosa poi che maggiormente ci
colpisce si è il vedere in età si tenera la nozione precoce della forma
di pietà che dovrà essere la sua e de' suoi: armonico accordo di ora et
labora, ossia l'orazione anima dell'azione.
Prima d'allora aveva appreso dalla madre l'amore alla
preghiera. Nella famiglia rurale piemontese del buon tempo antico il
costume cristiano, serbandosi inviolato attraverso infiltrazioni
forestiere, si perpetuava pacificamente di generazione in generazione
intorno al vecchio focolare, testimonio come di gioie intime e semplici e
feconde, così delle comuni preci quotidiane, con cui genti laboriose e
oneste chiudevano le loro giornate, recitando il rosario dinanzi
all'immagine della Vergine Consolatrice.
La casa meritava davvero il nome di santuario
domestico. In ambiente così sano una donna d'alti sensi, quale ci consta
essere stata la madre di Giovanni, era maestra insuperabile di religiosità
vissuta, massime quando, come nel caso nostro, alla forza educativa
dell'esempio poteva unire la comunicativa efficacia della parola.
Sappiamo infatti che con la spontaneità propria del
linguaggio materno essa gli venne instillando fin da piccino il sentimento
vivo della presenza di Dio, la candida ammirazione delle opere sue nel
creato, la gratitudine per i suoi benefici, la conformità a' suoi voleri,
il timore di offenderlo. Mai forse scuola di madre incontrò natura più
docile di figlio a riceverne gli ammaestramenti.
Così allorché dall'umile casolare nativo il
fanciullo cominciò ad ascendere alla Casa santa del Signore, anche le
ascensioni infantili del cuore presero slanci nuovi verso le cose celesti.
Il seguito della sua vita mirabile ci fa arditi di applicare a lui le
parole dell’Ecclesiastico: Ancora giovinetto, prima d'inciampare in
errore, io cercai la sapienza con l'orazione. Io la domandava dinanzi al
tempio, ed ella fiorì in me di buon'ora, come l'uva primaticcia.
Nei dì festivi i divini uffici, a cui andava sempre
con gioia e assisteva con divozione, lo infervoravano talmente, che
l'impressione soave gli vibrava nell'anima per tutta la settimana.
Abbondano infatti le testimonianze di persone che lo conobbero fanciullo e
che deposero come durante le sue occupazioncelle campestri, a cui fu
avviato per tempo, egli prorompesse sovente in preghiere e della sua voce
argentina facesse echeggiare il colle solitario col canto di laudi sacre.
Allestiva pure altarini, come sogliono i piccoli, ornandovi di fiori e
frondi l'immagine della Madonna, ma, come non sogliono altri della sua età,
chiamandovi quanti più poteva compagni a pregare, a cantare, a imitare
divotamente le cerimonie vedute nella chiesa.
Lo attraeva la parola di Dio. A catechismi e a
prediche non perdeva sillaba. Poi ogni occasione era buona per radunar
gente e montare sopra una panca e nell'umile vestire del contadinello, ma
con fedeltà di memoria e con piena padronanza di sé rifare i sermoni
domenicali del pievano o narrare fatti edificanti appresi e tenuti in
serbo a tale intento. Né tralasciava d'intercalarvi preghiere e, se ne
fosse l'ora, faceva anche dire alla piccola turba di villici le orazioni
della sera.
Tanto zelo di bene veniva nel fanciullo suscitato e
avvivato dal suo filiale affetto a Dio. Questo affetto già in si tenera
età ne moveva il cuore non solo ad amare Dio, tenendolo a Dio unito con
dolce e sempre più stretto vincolo d'amore, ma anche a desiderare di
vederlo amato e di contribuire a farlo amare.
Mezzo efficacissimo per promuovere tale unione si
considera dai maestri della vita spirituale la mortificazione cristiana,
che è il morire a se stesso per vivere della vita di Gesù Cristo in Dio.
Ora le anime, che verso Dio si sentono più fortemente trasportate, si
danno alla mortificazione quasi per irresistibile istinto d'amore.
Al vedere i Santi gioire fra volontarie privazioni e
sofferenze, il mondo ignaro si chiede trasognato: - Ut quid perditio haec?
A che pro tanto sprezzo di beni e agi materiali? - La risposta è antica
quanto la domanda; la diede da gran tempo san Paolo: Quei che sono di
Cristo, hanno crocifisso la loro carne. I risorti con Cristo alla vita
dello Spirito sacrificano volentieri la carne per vivere secondo lo
Spirito. L'esperienza poi insegna che così sviluppasi lo spirito di
preghiera, come di lì procede buona fecondità di azione.
Ed ecco che il piccolo Giovanni aveva già
spontaneamente compreso questo gran segreto della perfezione cristiana
prima ancora d'imbattersi nel sacerdote che gl'insegnò a meditare;
infatti scrive nelle prelodate "Memorie": «Fra le altre cose,
mi proibì tosto una penitenza che io era solito fare, non adattata alla
mia età e condizione». Lo incoraggiò invece a frequentare i sacramenti
della penitenza e dell'eucaristia.
L'anno innanzi al felice incontro, egli aveva fatto
la prima Comunione. La fece dunque a dieci anni. Ci volle uno strappo
bell'e buono alla rigida consuetudine di non ammettervi nessuno prima dei
dodici o quattordici anni; ma stavolta il comunicando si presentava alla
sacra mensa così ben preparato, che il parroco chiuse un occhio.
Giovannino vi si preparò confessandosi tre volte e poi in tutto quel
giorno benedetto non si occupò di alcun lavoro materiale, ma solo in
leggere libri divoti. Scriverà poi nelle citate "Memorie": «Mi
pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita».
Purtroppo però la santa e fruttuosa familiarità col
degno ministro di Dio, che lo istradava bel bello alla pietà e al sapere,
gli fu bruscamente troncata dalla morte. Dure prove attendevano il caro
figliuolo di Margherita. Fino allora tutto casa e chiesa, dovette
andarsene dal tetto materno e ridursi sotto un padrone a servire quale
garzoncello di campagna. Ricco d'ingegno e straricco di memoria, si vide
costretto a logorare si promettenti energie nei grossolani lavori della
terra. Dio voleva così, perché innalzasse un edificio di sode virtù
sulla sicura base dell'umiltà. Confesserà più tardi che ne sentiva il
bisogno.
La preghiera gli era alimento e conforto. La
preghiera, e qualcos'altro. Ogni sabato chiedeva rispettosamente licenza
ai suoi padroni di recarsi la mattina dopo a una borgata distante un'ora
di strada per ascoltarvi la prima messa, che vi si celebrava per
tempissimo. Perché tanta premura, se più tardi interveniva sempre alla
messa parrocchiale e alle altre funzioni? Andava là di buon mattino per
confessarsi e fare la santa comunione. Perseverò così tutte le domeniche
e feste per due anni interi. Gran cosa per un fanciullo sbalestrato lungi
dai suoi e in quelle condizioni di vita e non certo animato a tanto da
esempi o suggerimenti altrui.
Si grande amore per Gesù Sacramentato è segno
manifesto di non comune avanzamento nello spirito di preghiera. Le interne
disposizioni indotte nell'animo da tale spirito si rivelano poi di
leggieri nella condotta, negli atteggiamenti e nelle parole di un giovane.
Le prove fornite nei processi dai superstiti della famiglia, presso cui il
caro garzoncello prestava servizio, non lasciano luogo a dubbio di sorta
sul suo conto per questo riguardo.
Essi non avevano mai non pure avuto, ma neanche
immaginato un servitore così obbediente, laborioso ed esemplare. In casa
si adempivano i doveri del buon cristiano con la regolarità delle
inveterate consuetudini domestiche, tenaci sempre nelle famiglie
campagnuole, tenacissime a quei tempi di vita sanamente paesana; il
servitorello però d'ordinario pregava in ginocchio, pregava più spesso
degli altri, pregava a lungo.
Fuori di casa, mentre guardava le mucche al pascolo,
fu trovato ora raccolto in preghiera, ora concentrato nella lettura del
catechismo, suo libro di meditazione; una volta fu visto in ginocchio,
immote, a capo scoperto, sotto la sferza del sole, così assorto che,
chiamato ripetutamente, non die' segnò d'intendere, e quando venne scosso
e ammonito di non dormire al sole, rispose che non dormiva.
Un giorno il vecchio capo di casa, rientrando stanco
dalla campagna, e scorto il giovinetto che inginocchiato diceva
tranquillamente l'Angelus, n'adontò e gliene mosse lamento, quasi che
dimenticasse il lavoro per pensare, diceva, al paradiso. Giovanni, finita
divotamente la prece, gli rispose con rispetto avvicinandosi: - Sapete
bene, se io mi risparmio. Certamente però si guadagna più a pregare che
a lavorare. Pregando, si seminano due grani, e nascono quattro spighe; non
pregando, quattro grani si seminano, ma due sole spighe si mietono.
Penetrato da tali sentimenti, qual meraviglia se,
come ne fecero fede testimoni oculari, osservavasi in lui calma di modi,
eguaglianza di umore, senno di osservazioni, riserbo nel tratto,
aborrimento da tutto quanto potesse, non che appannare il candore
dell'anima, sembrare anche solo disdicevole a giovinetto schiettamente
cristiano? Né trascurava colà di adoperarsi a bene dei fanciulli,
divertendoli, catechizzandoli, conducendoli a pregare.
Quel tal parroco, da cui andava a confessarsi le
domeniche, piangeva di consolazione al vedere come, grazie alle industrie
di un povero garzoncello, rifiorisse la pietà nella porzione più eletta
del suo gregge. Il fatto sta che, dopo la partenza del piccolo apostolo,
l'ottimo pastore non ebbe che da continuare egli stesso quelle adunanze
per crearsi un vero oratorio festivo.
Di Domenico Savio dodicenne san Giovanni Bosco
scriverà di essere rimasto «non poco stupito considerando i lavori che
la grazia divina aveva già operato in così tenera età». Il medesimo
sentimento sorge in noi nel riandare, su testimonianze giurate di
contemporanei e di conterranei, tutta la condotta di Giovannino Bosco.
Giovanni partì di là, perché giorno e notte lo
assillava il pensiero degli studi; ma la via crucis fu ancora lunga e
dolorosa. Nello scoraggiante avvicendarsi di speranze e di delusioni egli
esperimentò, più che mai per l'innanzi, l'efficacia dell'esortazione di
san Bernardo: Respice stellam, voca Mariam. Aveva succhiata col latte la
divozione a Maria Santissima. In circostanze solenni e in momenti critici
la madre gli raccomandava: - Sii divoto di Maria! A mano a mano che
approfondiva il conoscimento delle cose divine, gustava sempre meglio la
dolcezza di questa divozione, fatta di assoluta confidenza e di filiale
amore, tanto predicata e praticata dai Santi, tanto cara alle anime pie.
Una solinga chiesetta dedicata alla Vergine sull'alto
del colle che domina Castelnuovo, divenne allora per lui meta di frequenti
visite. Si recava lassù o da solo o più spesso in compagnia di giovani
amici. Dei quali pellegrinaggi fatti nella sua prima adolescenza al
santuarietto mariano egli portò indelebilmente scolpito in mente il
ricordo, tanto che sul declinare degli anni, ripensandovi, s'inteneriva.
Prima di addentrarci nel nostro qualsiasi studio,
sembra opportuno aprire una breve parentesi per fissare chiaramente il
concetto fondamentale di preghiera. Che nella vita cristiana la preghiera
sia di suprema necessità, nessuno lo metterà mai ragionevolmente in
dubbio; quindi è che san Paolo, scrivendo a Timoteo, gliela raccomanda
primum omnium, prima di tutto. La preghiera poi è stato ed è atto. Come
stato, essa consiste nell'orazione, continua dal medesimo Apostolo, quando
dice: Sine intermissione orate. Non
si può certo stare sempre attualmente fissi in Dio, ma si sta sempre
nella disposizione della preghiera mercè l'abito della carità; l'anima
del giusto, possedendo la grazia santificante, e perciò presentando in sé
la condizione richiesta affinché si avverino le parole di Gesù: Verremo
da lui e faremo dimora presso di lui, dalle tre Persone della Santissima
Trinità con la loro presenza la comunicazione della loro vita, sicché
allora si prega veramente senza interruzione.
Della preghiera così intesa, oltre agli stati
ordinari e comuni, vi sono stati elevatissimi e di pochi, stati mistici,
stati di puro privilegio. Come atto, la preghiera prende quattro forme,
come c'insinua il medesimo san Paolo, dove inculca a Timoteo di fare
obsecrationes, orationes, postulationes, gratiarum actiones; cioè,
suppliche o preghiere di domanda per noi, orazioni o preghiere di
adorazione, voti o preghiere di domanda per gli altri, e ringraziamenti
per i benefici ricevuti. La teologia della preghiera si riduce
sostanzialmente tutta qui. Vedere in qual modo l'abbiano vissuta i Santi,
è spettacolo che edifica e rapisce.
CAPO II. - Alle scuole.
La vita di Giovanni Bosco subì una brusca mutazione
quand'egli, spiccatosi dai luoghi nativi, si portò a Chieri, di
paesanello contadino divenuto in un subito cittadino e studente. Chieri
non era Torino; ma tutto è relativo a questo mondo. C'erano pur sempre le
insidiose novità di un ambiente più raffinato; c'era l'indipendenza;
c'era l'età.
Un giovincello campagnuolo, cresciuto sotto gli occhi
de' suoi, più o meno vicino, ma sempre attorno al domestico nido,
inesperto di tutto che non sia occupazioni e soddisfazioni rusticane,
avvezzo a non intrattenersi se non con le solite gentine primitive, ecco,
piomba di botto in un centro così detto civile, fra abiti e abitudini
d'un altro mondo, sconosciuto in mezzo a sconosciuti; poniamo che questo
giovincello tocchi allora il punto critico dell'adolescenza, che abbia
ingegno vivace, che si senta qualche spirito in corpo; immaginiamo ancora
che un tale adolescente arrivi dai campi alla città per tuffarsi in una
popolazione sbrigliatella di scolari delle classi secondarie: e si dica se
non ci sia più di quanto basti, perché si rinnovi il caso di Ercole al
bivio. Buon per Giovanni che ai rischi improvvisi si affacciava premunito,
oltre ché da scopo santo e da umile povertà, anche da quella pietà
illuminata, la quale copre la gioventù d'uno scudo contro cui
s'infrangono i dardi ostili.
Tale pietà, è buona a tutto, perché ci mostra
tutte le cose nella luce vera, è la luce divina, ne guidò tosto i primi
passi, che sogliono essere i più pericolosi, conducendolo a fare la sua
prima conoscenza e scortandolo ne' suoi primi accostamenti ai compagni.
Apprendiamone da lui stesso il come. «La prima
persona che conobbi fu un sacerdote di cara e onorata memoria. Egli mi
diede molti buoni avvisi sul modo di tenermi lontano dai pericoli;
m'invitava a servirgli la messa, e ciò gli porgeva occasione di darmi
sempre qualche buon suggerimento. Egli stesso mi condusse dal prefetto
delle scuole... e mi pose in conoscenza con gli altri professori. In mia
mente aveva divisi [i compagni] in tre categorie: buoni, indifferenti,
cattivi. Questi ultimi evitarli assolutamente e sempre, appena conosciuti;
con gl'indifferenti trattenermi per cortesia e per bisogno; coi buoni
contrarre amicizia, ma famigliarità solamente con gli ottimi, quando se
ne incontrassero che fossero veramente tali. Questa fu la mia ferma
risoluzione. Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli che io non
conosceva per bene. Io mi sono liberato da questa caterva di tristi col
fuggire rigorosamente la loro compagnia di mano in mano che mi veniva dato
di poterli scoprire».
Orientatosi abbastanza nelle relazioni più
indispensabili, fu dalla stessa pietà molto bene indirizzato nella
ricerca della cosa che maggiormente gli premeva.
«La più fortunata mia avventura, scrive, fu la
scelta di un confessore stabile nella persona di un canonico della
Collegiata. Egli mi accolse sempre con grande bontà, ogni volta che
andava da lui. Anzi m'incoraggiava a confessarmi e comunicarmi con maggior
frequenza. Era cosa assai rara in quei tempi trovare chi incoraggiasse
alla frequenza dei sacramenti. Chi andava a confessarsi e a comunicarsi più
d'una volta al mese, era giudicato dei più virtuosi, e molti confessori
non lo permettevano. Io però mi credo debitore a questo mio confessore,
se non fui dai compagni trascinato a certi disordini, che gl'inesperti
giovanetti hanno purtroppo a lamentare nei grandi collegi». S'intenda qui
collegi nel senso di pubbliche scuole, non di convitti, secondo una
denominazione locale del tempo.
Non solo i compagni non trascinarono lui a disordini,
ma egli ne tirò e tenne un bel numero sulla retta via. Un giovane pio che
primeggi nella scuola e non abbia ombra di ostentazione, solo che sia un
po’ disinvolto, si guadagna i cuori dei condiscepoli con facilità
incredibile. Così Giovanni in breve tempo si conciliò tanta stima e
benevolenza tra l'elemento giovanile di Chieri, che gli riuscì di fondare
un'associazione denominata Società dell'Allegria, il cui regolamento si
componeva di due articoli: evitare ogni discorso, ogni azione che
disdicesse a un buon cristiano, e adempiere esattamente i doveri
scolastici e religiosi.
Ciascun socio aveva obbligo di cercare libri e
introdurre trastulli atti a far stare allegri i compagni: proibito checché
causasse malinconia, massime qualunque cosa non conforme alla legge di
Dio. Tutte le feste i membri della Società andavano al catechismo nella
chiesa dei Gesuiti; lungo la settimana si adunavano in casa or dell'uno or
dell'altro, con libero intervento di quanti volessero parteciparvi, e se
la passavano ivi in amene ricreazioni, in pie conferenze, in letture
religiose, in preghiere, in darsi buoni consigli e in notarsi a vicenda i
difetti personali, che taluno avesse osservato direttamente o di cui
avesse udito parlare.
Oltre a questi amichevoli trattenimenti, «andavamo,
scrive Don Bosco, ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci, a fare
la santa comunione». L'allegria dunque veniva cercata da lui come buon
mezzo per servire il Signore.
È alieno dal nostro compito il prendere un tono di
enfasi, avendosi qui per iscopo soprattutto l'edificazione; ma
l'ammirazione sorge dai fatti. Di giovani pii se n'incontrano, grazie a
Dio, con frequenza consolante; ma giovani d'una pietà così operosa che,
non paghi essi di ambulare cum Deo, in sé l'impulso abituale, quasi il
bisogno imperioso di portare Dio nelle anime altrui o di avvicinarle
maggiormente a Dio, capita rarissime volte d'incontrarne.
Giovanni Bosco nutriva dentro una pietà fatta come
il bene, del quale si dice che è per natura diffusivum sui.
Vedere una persona e pensare subito a renderla buona
o migliore nel senso più strettamente cristiano della parola, doveva
essere un giorno il programma della sua vita sacerdotale; ma era già la
tendenza de' suoi verdi anni. L'abbiamo visto all'opera fra coetanei e
condiscepoli; a voler tutto esporre ci dovremmo ripetere di soverchio, e
poi non si tesse qui una biografia: ci premeva soltanto mettere in
evidenza l'annunciarsi lontano di quella che fu nota caratteristica della
sua spiritualità.
A questo punto, chi sa? lettori diffidenti, rilevando
nel giovane Bosco la propensione innata a mettersi in pubblico e riandando
le clamorose sue prodezze di giocoliere e di acrobata, sarebbero forse
tentati di esprimere qualche riserva sul movente segreto di tali
manifestazioni. Non vi farebbero capolino per caso ambizioncelle di
popolarità e gusti teatrali, troppo mal conciliabili con le esigenze
della vita interiore e con il rumores fuge l'ama nesciri dell'ascetica
tradizionale? A dissipar simili dubbi basterebbe ponderare fini, modi,
circostanze, effetti. Omettiamo ciò: limitiamoci piuttosto a un dato di
fatto.
A tu per tu con persone di vario genere è sempre
identico in lui lo spirito animatore: l'ardore di un'anima pia, che è
sollecita del bene spirituale altrui. Il figlio della padrona di casa,
sbarazzino numero uno, è la disperazione di tutti; Giovanni se lo
affeziona, lo tira pian piano alle pratiche religiose, finché non ne cava
fuori un ragazzo per bene.
Frequentando il duomo, vi fa conoscenza col
sagrestano maggiore, già adulto, affatto digiuno di studi, corto
d'ingegno e di mezzi, distratto dalle sue occupazioni, eppure bramoso di
diventar prete; Giovanni, senza verun compenso, con eroismo di carità si
presta a fargli un po' di scuola ogni giorno, e la dura così due anni,
finché non l'ha preparato all'esame per la vestizione chiericale. Stringe
amicizia con un ebreo, giovane diciottenne, lo invoglia a ricevere il
battesimo, lo istruisce, di nascosto, vince opposizioni ostinatissime di
parenti e di altri correligionari, finché non lo assiste al sacro Fonte.
È ben precoce tutta la fecondità di apostolato, che
abbiamo potuto ammirare fin qui. Essa ci somministra una prova di non meno
precoce unione con Dio. Si sa come poco serva il saper agire e parlare, se
manchi il previo raccoglimento nella preghiera, che è con l'esempio mezzo
indispensabile nelle opere di zelo.
Il significativo proverbio Dimmi con chi vai e ti dirò
chi sei porta buon rincalzo all'argomento, se lo si applica all'amicizia
di Giovanni con uno studente santo. Tale la fama, che aveva preceduto
l'arrivo di Luigi Comollo a Chieri. Avutane appena notizia, Giovanni
ardeva di conoscerlo; conosciutolo, agognava di entrare in relazione con
lui; riuscitovi, trovò che la realtà superava l'aspettazione.
Spigoliamo nelle "Memorie": «L'ebbi sempre
per intimo amico. Ho messo piena confidenza in lui, egli in me. Mi
lasciavo guidare dove e com'egli voleva. Andavamo insieme a confessarci, a
comunicarci, a fare la meditazione, la lettura spirituale, la visita al
santissimo Sacramento, a servire la santa messa». L'accenno alla
meditazione ci assicura, com'egli non ismettesse più di rinnovare
quotidianamente e arricchire la sua vita interiore con questo valido
esercizio. E il loro conversare? Dalla pienezza del cuore parla la bocca.
Conferivano insieme di cose spirituali. «Il trattare e parlare di tali
argomenti con lui, scrive Don Bosco, tornavagli di grande consolazione.
Ragionava con trasporto dell'immenso amore di Gesù nel darsi a noi in
cibo nella santa comunione. Quando discorreva della Beata Vergine, si
vedeva tutto compreso di tenerezza, e dopo aver raccontato o udito
raccontare qualche grazia concessa a favore del corpo, egli, sul finire,
tutto rosseggiava in viso e alle volte rompendo anche in lacrime
esclamava: - Se Maria favorisce cotanto questo miserabile corpo, quanti
non saranno i favori che sarà per concedere a pro delle anime di chi la
invoca? Oh, se tutti gli uomini fossero veramente divoti di Maria, che
felicità ci sarebbe in questo mondo!».
Al se stesso d'allora Don Bosco attribuisce la parte
di uditore; non avrà fatto l'uditore perpetuamente muto. A ogni modo,
effusioni di questa natura non è verosimile che avvengano, e tanto meno
che si ripetano così a lungo, se da ambo i lati non siano i cuori capaci
d'intenderle e di gustarle.
I quattro anni di ginnasio finirono con esito
trionfale. Ottimi risultati negli esami, affettuosa stima di professori,
entusiastica ammirazione dai compagni, generali simpatie fra la
cittadinanza; nessuno mancò insomma dei segni forieri, per cui dall'alba
si prognostica il giorno. Ma quante angustie, quante difficoltà, quanti
pericoli, quante privazioni! La costanza non gli cadde spezzata sol perché,
mediante la preghiera, trovava rifugio nel Dio d'ogni consolazione.
La Provvidenza così disponeva, affinché un giorno
potesse consolare coloro che si trovassero in qualunque strettezza.
Se non che il sereno, mai non turbato «dal vento
secco, che vapora la dolorosa povertà», per dirlo con una pittoresca
frase di Dante, gli fu nel secondo biennio un po’ offuscato da una nube.
Nell'età delle crisi giovanili la si può chiamare crisi di vocazione.
Che fino dalla puerizia aspirasse al sacerdozio, è
cosa incontestata; vi si sentiva talmente attratto, che gli sembrava di
essere nato per questo. Ma nel penultimo anno di ginnasio, ecco che lo
assalgono due timori, i quali, quanto più si avvicina il momento
decisivo, tanto più lo spingono per entro a un mare di perplessità e di
ansie. Da un lato, ora che comprende meglio la sublimità dello stato
sacerdotale, se ne giudica indegno per la mancanza di adeguate virtù;
dall'altro, non ignorando gli scogli del mondo, ha paura di andarvi a
naufragare, se si fa chierico nel secolo.
Il travaglio spirituale di questa lotta traspare
dall'accorato accento, con cui tant'anni dopo esclama nelle sue
"Memorie": «Oh, se allora avessi avuto una guida, che si fosse
presa cura della mia vocazione, sarebbe stato per me un gran tesoro; ma
questo tesoro mi mancava». Infatti il suo ottimo confessore, che badava a
far di lui un buon cristiano, in cose di vocazione non si volle mai
mischiare.
Ridotto a trovar consiglio da sé, ricorse a libri
che trattassero di scelta dello stato. Un raggio di luce parve balenargli
allo spirito. «Se io rimango chierico nel secolo, disse fra sé, la mia
vocazione corre gran pericolo. Abbraccerò lo stato ecclesiastico,
rinuncerò al mondo, andrò in un chiostro, mi darò allo studio, alla
meditazione, e così nella solitudine potrò combattere le passioni,
specialmente la superbia, che nel mio cuore aveva messo profonde radici».
Chiese dunque l'ammissione tra i Francescani, i quali, intuendone
l'ingegno e la pietà, lo accettarono di buon grado. Ma egli non aveva il
cuore tranquillo.
Vi si aggiunse che persone benevole e serie, a cui
aveva aperto l'animo suo, si adoperavano a tutto potere per distorlo dal
proposito di farsi frate, esortandolo vivamente a entrare in seminario.
Così le ansietà crescevano.
La Provvidenza dispose che si lasciasse indurre a
interrogare il beato Giuseppe Cafasso, allora giovane sacerdote, ma già
in grande riputazione per il dono del consiglio. Don Cafasso, ascoltandolo
attentamente, gli disse di andare avanti negli studi e alla fine di
passare nel seminario.
Durante queste ambasce interne la sua vita esteriore
si svolgeva come se nulla fosse, fra studi, esercizi divoti, opere di zelo
e lavori manuali per guadagnarsi da vivere, sicché nessuno aveva sentore
delle sue pene.
Il pensiero di Dio, quando signoreggia un'anima, la
rende padrona di sé e quindi abitualmente calma nelle sue manifestazioni
esteriori, quand'anche nel proprio segreto si senta conturbata.
L'autorità di Don Cafasso li per li impose silenzio
alle dubbiezze; ma in seguito, facendo nuove letture sulla vocazione, fu
da capo alle prese con se medesimo. Sarebbe tornato a picchiare dai
Francescani, se un caso occorsogli, non sappiamo quale, non avesse
accelerato l'epilogo; egli ci dice solo che, stante il moltiplicarsi di
ostacoli duraturi, deliberò di esporre tutto al Comollo. Veramente reca
un po' di meraviglia il vedere, come, per mettere l'amico a parte del suo
dramma interiore, ci fosse voluto tanto tempo e si ponderata
deliberazione. Però l'intimità buona non costituisce di per sé un
titolo di competenza in materie così delicate; d'altro canto, Giovanni,
con tutta la sua ricchezza d'idee e facilità nel comunicarle, era
tutt'altro che un giovane loquace.
Allora dunque insieme pregarono, insieme si
accostarono ai santi sacramenti, di comune accordo consultarono per
iscritto un esimio sacerdote, zio del Comollo. Questi, proprio l'ultimo
giorno d'una novena alla Madonna, così rispondeva al nipote: «Considerate
attentamente le cose esposte, io consiglierei il tuo compagno di
soprassedere dall'entrare in un convento. Vesta egli l'abito chiericale, e
mentre farà i suoi studi, conoscerà vie meglio quello che Dio vuole da
lui. Non abbia alcun timore di perdere la vocazione, perciocché con la
ritiratezza e con le pratiche di pietà egli supererà tutti gli ostacoli».
Studio, ritiratezza, pietà: non era stata sempre questa la sua vita di
Chieri? Come Don Cafasso, come lo zio del Comollo, così anche il suo
parroco opinava per l'ingresso nel seminario, rimandando a età più
matura il decidersi o no per la vita religiosa. Tutto questo valse a
rasserenare l'orizzonte; quindi «mi sono seriamente applicato, scrive, in
cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chiericale».
Vestirsi chierico non fu per Giovanni Bosco mera
cerimonia. Dal raccoglimento e dalla preghiera, in cui si seppe
concentrare senza isolarsi - attendeva infatti a una cinquantina di
giovinetti che lo amavano e gli obbedivano, ce lo dice egli stesso, come
se fosse loro padre - uscì spiritualmente preparato e tutto compreso
dell'importanza di quel sacro rito. I pii sentimenti avuti durante la
funzione palpitano vivi nella paginetta delle "Memorie" che per
buona sorte ce ne ha serbato il ricordo.
«Quando il prevosto mi comandò di levarmi gli abiti
secolareschi con quelle parole: Exuat te Dominus veterem hominem cum
actibus suis, in cuor mio: - Oh, quanta roba vecchia, c'è da togliere!
Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini. Quando poi nel
darmi il collare aggiunse: Induat te Dominus novum hominem, qui secundum
Deum creatus est in iustitia et sanctitate veritatis, sentii tutto
commosso e aggiunsi tra me: - Sì, o mio Dio, fate che in questo momento
io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che la
giustizia e la santità siano l'oggetto costante dei miei pensieri, delle
mie parole e delle mie opere. Così sia. O Maria, siate la salvezza mia ».
A coronare l'opera, egli si scrisse e prescrisse un
regolamento di vita chiericale in sette articoli; il sesto era così
concepito: «Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di
fare ogni giorno un poco di meditazione ed un poco di lettura spirituale».
Affinché quindi i buoni propositi non restassero lettera morta, vi si
volle astringere con vincolo solenne; perciò, inginocchiatosi davanti a
un'immagine della Beata Vergine, vi lesse i singoli articoli e dopo una
fervida preghiera fece «formale promessa a quella Celeste Benefattrice di
osservarli a costo di qualunque sacrificio».
Si sarà notato qui sopra, che pietà e spirito di
preghiera si alternano indifferentemente, quasi fossero una cosa identica.
A ben chiarire le idee giovi osservare, come lo spirito di preghiera si
esplichi ordinariamente in quel complesso di atti, con cui si onora Dio e
che nell'uso corrente vanno sotto la denominazione generale di pietà;
cosicché o quello si risolve in questa o, se vi si vuol ravvisare una
differenza, diremo spirito di preghiera una pietà profonda, abituale e
sentita.
Giacché poi siamo entrati in quest'argomento,
aggiungeremo ancora un'osservazione, opportuna per noi. Secondo che nella
pietà si attribuisca a un elemento la prevalenza su gli altri, la pietà
stessa permetterà di venir contrassegnata con qualificativi specifici.
Sotto questo riguardo si è creduto di poterne fare classificazioni per
ordini religiosi, chiamando, ad esempio, liturgica la pietà benedettina,
affettiva la francescana, dogmatica la domenicana, pietà delle massine
eterne quella dei Liguorini.
Conformandoci al medesimo criterio, quale diremo
annunciarsi fin d'ora nella pratica di Giovanni Bosco la futura pietà
salesiana? Non sembra già scorgere alla lontana le prime linee di una
pietà destinata a guadagnarsi il titolo di sacramentale, per la parte
sovreminente che vi sarà fatta alla confessione e alla comunione? Mercè
appunto questi due sacramenti, ricevuti con frequenza non mai usata per
l'addietro, il fondatore dei Salesiani dischiuderà sopra le sue
istituzioni le cateratte della grazia.
CAPO III. - Nel seminario.
Il seminario dell'archidiocesi torinese era allora a
Chieri; Giovanni Bosco vi entrò il 30 ottobre 1835 in età di vent'anni.
Osservatore pronto e sagace, il giovane chierico in
un batter d'occhio si fece un'idea esatta del luogo, delle persone e delle
cose. Vi s'informò premurosamente degli esercizi di pietà. Bene per la
messa, la meditazione, la terza parte del rosario, quotidiane; bene anche
per la confessione, settimanale; meno bene invece per la comunione, che si
poteva ricevere soltanto nelle domeniche e in solennità speciali.
Per andarvi qualche altra volta lungo la settimana
bisognava commettere una disobbedienza: si doveva cogliere l'ora di
colazione e infilare di soppiatto la porta che metteva in una chiesa
attigua. Ma poi, appena finito il ringraziamento, non c'era tempo da
perdere per raggiungere i compagni, che tornavano allo studio e alla
scuola; sicché in tali casi fino a pranzo si restava con lo stomaco
digiuno. Questa infrazione di regolamento sarebbe stata a buon diritto
proibita; ma nel fatto i superiori vi davano tacito consenso, giacché lo
sapevano benissimo e a volte anche vedevano e non dicevano nulla.
Così gli fu possibile frequentare a suo piacimento
la santa eucaristia, che egli dichiara essere stata il più efficace
alimento della sua vocazione.
Nutrito col pane degli Angeli, lo spirito
ecclesiastico del buon seminarista si veniva formando sotto il soave
influsso della sua divozione a Maria Santissima. Portava egli
profondamente scolpite nella memoria e nel cuore le ultime parole dettegli
dalla madre prima che partisse per il seminario.
Popolana illetterata, essa possedeva però in grado
eminente quel sensus Christi, che è sapienza infusa dall'alto e
attitudine a giudicare veracemente delle cose divine, quale si riscontra
in tante anime semplici con meraviglia dei profani, ma senz'ombra di
sorpresa per chi sappia che sono i doni dello Spirito Santo.
Giovanni dunque, com'egli racconta nelle Memorie
aveva ricevuto dall’amata sua genitrice questo grande ammonimento:
Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai
cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la divozione a questa nostra
Madre; ora ti raccomando di essere tutto suo: ama i compagni divoti di
Maria; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga mai sempre la
divozione di Maria». Memore del saggio avviso materno, egli ebbe cura di
associarsi a compagni «divoti della Vergine, amanti dello studio e della
pietà».
Parecchi di quei compagni a lui sopravvissuti
deposero chi su gl'irresistibili suoi inviti a seguirlo in chiesa per
recitare il vespro della Madonna o altre preghiere in onore della gran
Madre di Dio, chi sul suo fervore nel tradurre e illustrare familiarmente
inni liturgici indirizzati a Maria, chi sull'amabile piacevolezza, con cui
ne celebrava le glorie, raccontando nelle ore di ricreazione esempi
edificanti. Ancora studente di filosofia, si stimò ben felice di dover
salire la prima volta il pulpito per tenere un discorso sulla Madonna del
Rosario, primizia di quella multiforme predicazione mariana, che sarebbe
stata sua delizia fino alla vecchiaia.
Ripetute volte dopo d'allora Giovanni Bosco, semplice
chierico, montò in pergamo: giacché, vista la sua franchezza, si
ricorreva a lui in casi disperati durante le ferie estive, né egli si
sgomentava o si faceva molto pregare. Il fatto merita attenzione. Ognuno,
dice il vecchio aforismo, è abbastanza buon parlatore nelle cose che sa
bene; pectus disertos facit, un altro aforismo non meno antico, quasi
completando il primo, la vera facondia cioè viene dal cuore. Nel chierico
Bosco entrambi gli elementi concorrevano fin d'allora a formare l'oratore
sacro.
Fra i suoi propositi della vestizione aveva messo
anche questo: «Siccome nel passato ho servito al mondo con letture
profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle
letture di cose religiose». Di cose religiose, si badi bene, non
ascetiche o spirituali, non mai intermesse. Orbene, durante il ginnasio
egli aveva letto avidamente i classici italiani e latini per arricchire la
sua cultura profana o letteraria che si voglia dire, mosso da quegli alti
sensi ond'è ispirata un'intelligenza come la sua verso tutto ciò che sia
idealmente bello e grande; nel seminario invece faceva usura del tempo per
divorare opere anche voluminose di storia ecclesiastica, di catechetica e
di apologia.
È poi risaputo che, data la sua memoria tenacissima,
per lui «leggere era ritenere»; lo asserisce egli medesimo. Tante
letture per altro non gli giovavano solo a procacciarsi un'arida e sterile
erudizione, ma soprattutto per «servire a Dio», in quanto che al
contatto della sua anima ardente d'amor divino le cose lette gli si
convertivano in calore vitale di fede e di zelo. Onde in lui scienza della
religione e scienza dei Santi traevano reciproco vantaggio da tali
sussidi, procedendo normalmente di conserto; ecco perché, presentandosi
occasioni di predicare anche all'improvviso, non gli mancava né materia né
ardore, ma pochi istanti di raccoglimento e di preghiera gli bastavano per
sentirsi pronto.
Del resto, Giovanni Bosco non predicava
continuamente? Se, prescindendo dall'idea solenne risvegliata in noi dal
verbo predicare, facciamo astrazione da un pubblico adunato in chiesa
attorno alla cattedra di verità, e ci restringiamo all'elemento
essenziale del suo significato, che è annunziare la parola di Dio, non
sarà predicatore ogni seminatore solerte della buona parola? In tal
senso, che abile, che instancabile predicatore non fu il chierico Bosco
nel seminario di Chieri! Osserviamolo.
Moltissimi giovinetti della città corrono al giovedì
a visitarlo; egli scende, s'intrattiene allegramente con loro come prima,
discorre di scuola e di studio, ma anche di sacramenti, e non li licenza
se non dopo averli condotti in chiesa per una breve preghiera. Ai
condiscepoli, che vedono e che un giorno ricorderanno, suole ripetere: «Bisogna
sempre introdurre nelle nostre conversazioni qualche pensiero di cose
soprannaturali; è un seme che a suo tempo darà frutto».
Tra siffatti semi egli mescola anche pensieri sulla
vocazione allo stato ecclesiastico, secondo che il suo sguardo scrutatore
ne scorge l'opportunità. Inoltre, insegnare la dottrina cristiana ai
fanciulli si direbbe che sia la sua passione; egli non si lascia mai
sfuggire l'occasione di far catechismi! Anzi s'ingegna di farne nascere
quante più può di tali occasioni.
Seminatore di parole buone anche entro il recinto
sacro. Nelle ricreazioni più lunghe i chierici di miglior condotta
tengono circoli scolastici; questa consuetudine gli piace assai, perché,
oltre che allo studio, la sperimenta assai giovevole alla pietà. Si
stringe così intorno a lui un gruppo di intimi, una specie di santa lega
per l'osservanza delle regole e per l'applicazione allo studio, ma insieme
per infervorarsi l'un l'altro nella vita spirituale. Tuttavia anche fuori
di questi convegni le sue conversazioni finiscono d'ordinario
nell'argomento prediletto, quasi sale, cui con grazia asperge ogni
discorso.
- Parlava volentieri di cose spirituali, - attesterà
uno degli assidui. E poi c'è la vena inesauribile dei racconti, coi quali
incanta e incatena. Non mancò mai, nei cinque anni che fui suo
condiscepolo, dirà ancora l'incanutito amico, alla risoluzione presa di
raccontare ogni giorno un esempio tratto dalla storia ecclesiastica, dalla
vita dei Santi e dalle glorie di Maria. La risoluzione qui accennata
entrava nel programma di vita chiericale, che già conosciamo. Insomma,
bisogna avere il cuore pieno di Dio, per parlare di Dio così, quasi ad
ogni aprir di bocca.
Il più costante degli esterni nelle visite al
chierico Bosco e il più aspettato di tutti era naturalmente nel primo
anno di seminario Luigi Comollo, che frequentava allora l'ultima classe
ginnasiale. Degni sempre l'uno dell'altro, non avevano segreti fra loro;
entrambi amanti di Dio, si comunicavano i propri disegni per una vita da
consacrare interamente alla salute delle anime. È facile perciò
immaginare qual buona compagnia si facessero, dopo che si ritrovarono
uniti nel seminario. Qui per fortuna le fonti d'informazione non
iscarseggiano; possiamo perciò tener dietro un po’ da presso ai due
amici e così indagare meglio la vita seminaristica di Giovanni Bosco in
quello che c'interessa.
L'uniformità regolamentare fa si che le giornate del
seminarista più o meno si rassomiglino, né, generalmente parlando, vi
trovano favore le spiccate manifestazioni di tendenze individuali. Per
giunta, il chierico Bosco, a detta d'un suo vecchio professore, progrediva
bensì notevolmente nello studio e nella pietà, ma «senz'averne le
apparenze, a cagione di quella sua bonarietà, che fu poi la
caratteristica di tutta la sua vita». Onde nel seminario agli occhi dei
più egli passò incompreso, sicché ci vollero gli sviluppi posteriori,
perché quei d'allora, richiamando alla mente le cose remote, capissero ciò
che non avevano capito prima e dicessero quindi come disse un altro
professore di Giovanni: «Io lo ricordo, quand'era mio scolaro; era pio,
diligente, esemplarissimo. Certo nessuno a quel tempo avrebbe pronosticato
di lui quel che è adesso. Ma debbo dire che il suo dignitoso contegno,
l'esattezza con cui adempiva i doveri suoi di scuola e di religione, erano
cosa esemplare».
Peccato che di così preziosi testimoni il tempo
inesorabile abbia troppo presto assottigliato il numero o indebolita la
memoria! A buon conto, profittiamo di quanto ci è pervenuto attraverso le
notizie sicure che si possiedono circa i suoi amichevoli rapporti col
chierico Comollo.
Studio e pietà, scuola e religione: ecco dove
anzitutto i due bravi chierici andavano pienamente d'accordo. Nei giovani
di bell'ingegno l'amore allo studio minaccia da tre lati la pietà.
Primieramente, l'attività mentale, dominando lo spirito, lo popola
d'idee, la cui associazione distrae non poco durante i pii esercizi. Poi,
i buoni risultati sollecitano la vanità giovanile, che a poco a poco, in
chi vi cede, fa svanire la soave unzione della grazia. Infine gli studiosi
appassionati cadono facilmente nella tentazione di accorciare la durata
della preghiera o di mendicare pretesti per esimersene al possibile,
proclivi come sono a stimar perduto il tempo che non impieghino al
tavolino.
Nelle Congregazioni religiose i chierici passano agli
studi dopo un periodo di apposita preparazione spirituale, che insegna
loro a mettere la pietà in capo a tutto; ma i seminaristi, indossato
l'abito chiericale, ripigliano il giorno dopo la vita di studenti, sicché,
se si affezionano sul serio ai libri e ai maestri, non hanno quasi più
testa per la chiesa e le pratiche di pietà, o almeno stentano grandemente
a prendervi gusto.
Il chierico Bosco la vinceva sull'amico in vigore di
mente; ma nell'ardore per lo studio e per la pietà se la intendevano fra
loro a meraviglia. Riguardando lo studio come un dovere e ben sapendo che
anche nei doveri c'è una graduatoria, assegnavano le prime parti ai
doveri verso Dio. Convinti inoltre che per ecclesiastici lo studio è
mezzo, non fine a sé, e mezzo di second'ordine per far bene alle anime,
dovendosi mandare innanzi a tutto il resto la santità della vita, erano
lungi mille miglia dal subordinare all'amor del sapere lo spirito di
preghiera; onde il mutuo aiutarsi a progredire nella vita interiore. «Finché
Dio conservò in vita questo incomparabile compagno, scrive Don Bosco, gli
fui sempre in intima relazione. Io vedevo in lui un santo giovanetto; lo
amava per le sue rare virtù; e quando ero con lui, mi sforzava di
imitarlo in qualche cosa, ed egli poi amava me, perché lo aiutava negli
studi».
In una sola cosa accidentalissima, ma rivelatrice,
Giovanni Bosco manteneva il suo modo di vedere. Luigi Comollo, divoto
com'era di Gesù Sacramentato, accostandosi con il massimo raccoglimento
alla sacra mensa, dava in sussulti di commozione; indi, tornato al suo
posto, sembrava che fosse fuori di sé, pregando fra singhiozzi, gemiti e
lacrime, né riavendosi da quei trasporti di pietà se non al termine
della messa. Giovanni avrebbe voluto che egli si frenasse per non dar
nell'occhio; l'altro invece rispondeva che, se non avesse dato sfogo alla
piena degli affetti, gli sarebbe parso di soffocare. Ne rispettò
l'ardente divozione, ma per conto suo si sentiva avverso a quanto avesse
aria di singolarità o destasse ammirazione.
La pietà non meno accesa aveva differente aspetto.
Nell'andare e tornare dalla comunione, nulla di eccezionale; dopo, nel
fare il ringraziamento, restavasene immobile, con la persona dritta, il
capo leggermente chino, gli occhi chiusi e le mani giunte dinanzi al
petto. Non un segno di emozione, non un sospiro; solo di quando in quando
un tremar delle labbra, che proferivano qualche muta giaculatoria. La fede
però ne illuminava tutto il sembiante.
Fuori del seminario, nei mesi di vacanza, i due amici
s'indirizzavano frequenti lettere e si scambiavano visite, in cui le cose
spirituali solevano formare l'argomento favorito. Uno dei documenti più
notevoli intorno alle loro sante relazioni è la biografia del Comollo,
morto in fresca età durante il secondo anno di teologia; Don Bosco,
scrivendola, vi celò se stesso sotto l'appellativo impersonale di «intimo
amico».
La storia naturalmente deve fare le sue riserve
sull'abitudine dell'autore a rappresentare quest'«intimo amico» sempre e
solo a mezz'ombra e il Comollo in piena luce: non mancano altrove notizie
per appurar il vero; ma una conclusione intanto ne balza fuori certissima,
ed è che essi erano proprio due anime in un nocciolo: segno evidente che
li affratellava intima conformità di spirito. Pares cum paribus.
Abbiamo fatto menzione delle vacanze. «Un gran
pericolo pei chierici, scrive Don Bosco, sogliono essere le vacanze, tanto
più in quel tempo che duravano quattro mesi e mezzo». Egli si prefiggeva
ogni volta di santificarle, conservando integro il fervore del seminario.
Tolto il primo anno, in cui lo trascorse presso i Gesuiti a Montaldo,
facendovi da ripetitore di greco in una classe di convittori e da
assistente in una camerata, negli anni successivi il suo tenor di vita
durante le ferie, quale ci risulta da testimoni e documenti autorevoli, si
riassumeva in due parole: fuggire l'ozio e attendere a pratiche divote.
Per non vivere in ozio divideva il tempo fra lo
studio, i lavori manuali, consigliatigli anche da bisogni di salute, e le
ripetizioni scolastiche. Da paesi vicini si recavano presso di lui a
gruppi o separatamente e in ore diverse del giorno studenti, che
desideravano esercitarsi un po’ più nelle materie studiate o prepararsi
bene ai loro nuovi corsi. Egli vi si prestava di buon grado; ma ecco la
testimonianza di un professore che era stato del bel numero: «La prima
lezione era quella dell'amor di Dio e dell'obbedienza ai suoi
comandamenti, e non finiva mai la scuola senza esortarli alla preghiera,
al timor del Signore ed a fuggire il peccato e le occasioni di peccare».
Quanto alle pratiche divote, nulla di straordinario,
secondo il suo costume, ma fedele osservanza di quelle proprie della vita
chiericale: meditazione, letture spirituali, rosario, visita al Santissimo
Sacramento, assistenza quotidiana alla santa messa, frequente confessione,
frequentissima comunione. Si prestava poi volenteroso a servire in
qualsiasi funzione sacra. Tutte le domeniche faceva con zelo ed efficacia
il catechismo ai giovanetti in parrocchia. Ogni volta che udisse la
campana dare i tocchi del santo Viatico, s'avviava prontamente alla
chiesa, distante tre chilometri, si metteva la cotta, prendeva l'ombrello
e accompagnava il Santissimo. Né si dispensava dall'assistere alle
predicazioni parrocchiali. Conscio infine dell'importanza inerente al buon
esempio, serbava dovunque e con chicchessia un contegno composto e
inappuntabile, talché i suoi conterrazzani l'avevano in altissimo
concetto.
L'assodarsi in lui dello spirito ecclesiastico, che
è interiore ed esteriore santità di vita, emerge ancora da
caratteristici episodi che ne infiorano la biografia, ma che sarebbe fuor
di luogo riferire qui anche per sommi capi. Fa invece direttamente al
nostro scopo prendere conoscenza delle disposizioni spirituali, con cui
andò ricevendo gli Ordini sacri.
Pressoché al termine della sua carriera mortale,
parlando di quel punto decisivo che nella vita di un ecclesiastico è il
suddiaconato, egli ci palesa l'animo suo con espressioni, in cui non
sapremmo che cosa maggiormente ammirare, o la sua estrema delicatezza di
coscienza o la stima profondissima che aveva dello stato sacerdotale,
frutto l'una e l'altra del suo vedere costantemente le cose in Dio «Ora
che conosco le virtù, scrive, che si richiedono per quell'importantissimo
passo, resto convinto che io non ero abbastanza preparato; ma non avendo
chi si prendesse cura diretta della mia vocazione, mi sono consigliato con
Don Cafasso, che mi disse di andare avanti e riposare sulla sua parola.
Nei dieci giorni di spirituali esercizi tenuti nella
Casa della Missione in Torino ho fatto la confessione generale, affinché
il confessore potesse avere un'idea chiara della mia coscienza e darmi
l'opportuno consiglio. Desiderava di compiere i miei studi, ma tremava al
pensiero di legarmi per tutta la vita; perciò non volli prendere
definitiva risoluzione, se non dopo aver avuto il pieno consentimento del
confessore. D'allora in poi mi sono dato il massimo impegno di mettere in
pratica il consiglio del teologo Borel: - con la ritiratezza e la
frequente comunione si conserva e si perfeziona la vocazione -». Il buon
sacerdote torinese aveva risposto così a una domanda del chierico durante
un corso di esercizi spirituali da lui predicati nel seminario.
Concordano con queste espressioni anche le notizie di
cui andiamo debitori a un suo carissimo condiscepolo e intimo amico,
divenuto più tardi suo confessore fino al letto di morte. Deponendo su
gli esercizi spirituali fatti dal diacono Bosco in preparazione al
presbiterato, egli ne parla in questi termini: «Li fece in modo
edificante. Era compreso, in modo straordinario, delle parole del Signore,
che udiva nelle prediche, e specialmente in quelle espressioni che
indicavano la grande dignità che avrebbe fra poco conseguita».
A ricordo perenne di quel sacro ritiro si fissò in
carta nove propositi, il penultimo dei quali diceva così: «Ogni giorno
darò qualche tempo alla meditazione e alla lettura spirituale. Nel corso
della giornata farò breve visita, o almeno una preghiera al Santissimo
Sacramento. Farò almeno un quarto d'ora di preparazione e altro quarto
d'ora di ringraziamento alla santa messa».
Questo secondo programma di vita non apporta nulla di
sostanzialmente nuovo dopo l'altro già noto, ma solo v'introduce
modificazioni accidentali richieste dalle circostanze. Gli è che Don
Bosco non si mosse mai a tentoni, come chi cammini al buio, neanche nei
primi albori della ragione. Se fosse lecita una piccola facezia, di quelle
che piacevano tanto a Don Bosco, diremmo che in lui non tardò come in
tanti altri a spuntare il dente del giudizio. Infatti, dacché l'età gli
accese nell'anima il primo barlume di ragione, tosto egli scoprì quale
fosse per lui la strada giusta e vi entrò difilato, tirando avanti nei
modi e con i mezzi, che di mano in mano il suo buon discernimento
naturale, avvalorato dalla divina grazia, gl'indicava migliori. Entrambi
perciò i programmi poggiano, per dir così, sopra i quattro capisaldi,
sui quali la santità di Don Bosco si verrà erigendo: lavoro e preghiera,
mortificazione interna ed esterna, e poi, com'egli amerà pudicamente
esprimersi in seguito, la bella virtù.
Nel programma nuovo si delinea meglio la parte
dell'azione. Da sacerdote Don Bosco, stando a queste risoluzioni, non farà
mai passeggiate, se non per grave necessità, per visite a malati e
simili; occuperà rigorosamente bene il tempo: «patire, fare, umiliarsi
in tutto e sempre, quando trattasi di salvare anime»; non darà al corpo
più di cinque ore di sonno ogni notte; lungo il giorno, specialmente dopo
il pranzo, non si concederà alcun riposo, tranne in caso di malattia. Ma
l'azione non sarà mai scompagnata dall'orazione; come nel passato, così
sempre la meditazione avrà il suo posto nell'attività d'ogni giorno. Sì,
nella meditazione quotidiana, incontro d'ogni di con se stesso, il
sacerdote assediato dalle occupazioni attingerà lo spirito di
raccoglimento e di preghiera, di cui avrà stretto bisogno per mantenere
in sé viva la fede, per tenersi abitualmente unito al Sacerdote Sommo Gesù
Cristo, del quale è ministro, e per riceverne copiose grazie
nell'esercizio del sacro ministero.
Non mai dunque Marta senza Maria nella vita
sacerdotale di Don Bosco. Sarà ora Marta orante, ora Maria operante:
Marta in orazione finché durerà per lui il periodo dell'attività più
intensa, e Maria nell'azione, verso il tramonto dei suoi giorni, quando
quell'attività sarà ridotta ai minimi termini; ma nell'un tempo e
nell'altro, non fu mai dimenticato da lui il sine intermissione orate.
CAPO IV. - Nei principi della sua missione.
I fisici, per istabilire quale sia la costituzione
sostanziale di un astro, usano un mirabile procedimento. Fanno passare
attraverso un prisma la luce che irraggia dall'astro; il fascio dei raggi
luminosi, attraverso il prisma, si scompone, producendo una traccia
allungata e variamente colorata, che va a cadere su d'uno schermo bianco e
si chiama spettro. L'analisi delle tinte componenti lo spettro permette
allo scienziato di cogliere nel segno; a tanta immensità di lontananza
non c'è fino ad oggi altro mezzo per venirne a capo.
In Don Bosco, anima piena di Dio, lo spirito di
preghiera non aveva manifestazioni tali che dessero la percezione
immediata della sua natura e intensità; per conoscere il carattere e
misurarne il grado è dunque necessario sottoporre a diligente esame gli
atti della sua vita ordinaria.
Pochi uomini furono così straordinari sotto così
ordinarie apparenze. Nelle cose grandi come nelle piccole, sempre la
medesima naturalezza, che di primo tratto non rivelava in lui nulla più
d'un buon prete.
Nei primordi, solo chi per consuetudine di vita
poteva aver agio d'osservarne l'abituale presenza a se stesso in qualsiasi
momento o incontro o accidente o intrapresa e aveva insieme occhio acuto
per discernere l'efficacia del suo operare ovvero chi possedeva il
difficile intuito che distingue prontamente uomo da uomo, come fu del Papa
Pio XI, concepiva di Don Bosco tutta quanta l'ammirazione ch'ei si
meritava. Qual meraviglia perciò, se alcuni non lo compresero tosto e se
altri perfino lo fraintesero o lo intesero a rovescio? Pochi invero questi
ultimi, e sempre più rari con l'andar del tempo; ma vi furono in realtà
dei cotali.
Per restringerci al nostro assunto, diremo che negli
anni della sua massima attività non tutti s'avvidero che uomo d'orazione
fosse Don Bosco; anzi, oseremmo aggiungere che non sempre neppur coloro
che scrissero delle cose sue, penetrarono a fondo il suo intimo spirito di
preghiera, solleciti di narrarne i fatti grandiosi. Per altro, il
materiale biografico a noi trasmesso si presta egregiamente alle indagini
di chi si accinga a scrutarne la vita interiore. È il tentativo, nel
quale modestamente insisteremo con queste pagine.
Spontanea espansione soprannaturale dell'anima di Don
Bosco appena fatto sacerdote fu l'oratorio festivo. Non creò di sana
pianta la cosa, non coniò di primo getto il vocabolo. C'erano i
catechismi domenicali ai giovani delle singole parrocchie; esistevano
oratori di san Filippo Neri e di san Carlo Borromeo.
Don Bosco, quando per le condizioni dei tempi tanti
giovani non conoscevano più parrocchie, organizzò oratori
interparrocchiali, dove raccogliere le pecore randagie; Don Bosco ai
catechismi coordinò tutta una serie di pratiche, le quali riempissero
l'intero giorno del Signore. Dal suo grande amor di Dio veniva a Don Bosco
un sentimento vivissimo dell'evangelico sinite parvulos, più che allora
vedeva prepararsi alla gioventù insidie da molte parti e in molti modi;
«la mia delizia, dic'egli descrivendo i primordi del suo sacerdozio, era
fare il catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro».
Sembrerebbe perfino che i fanciulli medesimi sentissero istintivamente il
fascino di quella dilezione salvatrice; poiché, stabilito che ci fu a
Torino, «subito, scrive, mi trovai una schiera di giovanetti che mi
seguivano per i viali e per le piazze». Sicché l'adunarne in gran numero
gli costò fatica assai minore che non l'avere dove raccoglierli.
Il suo zelo mira a un fine solo: unirli tutti a Dio
mediante l'obbedienza ai divini comandamenti e alle leggi della Chiesa.
Onde procurava anzitutto di ottenere che osservassero il precetto di
ascoltare la messa nei giorni festivi; che imparassero poi e dicessero le
orazioni del mattino e della sera; che per ultimo fossero preparati a
confessarsi e comunicarsi bene. Frattanto avviava bel bello l'istruzione
religiosa per mezzo di catechismi e predicazioni che si confacessero alla
capacità loro.
Contemporaneamente inventava tutta una varietà di
trastulli, che agissero da calamite per aumentare il numero e assicurare
la frequenza; sebbene la calamita più attraente fosse egli stesso con la
sua inesauribile bontà. Così il giorno festivo poteva dirsi in tutto il
senso della parola dies sanctificatus. E ottimamente si attagliava a
questi convegni festivi il nome di oratori prescelto fra diversi altri da
Don Bosco, perché appieno rispondente al suo ideale.
Il termine, divenuto popolarissimo in Italia, aspetta
ancora dai dizionari della lingua la significazione nuova accanto alla
vecchia di piccolo edifizio! L'oratorio di Don Bosco è domus spiritualis,
su de viventibus saxis, sono centinaia di fanciulli, di giovinetti, di
adolescenti, affollantisi dovunque vi sia chi se li chiami attorno nei
giorni del Signore ad adorar Dio e ad imparare ad adorarlo per tutta la
vita.
E come la pietà di Don Bosco si effondeva nel fare
il suo Oratorio! Cominciò l'8 dicembre del 1841 con un giovane solo.
Ebbene, avanti d'impartirgli la prima lezioncina di catechismo, si pose in
ginocchio e disse un'Ave Maria alla Madonna, perché lo aiutasse a salvare
quell'anima. Commovente e feconda preghiera! L'8 dicembre dell'85, tenendo
conferenza ai Cooperatori e paragonando il già fatto con lo stato delle
cose di quarantaquattro anni addietro, dichiarerà essere tutto opera di
Maria Ausiliatrice in grazia proprio di quell'Ave Maria «detta con
fervore e con retta intenzione». E realmente i primi effetti non si
fecero aspettare a lungo.
La domenica dopo, quell'uno tornò, e non più solo,
ma con un gruppetto di compagni, poveri ragazzi di strada come lui, da Don
Bosco accolti e intrattenuti con la sua amabilità piena d'incanto. Da una
settimana all'altra il numero di catechizzandi cresceva, e col numero la
docilità e l'allegria non venivano meno.
Nella solennità del Natale parecchi già fecero la
santa comunione; poi, in due feste di Maria Santissima, la Purificazione e
l'Annunziata, bei cori di voci giovanili, da lui abilmente addestrate,
eseguirono canti in lode dell'Augusta Madre di Dio, e bei drappelli dei più
istruiti si accostarono ai santi sacramenti. Don Bosco toccava proprio il
cielo col dito.
Queste prime rumorose adunanze si tenevano in luogo
di silenzio, se non claustrale, almeno solo rotto a tempo debito e con
moderazione, nel Convitto Ecclesiastico di Torino, ove si dava l'ultima
mano alla formazione ecclesiastica di novelli sacerdoti piemontesi,
mediante lo studio approfondito della teologia orale e pastorale e
l'esercizio del sacro ministero, sotto la scorta di espertissime guide,
fra cui primeggiò il beato Giuseppe Cafasso.
Lo zelante apostolo della gioventù non poteva trovar
di meglio per allenarsi alla sua missione. I tre anni ivi trascorsi
contribuirono potentemente a formare lo spirito in maniera definitiva. La
grazia, che la Provvidenza gli fece col metterlo vicino a quel santo
plasmatore di anime sacerdotali, non restò infruttifera.
Alla scuola del Beato egli succhiò avidamente quella
pietà, che per soprannaturale intuito egli aveva già pregustata a
dispetto dell'andazzo dei tempi, pietà fatta di «confidenza illimitata
nella bontà e amorevolezza di Dio verso noi»; dalle sue conferenze
teologiche e dalla sua direzione spirituale apprese la maniera di
ascoltare le confessioni «con pietà, scienza e prudenza»; nelle sue
lezioni di eloquenza sacra si sentì ribadire, che in pulpito non si va a
dar prova di bravura, ma che «paradiso vuol essere, osservanza dei divini
comandamenti, preghiera, divozione alla Madonna, frequenza dei santi
sacramenti, fuga dell'ozio, dei cattivi compagni, delle occasioni
pericolose, carità col prossimo, pazienza nelle afflizioni, e non
terminare alcuna predica senza un cenno sulle massime eterne».
Condivise al suo fianco l'assistenza religiosa dei
carcerati e partecipò con lui a corsi d'esercizi spirituali,
infervorandosi alla vista della sua pietà ardente fra le opere di zelo.
Anche nelle quotidiane conversazioni ne beveva i saggi ammaestramenti
sulla «maniera di vivere in società, di trattare col mondo senza farsi
schiavo del mondo, e diventar veri sacerdoti forniti delle necessarie virtù,
ministri capaci di dare a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che
è di Dio».
Ma a Dio non si sottrae solo per dare indebitamente a
Cesare. L'essere sempre in moto per far bene può, a lungo andare,
purtroppo illudere, lasciando supporre che il prodigarsi a vantaggio del
prossimo dispensi dall'obbligo di trattare assiduamente e interiormente
con Dio.
È di questo tempo un codicillo, chiamiamolo così,
aggiunto da Don Bosco al suo noto programma di vita sacerdotale e
dettatogli molto probabilmente da quella maestra di assennatezza che è,
per chi la sa intendere, l'esperienza. Lo riferiamo tale quale si legge in
un suo libretto; eccolo: «Breviario e confessione. Procurerò di recitare
divotamente il Breviario e recitarlo preferibilmente in chiesa, affinché
serva come di visita al Santissimo Sacramento. Mi accosterò al sacramento
della penitenza ogni otto giorni e procurerò di praticare i proponimenti
che ciascuna volta farò in confessione. Quando sarò richiesto di
ascoltare le confessioni dei fedeli, se vi è premura, interromperò il
santo ufficio e farò anche più breve la preparazione ed il
ringraziamento della messa, a fine di prestarmi ad esercitare questo sacro
ministero».
Lo spirito di orazione, quando sia passato in
consuetudine, dà alla persona un'impronta di serena compostezza e un
vigile senso della giusta misura, che saltano facilmente agli occhi di
osservatori non troppo superficiali. Era il caso di Don Bosco.
Al Convitto si recavano periodicamente dal beato
Cafasso per la loro direzione spirituale uomini d'affari, pezzi grossi
della politica e della nobiltà torinese, personaggi del gran mondo
insomma. Orbene da parte di quella gente navigata Don Bosco richiamò
sopra di sé l'attenzione a tal segno, che lo riguardavano fin d'allora
come «un uomo tutto del Signore» e l'avevano «in grande venerazione»,
secondo che lo storico di lui potè raccogliere direttamente dalle labbra
d'alcuni di quei signori.
CAPO V. - Nella seconda tappa della sua missione.
In seminario Don Bosco aveva fatto una conoscenza,
che gli doveva riuscire preziosa: un teologo Borel di Torino, venuto ivi a
dettare gli esercizi spirituali. «Egli apparve in sacrestia, scrive Don
Bosco, con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite con pensieri
morali». Dicono che la prima impressione sia la vera; può darsi che non
sia sempre così, tanto di soggettivo suol entrare in un'impressione; ma
quella fu ottima e verissima. Infatti si ebbe la riprova. Il prete si
rivela prete in iis, quae sunt ad Deum; lì si discerne, se il prete è
uomo di pietà o povero abitudinario.
Il chierico Bosco, avendone osservato «la
preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore
nella celebrazione», si accorse «subito» che era «degno ministro di
Dio». Notevole quel «subito», che ci fa pensare all’intelligenti
pauca. In cose di pietà, il chierico Bosco era buon intenditore e capiva
a volo. Quando poi lo udì predicare, lo giudicò senza più «un santo»;
volle quindi «conferire con lui sulle cose dell'anima». Volle, dunque vi
s'indusse di sua spontanea volontà: e che cosa volle?
Volle non solo confessarsi, com'è uso, ma conferire,
che è avere colloqui intimi e importanti; e questi versarono su cose
dell'anima, vale a dire intorno ai bisogni della vita spirituale.
Il ricordo di quegli esercizi rimase profondamente
scolpito nell'animo di Don Bosco; onde nei tre anni del Convitto si
stimava felice ogni volta che avesse occasione di scambiare qualche parola
con l'esemplare sacerdote, il quale dal canto suo, conoscendolo bene, lo
invitava volentieri a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a
predicare insieme con lui: inviti non infrequenti, data la proverbiale
attività del suo zelo, gli metteva l'argento vivo addosso, tanto da farlo
chiamare presso i colleghi «il bersagliere di santa Chiesa». Erano
proprio due spiriti nati fatti per intendersi.
Don Bosco dunque aveva già familiarità e con la
persona del teologo e con il luogo della sua dimora, quando si ventilò la
proposta ch'egli passasse a prendere stanza presso di lui. Questo fu allo
spirare del triennale soggiorno nel Convitto ecclesiastico. L'idea o
meglio l'ispirazione venne a quell'altra anima santa del Cafasso, risoluto
d'impedire che Don Bosco andasse via da Torino.
Il teologo abitava al così detto Rifugio, sotto il
qual nome i Torinesi designavano sommariamente tutto un complesso di
benefici istituti fondati dalla regale generosità d'una munifica dama, la
Marchesa di Barolo; colà egli faceva da rettore e da direttore
spirituale.
Con pia docilità di figlio verso il padre dell'anima
sua, Don Bosco, ravvisando nel consiglio di Don Cafasso la pura e semplice
manifestazione del divino volere, gettate dietro le spalle altre
considerazioni che gli si affacciavano alla mente, trasferì al Rifugio il
quartier generale dell'Oratorio che s'incamminava a diventare
un'istituzione.
Quartiere generale sembrerà parola un po' grossa, se
la si applica all'angusto quartierino assegnatogli per sua abitazione; non
così se si pensi che ivi resiedette per tre anni il comando supremo di un
bell'esercito giovanile. A compimento dell'immaginazione marziale diremo
ancora che il suo stato maggiore era costituito dalla carità, cui
facevano corona le virtù poste al suo seguito da san Paolo nel celebre
capo tredicesimo della prima lettera ai Cristiani di Corinto.
Continue soprattutto gli spuntavano fra i piedi le
occasioni di rammentare a se stesso, che caritas patiens est. I
suoi da trecento a quattrocento monelli urtarono i nervi alla Matrona del
Rifugio, che un bel giorno, stanca di sopportare, lo costrinse a metterli
alla porta, e da ultimo si rassegnò con rammarico a privarsi
definitivamente dell'utilissima opera sua, vedendolo sempre fermo in non
voler abbandonare l'impresa; urtarono l'amore del quieto vivere o le
pretensioni esorbitanti di cittadini domiciliati nei pressi delle località,
dove successivamente egli diede convegno alla sua turba domenicale;
urtarono le ombrose suscettibilità di autorità civili e politiche, le
quali, tenendo bordone a privati, lo sfrattavano ora da un luogo ora
dall'altro o lo invigilavano quasi fosse persona pericolosa all'ordine
sociale; urtarono secolari consuetudini parrocchiali, destando
preoccupazioni sulle conseguenze che sarebbero potute nascere da tali non
mai viste novità; urtarono infine il maltalento di gente che aveva
interessi più o meno confessabili a gettargli bastoni fra le ruote,
massime allorché, respinto da ogni parte, si ridusse a tenere le sue
adunanze in un gran prato, che era a un bel tiro fuor dell'abitato.
Impensierito ma non abbattuto, afflitto ma
irremovibile, opponeva a sempre rinascenti ostilità quell'eroica fortezza
d'animo che è dono dello Spirito Santo. Una fortezza di si eccelsa
origine fa che l'uomo sia pronto a tutto, intrepido contro tutti e scevro
di ogni ostentazione, come si vedeva per l'appunto in Don Bosco. Oh, non
era certo una delizia, umanamente parlando, trascorrere le domeniche
intere fra tanti ragazzi rozzi, chiassosi, rissosi, talora sconoscenti e
villani; non era una delizia nemmeno istruire, com'egli faceva,
giovinastri ottusi o caparbi o svogliati. Oggi anche ragazzi d'infima
condizione nei dì festivi ti compaiono davanti lindi e puliti, che paiono
signorini; ma allora quanta ragazzaglia analfabeta e scapigliata
scorazzava per vie e piazze nei sobborghi della capitale piemontese! Si
sarebbe dovuto ammirare e favorire Don Bosco, o almeno lasciarlo in pace
fra i suoi birichini, di cui amava proclamarsi il capo; ma le opere di Dio
sorgono e crescono bersagliate da nemici e da amici. Egli soffriva calmo,
levando gli occhi al cielo, donde aspettava aiuto e conforto; già allora,
quanto s'incontrasse di più arduo e ripugnante alla natura, sembrava in
lui facile e soave.
La fortezza dei Santi è d'altra tempra che quella
stoica, dura e inflessibile: i Santi, fidenti nel concorso soprannaturale
della grazia, pregano, pazientano e vincono. La fortezza filosofica si
esaurisce nell'egoistica soddisfazione dell'amor proprio, da cui piglia
ispirazione e norma; la cristiana aguzza l'ingegno a escogitare sempre
nuove vie, umili talora e umilianti, pur di raggiungere la meta
vagheggiata, senz'altra ambizione che di promuovere gl'interessi della
gloria divina e procurare il bene del prossimo.
Oratoriani della prima ora, che non si staccarono più
da Don Bosco, ma vissero sempre o con lui o non lungi da lui, accanto al
ricordo di quegli anni eroici serbarono viva in cuore la sua immagine
veramente paterna, cioè cara e buona, cara perché buona, ma buona di
quella bontà che il giovane del Vangelo lesse in volto a Gesù, quando
gli chiese: Maestro buono, che cosa farò io per acquistare la vita
eterna? un uomo così complesso e completo come Don Bosco la bontà non
aveva nulla di certa sensibilità che degenera facilmente in debolezza; la
bontà di Don Bosco, illuminata da intelligenza e da fede e infiammata
nell'abituale contatto con Dio, si traduceva in soprannaturale
benevolenza, uguale con tutti, e per tutti elevante.
Ecco perché in mezzo alle fortunose vicende, di cui
quei primi allora intravidero appena e solo più tardi compresero la
ripercussione dolorosa sull'animo suo, lo scorgevano costantemente
tranquillo e sereno farsi tutto a tutti nell'espansione di un affetto
operativo e spiritualissimo. Così egli rubava i cuori dei giovani, che,
dovunque si recasse a confessare, non volevano più sapere d'alcun altro,
facendogli ressa intorno ilari e confidenti. Ecco perché, contesogli un
palmo di suolo entro le mura e spinto a trasferire l'Oratorio in aperta
campagna, vedeva i giovinetti, anche durante gl'inverni torinesi, seguirlo
con tanta fedeltà, che, portando seco il mangiare, stavano con lui fino
al tramonto. Quei primi, fatti adulti, rivedendolo nel pensiero quale
l'avevano visto allora nella realtà, esclamavano: - Era in mezzo a noi un
angelo!
Questo giudizio ci richiama al protomartire santo
Stefano, del quale, tempestato di accuse, narrano gli Atti che nel
tribunale gli astanti vedevano il suo volto come volto d'angelo, tanta era
la calma dignitosa che vi traspariva, essendo il suo spirito pieno di
grazia e di fortezza.
La prodigiosa condotta di Don Bosco in mezzo a tante
traversie non aveva altra origine. Lo sanno i Santuari suburbani della
Vergine, dov'egli guidava in pellegrinaggio le nomadi schiere a impetrare
con la preghiera e i sacramenti le benedizioni celesti; lo sa il Santuario
della Consolata, la cui taumaturga immagine ascoltò le tante volte lui e
i suoi figli, irradiandolo di superni incoraggiamenti; lo sapevano il
teologo Borel e altri degni ecclesiastici, testimoni del religioso fervore
trasfuso dallo zelante apostolo nelle mobili anime giovanili; lo seppero
anche certi giovinetti più inclini a pietà e perciò da lui tratti in
disparte e uniti più strettamente a sé nella preghiera e guidati per la
via di una maggiore perfezione.
Sono fatti che bisogna rievocare, se si vogliono
intendere a pieno queste parole delle sue "Memorie": «Era
meraviglia il modo, col quale si lasciava comandare una moltitudine poco
prima a me sconosciuta, della quale in gran parte poteva dirsi con verità
che era sicut equus et mulus, quibus non est intelectus.
Devesi aggiungere che in mezzo a quella grande
ignoranza ammirai sempre un gran rispetto per le cose di Chiesa, pei sacri
ministri, ed un gran trasporto per imparare i dogmi e i precetti della
religione». Per cavallini matti e per muletti bizzarri non c'era male
davvero! Ma il domatore o dominatore loro possedeva per tutti in copia
quel dono dell'intelletto, che prima ad essi mancava e che poi in essi
veniva penetrando. Ora ci spieghiamo più facilmente come il beato Cafasso
ribattendo le recriminazioni che si portavano dinanzi a lui contro Don
Bosco, finisse invariabilmente col ritornello: - Lasciatelo fare!
Lasciatelo fare!
Ma la domenica era un giorno solo della settimana; e
gli altri sei? Non si creda che il vero Oratorio festivo importi
occupazioni soltanto domenicali; l'Oratorio, quale Don Bosco l'ha
concepito, è sede di un'autorità paterna, che, cattivandosi l'animo dei
fanciulli, dappertutto li segue e direttamente interviene presso parenti,
padroni, maestri, dovunque sia possibile esercitare un salutevole influsso
sulla loro condotta. Poi per Don Bosco c'erano istituti religiosi,
collegi, scuole pubbliche e private, carceri, ospedali, scuole serali,
prediche, studi, pubblicazioni, oltre il Rifugio: un campo di lavoro
quotidiano che non aveva confini.
Tanta attività lo metteva naturalmente in rapporto
con ogni ceto di persone, molte delle quali, bisognose dell'opera sua o
della sua parola, gli davano quasi la caccia, dov'egli si recava a
celebrare il divin sacrificio. Prova ne sia anche un proponimento scritto
da lui appunto nel 45; lo riferiamo qui, non per usurparne il compito ai
biografi, ma perché giova al nostro scopo. Dice: «Siccome giunto in
sacrestia per lo più mi si fanno tosto richieste di parlare per aver
consiglio o di ascoltare in confessione, così prima d'uscire di camera
procurerò che sia fatta una breve preparazione alla santa messa».
Notizia preziosa e significativa, la quale, mentre
con quel «breve» esclude qualsiasi scrupolo di coscienza, col resto ci
rivela come Don Bosco, anziché rifugiarsi dietro il comodo paravento del
lasciar il Signore per il Signore, preferisce piamente anticipare la
debita preparazione.
Appartengono pure a questo tempo certi cartoncini,
usati da lui per quarant'anni come segnacoli del breviario, autografi
parlanti dei pensieri che voleva a sé familiari. Undici sentenze bibliche
gli richiamavano alla mente la Provvidenza divina, la fiducia in Dio, la
fuga delle occasioni, il distacco dai beni della terra, l'allegrezza della
buona coscienza, la liberalità del Signore coi generosi, il riflettere
prima di parlare, il divin tribunale, l'amore dei poveri, l'onore dovuto
ai superiori, l'oblio delle offese.
Cinque massime patristiche gli ricordavano il
frequente esame della coscienza, l'adesione umile e intera
agl'insegnamenti della Chiesa, la gelosa custodia dei segreti, l'efficacia
del buon esempio, lo zelo per le anime altrui e per la propria. Tre
citazioni dantesche, tratte dalla fine delle singole cantiche, lo
sollevavano alle «stelle», ossia alla considerazione del paradiso.
Venivano ultimi quattro versi di Silvio Pellico, meritevoli di essere
riferiti, non perché siano peregrini, ma perché ci sembra che stessero
li ad ammonire, quale politica dovesse avere per sua l'uomo di Dio in un
periodo di si roventi passioni pubbliche: la politica cioè dell'Italia
una nella fede, speranza e carità:
Ad
ogni alta virtù l'Italo creda,
Ogni
grazia da Dio lo Stato speri,
E
credendo e sperando ami e proceda
Alla
conquista degli eterni veri.
Il Pellico e Don Bosco si conoscevano molto bene. Per
Don Bosco il poeta aveva composta la notissima lode che comincia:
Angioletto del mio Dio, nutriva per lui sincera stima. Essendo segretario
della Marchesa di Barolo, gli toccò certamente di minutare la lettera,
con cui la nobile signora comunicava al rettore del Rifugio le sue
decisioni sul conto di Don Bosco, ripetendo in termini diplomatici il
brusco aut aut già intimato a lui stesso senza mezzi termini oralmente: o
lasciare l'Oratorio o lasciare il Rifugio.
La lunga lettera, recante la firma dell'aristocratica
gentildonna, ma redatta nell'amabile stile del segretario, ci è carissima
per via di questo periodetto, che ne costituisce il punto più luminoso:
« [Don Bosco] piacque anche a me dal primo momento e gli trovai
quell'aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante».
Lo scrittore vestì di forma eletta l'altrui giudizio, che rispondeva
sicuramente anche al suo.
CAPO VI. - Nella sede stabile della sua missione.
Oggi, dir Oratori è menzionare un'istituzione tanto
comune in Italia da sembrare che sia stata sempre così, né si sente il
bisogno di cercare a chi se ne debba saper grado; ma il nome di Don Bosco
va inscindibilmente congiunto con un Oratorio, con l'Oratorio per
eccellenza, l'Oratorio di Valdocco.
Non senza misteriosi disegni provvidenziali è
avvenuto che il centro propulsore delle opere di Don Bosco portasse un
nome consacrato dall'uso a indicare luogo di orazione. Un luogo si
denomina da ciò che ivi si fa di principale; se dunque un luogo di tanta
azione si chiama luogo di orazione, questo vorrà dire che nelle opere di
Don Bosco prima ci dev'essere l'orazione e poi l'azione. Ce lo confermano
perentoriamente le parole stesse di Don Bosco.
Non mancarono infatti sul principio persone ben
intenzionate, le quali trovarono a ridire circa l'opportunità di tante
funzioni sacre e di tante pratiche divote, quante se n'erano ivi
introdotte; ma Don Bosco a tutti chiudeva la bocca, rispondendo sempre a
un modo: - Diedi il nome di Oratorio a questa casa per indicare
chiaramente, come la preghiera sia la sola potenza, su cui dobbiamo fare
assegnamento.
E la pietà nell'Oratorio si respirava con l'aria; la
pietà si leggeva in volto ai giovani; la pietà pulsava in tutti e in
tutto. Questo per altro non fa parte del nostro disegno; vi abbiamo
accennato solo per dire che li era il riflesso dell'anima sacerdotale di
Don Bosco. Un sacerdote, che abbia grande spirito d'iniziativa, ma che non
possegga in pari grado lo spirito di preghiera, potrà benissimo nella
Chiesa organizzare de limo terrae, non certo infondere spiraculum vitae;
che se da altri non si rimedi al difetto, organizzazioni simili non
saranno vitali.
Per Don Bosco, Dio era il principio e il fine di
tutto. L'incalzarsi delle occupazioni non gli lasciava libere lunghe ore
da dedicare alla preghiera; la madre però, che dormiva in una stanza
attigua alla sua argomentava da buoni indizi, ch'ei vegliasse pregando una
parte della notte. Sull'ingresso della sua cameretta un cartone stampato
lo invitava a dire Sia lodato Gesù Cristo; dentro , un altro cartone
della parete gli rimembrava che Una cosa sola è necessaria, salvar
l'anima; un terzo gli rinfrescava il ricordo del motto caro a san
Francesco di Sales e preso per sé nei primordi del sacerdozio: Da mihi
animas, cetera tolle.
Aspirazioni, esprimenti desiderio della propria
salvezza eterna e augurio di salvezza per tutti, gli erano abituali. Che
dire di quelle frequenti manifestazioni d'intima pietà religiosa, che
erano il rispetto, l'amore e la stima per ogni atto di culto, per ogni
pratica divota, approvata, promossa, raccomandata dalla Chiesa? Tali, ad
esempio, l'uso dei sacramentali, l'assistenza alle funzioni
ecclesiastiche, la recita del rosario in comune, l'aggregarsi a pii
sodalizi, l'Angelus, la benedizione della mensa, la Via Crucis. Quanta
divozione nutriva per i misteri della passione e morte di Gesù! Ne
meditava con sì vivo affetto i dolori, che, discorrendone, s'inteneriva,
gli morivano le parole in bocca e muoveva gli uditori al pianto.
Riguardo ai pii sodalizi, non è da tacere che poco
dopo aver stabilita la sua dimora in Valdocco, si ascrisse al terz'ordine
francescano, vestendone l'abito e facendone noviziato e professione. Del
resto, ch'ei fosse sacerdote esemplarmente pio, saltava agli occhi di
chiunque lo osservasse, allorché pregava ad alta voce, pronunciando le
parole con una specie di vibrazione armoniosa, che dava a conoscere il
fervore della sua carità. Perciò l'umile poeta che nel 46 compose per
musica alcune strofette in suo onore, onde celebrarne il ritorno da non
breve convalescenza, si rese interprete del sentimento unanime,
inneggiando al giorno che aveva ricondotto all'Oratorio «l'uomo saggio,
l'uomo pio, l'uomo adorno di virtù».
A questo coro di voci contemporanee fanno eco
deposizioni assai posteriori, ma rese da testimoni oculari e degnissimi di
fede. Correvano allora per Don Bosco anni di grandi rompicapi: mandar
avanti l'Oratorio festivo di settecento ragazzi; erigerne e dirigerne due
nuovi in Torino; creare e avviare l'ospizio; aprir le porte a poveri
chierici sbandati per la violenta chiusura dei seminari, riempiendo oltre
il credibile la non ampia casa; risolvere il problema del pane quotidiano;
gettare le basi della futura Congregazione; fra gli sconvolgimenti
pubblici che davano immenso filo da torcere alle autorità ecclesiastiche,
condividere per alto spirito evangelico le ansie del suo Pastore, fatto
segno a fiere contraddizioni: tutto questo indurrebbe a supporre che da
mane a sera Don Bosco fosse in orgasmo e la sua testa somigliasse a una
caldaia sotto pressione.
Niente di più lontano dal vero. Un venerando
sacerdote, che lo vedeva da presso, ci dice che nella fisionomia di lui
traspariva così evidente il pensiero della presenza di Dio, da sentirsi
correre alla mente, osservandolo, quelle parole dell'Apostolo: Nostra
conversatio in caelis est. Dappertutto , anche a mensa e in camera, lo
trovava composto negli atti, raccolto negli sguardi e chino il capo, come
chi stia al cospetto di un gran personaggio o dinanzi al Santissimo
Sacramento. Per via poi lo scorgeva andare tutto concentrato, ma in guisa
da mostrare chiaramente che stava assorto nel pensiero di Dio. Il medesimo
ci fa sapere che taluno a volte lo richiedeva di consigli spirituali in
momenti, in cui sembrava distratto da affari di tutt'altro genere, e che
rispondeva sempre da uomo che viva immerso nella meditazione delle cose
eterne.
Un secondo teste, vissuto sotto la direzione di Don
Bosco nei primissimi tempi dell'Oratorio, tenendo gli occhi su di lui
mentre si dicevano le orazioni in comune, notava con che gusto proferisse
le parole Padre nostro che sei ne' cieli, ne distingueva la voce nel
concerto generale per un suono indefinibile, che moveva a tenerezza chi
l'udiva. Benché poi nulla si ravvisasse di straordinario nel suo
atteggiamento, pure al teste non isfuggì, che in sagrestia o in chiesa
egli aveva l'abitudine di non appoggiare i gomiti, ma accostava soltanto
l'avambraccio all'orlo del banco o dell'inginocchiatoio, tenendo le mani
giunte o reggendo un libro sulle palme. Nemmeno quel celebre moralista che
fu monsignor Bertagna potè mai dimenticare il contegno di lui nella
preghiera, sicché, volendone dare un'idea giusta in poche parole, si
esprimeva col dire, che Don Bosco, pregando «aveva dell'angelo».
Non faremo punto sull'argomento dell'aspetto
esteriore di Don Bosco, senz'aggiungere, a rincalzo del fin qui detto,
qualche altra osservazione, non inutile alla comprensione completa del suo
spirito di preghiera. Scrittori e disegnatori giocano a volte un po'
troppo all'infantilità intorno alla figura esterna dei Servi di Dio; c'è
cui piace un Don Bosco, diremmo così, giulebbato. Noi che l'abbiamo
visto, non consentiremo mai a un Don Bosco di maniera; tanto meno
ritroveremo il vero Don Bosco sotto cotali sembianze.
Un uomo superiore che sia insieme un gran santo,
conosce il sorriso, non però quello perenne o insignificante o meramente
istintivo, ma un sorriso voluto e irradiato di pensiero: un sorriso
diretto a un fine, e rientrante, non appena il fine sia raggiunto. Nel
Santo la benignità soave e amabile non si scompagna da tranquilla e
serena dignità: doppio elemento, questa benignità e questa dignità, che
forma un visibile contrassegno e quasi suggello della presenza del
Creatore nella creatura. Quindi la vista di un Santo, nell'atto che ispira
confidenza, eleva e fa pensare.
Nota: Che i mistici non ridano, crediamo sia cosa
incontestabile. L'impressione che ricevono nei loro contatti con Dio, non
si dilegua dal loro spirito, ma li tiene avvinti al pensiero della divina
presenza. Quando poi sorridono al prossimo, quel sorriso, che non ha
fremiti, non altera la compostezza dei lineamenti prodotta in essi
dall'abituale raccoglimento interiore. Mentre rivedevo queste bozze per la
prima edizione raccolsi dalla bocca di Don Francesia le parole seguenti: -
Don Bosco infondeva l'allegria negli altri; ma egli per sé tendeva a
portare il volto atteggiato come si vede nelle persone meste. Il salesiano
Don Vismara diceva con felice espressione che il sorriso di Don Bosco si
vedeva, non si sentiva. Fine nota.
Riguardo a Don Bosco, si parla anche, è vero, di
bonomia, giammai però di debolezza; e poiché questa suol essere sorella
germana di quella, bisognerà inferirne che la bonomia di Don Bosco va
intesa senza ricorrere al dizionario; chiamiamola semplicità evangelica,
la semplicità dell'est est non non, condita sì di bontà, ma spirante
fermezza, e l'avremo imbroccata. L'uomo insomma che comunica interiormente
con Dio, impronterà sempre di gravità pacata lineamenti e atteggiamenti.
Tale si figura Don Bosco chiunque lo studi attraverso le genuine
manifestazioni della sua personalità.
Analogo al portamento era in lui il parlare.
Conversava con calma, adagio, aborrendo da discorsi profani, da modi
troppo vivaci, da espressioni risentite e concitate e dando importanza a
ogni parola. Scrive chi visse lunghi anni nella famiglia, anzi nella
familiarità dell'uomo di Dio: «Spesso dicevamo fra noi: - Come fa
piacere andar vicino a Don Bosco! se gli parli un istante, tu ti senti
pieno di fervore -».
Ma abbiamo un'altra testimonianza del massimo valore.
Ci viene dal Servo di Dio Don Michele Rua, il quale parla così nei
processi: «Ho vissuto al fianco di Don Bosco per trentasette anni. Mi
faceva più impressione osservare Don Bosco nelle sue azioni, anche più
minute, che leggere e meditare qualsiasi libro divoto».
A chi ha la pazienza di leggere non sia discaro che
si divaghi un tantino, ma non senza perché. Voglio riportare una
rilevante citazione, donde appaia quanto sia legittimo e sicuro il metodo
di rifarci da un certo esteriore di Don Bosco per giudicare di un
determinato suo interno. Del resto, se per Don Bosco vi fosse un'altra via
più diretta, chi non la infilerebbe volentieri? Parli dunque san Vincenzo
de' Paoli. In uno di quei mirabili sermoncini che rivolgeva a Missionari,
egli osserva: «Quand'anche voi non diceste una parola, se siete tutti
immersi in Dio, toccherete i cuori con la sola vostra presenza. I Servi di
Dio hanno apparenze che li distinguono dagli uomini carnali. È un certo
atteggiamento esterno umile, raccolto e divoto, che opera sull'anima di
chi li mira. Vi sono qui persone così piene di Dio, che io non le guardo
mai senza restarne colpito. I pittori nelle immagini dei Santi ce li
rappresentano cinti di raggi: sta di fatto che i giusti, i quali vivono
santamente sulla terra, spandono al di fuori una certa luce tutta loro
propria». Anche l'insigne biografo di san Bonaventura, dopo aver detto
che «ci mancano notizie per conoscere il suo progresso nella preghiera e
il dono sublime della contemplazione», passa a considerare «i frutti
della sua vita interna e della sua continua unione con Dio» e tra l'altro
nota che «essa imprimeva nel suo sembiante quella pace ineffabile, quella
grazia beata che rapiva chiunque lo riguardava»; a conferma di che allega
la testimonianza di un contemporaneo, il quale a proposito del concilio di
Lione, dove il Santo mandò gli ultimi raggi della sua serafica luce,
scrisse: «Il Signore gli dette questa grazia, che tutti coloro che lo
miravano, gli erano cordialmente affezionati». Basta mutare il nome, e si
ha qui tutto Don Bosco.
Il Santo degli esercizi spirituali per ordinandi e
per ordinati è venuto in buon punto a ricordarci quanto Don Bosco fosse
alto estimatore della grande pratica ignaziana. Don Bosco amò gli
esercizi spirituali: li amò per gli altri, li amò per se stesso.
Precursore anche in questo, inaugurò nel 47 i ritiri chiusi per giovani
operai; a suo tempo introdusse nei collegi salesiani la consuetudine di
fare per pasqua un corso di esercizi, ben preparati, ben predicati, e
finiti in santa allegria; nella sua Congregazione poi, non occorre dirlo,
non fu da meno di altri fondatori. Ne era caldo promotore, ma insieme li
faceva per proprio conto.
Finché le circostanze non glielo vietarono, saliva
ogni anno al romito santuario alpino di Sant'Ignazio sopra Lanzo Torinese,
dove nella solitudine e nella pace dei monti confortava lo spirito con la
preghiera e la meditazione delle verità eterne. In un foglietto,
diligentemente da lui conservato, leggiamo non senza emozione i «proponimenti
fatti negli esercizi spirituali del 1847». Sono questi:
Ogni
giorno: Visita al SS. Sacramento.
Ogni
settimana: Una mortificazione e confessione.
Ogni
mese: Leggere le preghiere della buona morte.
Domine,
da quod iubes, et iube quod vis.
Il
sacerdote è il turibolo, della divinità (Teodoto).
È
soldato di Cristo (S. Giov. Cris).
L'orazione
al sacerdote è come l'acqua al pesce, l'aria all'uccello, la fonte al
cervo.
Chi
prega, è come colui che va dal Re.
Abbiamo veduto già per la terza volta proponimenti
di Don Bosco riferentisi alla vita di preghiera, pur non ignorando che dal
dire al fare c'è di mezzo il mare. Bisogna però tenere nel debito conto
il carattere di Don Bosco. Don Bosco non era un cerebrale, non era un
emotivo: era un volitivo, dalle idee chiare e dagli affetti puri. Simili
temperamenti, fermi e tenaci, quando vogliono, vogliono. Non così gli
speculativi, le cui risoluzioni rimangono facilmente campate in aria; non
così i passionali, che risolvono, risolvono, non finiscono mai di
risolvere, perché alle impressioni sono mobili come piume al vento. Don
Bosco ebbe volontà ferrea.
Qui piuttosto affiora un problema d'altro genere.
Ammessa la padronanza di sé che è propria dei volitivi, come si spiega
il fatto che Don Bosco non di rado si vedeva piangere? Piangeva ora
celebrando la messa, ora distribuendo la comunione, ora semplicemente
benedicendo il popolo dopo il divin sacrificio; piangeva nel parlare ai
giovani dopo le orazioni della sera, nel tener conferenza a' suoi aiutanti
e nel dare i ricordi degli esercizi spirituali; piangeva accennando al
peccato, allo scandalo, alla modestia, o toccando delle ingratitudini
umane verso l'amore di Gesù Cristo per noi o esprimendo timori circa la
salute eterna di alcuno.
Dice un testimonio, a proposito delle baldorie
carnevalesche: «In compenso di tanti disordini ci esortava a ricevere la
santissima Eucaristia e a fare ore di adorazione innanzi al Tabernacolo; e
mentre parlava, pensando agl'insulti che riceveva Gesù Sacramentato,
specialmente in quei giorni, piangeva e faceva piangere anche noi».
Dice un altro testimonio di prim'ordine, il cardinal
Cagliero: «Mentre Don Bosco predicava sull'amor di Dio, sulla perdita
delle anime, sulla passione di Gesù Cristo nel venerdì santo, sulla
santissima Eucaristia, sulla buona morte e sulla speranza del paradiso, lo
vidi io più volte, e lo videro i miei compagni, versare lagrime ora di
amore, ora di dolore, ora di gioia; e di santo trasporto, quando parlava
della Vergine Santissima, della sua bontà e della sua immacolata purità».
La stessa cosa gli accadeva anche nelle chiese pubbliche. Un testimonio lo
vide prorompere in pianto nel santuario della Consolata, mentre faceva la
predica del giudizio universale, descrivendo la separazione dei reprobi
dagli eletti; un secondo testimonio lo osservò più volte lagrimare
specialmente quanto trattava della vita eterna, sicché moveva a
compunzione peccatori ostinati, i quali dopo la predica cercavano di lui
per confessarsi.
Il coscienzioso suo biografo finalmente scrive: «Noi
stessi che stendiamo queste pagine fummo testimoni con mille altri di
questo dono divino, che a Don Bosco fu dato, fin da quando fondava
l'Oratorio e anche prima; e durò fino alla sua morte». Ora la questione
sarebbe se qui si tratti realmente di mistico dono e in caso affermativo,
se esso ci dia il diritto di asserire che Don Bosco godesse della grazia
di un'orazione passiva. Ritorneremo a miglior agio sull'argomento; per
intanto restringiamoci a notare che nelle circostanze enumerate le lacrime
di Don Bosco erano prova della sua grande unione con Dio; e poiché unione
con Dio è orazione, si vede che alto spirito di orazione dovette animare
Don Bosco in mezzo all'intensità crescente della sua azione.
Nell'ascetica di Don Bosco un parte preponderante
spetta all'Eucaristia, amore di tutta la sua vita e oggetto perenne del
suo zelo sacerdotale. Quindi fu giorno di somma allegrezza per lui, quando
ottenne che il Re del Cielo prendesse stanza nel suo Oratorio. Sì
segnalata grazia egli ricevette nel 52, dopo l'erezione della chiesa
dedicata a san Francesco di Sales; dal qual tempo il sacro edificio diventò
il centro delle sue affezioni. Non si può descrivere con qual giubilo ne
diede agli alunni la lieta notizia. In seguito, ogni volta che gli restava
un po' di respiro, andava là ad adorare il divin Salvatore, standovi in
atteggiamento più di serafino che d'uomo.
A tutte le cose poi che riguardassero ivi il culto
divino, annetteva sempre la massima importanza: sempre sollecito a esigere
nettezza e ordine nei vasi sacri e nelle sacre paramenta; sempre attento,
perché dì e notte vi ardesse la lampada; sempre da capo a raccomandare
che si riflettesse bene da tutti chi fosse Colui che degnavasi abitare in
quel tabernacolo; amava perfino di torre con le proprie mani i ragnateli,
spolverar l'altare, scopare il pavimento, lavare la predella. Niente gli
sfuggiva di quanto fosse necessario al decoro delle sacre funzioni; nelle
maggiori solennità non voleva musici profani, perché, non essendo
avvezzi a stare come si deve nella casa di Dio, perdevano il rispetto alla
presenza reale di Gesù. Il suo biografo, ottimo testimonio, scrive che in
chiesa la fede e la carità verso la reale presenza del divin Salvatore
gli si riverberavano sul viso.
Se tale l'orante, quale sarà stato il celebrante?
Celebrava composto, concentrato, divoto, esatto; proferiva le parole con
chiarezza e unzione; gustava visibilmente di distribuire le sacre specie,
mal riuscendo a celare il fervore dello spirito. Nulla però di affettato
o che desse nell'occhio: ma né lento né celere, procedeva dal principio
alla fine con calma e naturalezza in tutti i movimenti. I fedeli che non
lo conoscessero, ne restavano tosto edificati; altri, saputo dove avrebbe
celebrato, accorrevano alla sua messa; famiglie, aventi il privilegio
dell'oratorio domestico, se lo disputavano per accogliervelo a celebrare.
Quante volte tornò a inginocchiarsi davanti
all'altare della sua prima messa nella chiesa di san Francesco d'Assisi,
presso il Convitto Ecclesiastico, rinnovandosi i proponimenti di quel caro
giorno! Si conserva ancor la copia delle Rubricae missalis, ch'ei portava
abitualmente seco, logora per lungo uso; anzi di quando in quando pregava
suoi confidenti che lo osservassero nel celebrare, e vedessero bene, se
mai cadesse in difetti. Al mattino, recandosi dalla camera in chiesa, se
incontrava alcuno che lo salutasse e gli baciasse la mano, rispondeva con
un sorriso, ma senza dir verbo, tutto assorto nel pensiero della prossima
celebrazione. Dovendo viaggiare, pur di non omettere il divin sacrificio,
o abbreviava il riposo, celebrando anche per tempissimo, o si sobbarcava a
non lievi incomodi, celebrando a ora anche molto tarda. Così lo videro
all'altare i Salesiani della prima generazione, così lo vedevamo noi,
ultimi venuti.
Il cuore di Don Bosco, formatosi alla vita spirituale
nel precoce e costante amore della santa Eucaristia, era naturalmente
portato o meglio provvidenzialmente preparato a darci in lui sacerdote
l'apostolo della comunione frequente. Di quanta luce risplende in questa
santa missione il suo serafico zelo!
Ombre giansenistiche aduggiavano ancora il forte
Piemonte. Nel Convitto Ecclesiastico si apprestavano bensì le sane
dottrine morali, miranti a fugarle dalle menti degli uomini di chiesa; ma
il campo del padrone evangelico avrebbe continuato a intristire chi sa
fino a quando senza il possente soffio dell'esempio venuto da Don Bosco.
Egli agiva, non apriva polemiche. Personalmente l'aveva risolta da un
pezzo la questione della frequenza; onde si affacciava al sacro ministero
con idee nette su tale materia.
Ci fa oggi qualche impressione il rileggere questo
tratto delle sue "Memorie": «Sul principio del secondo anno di
filosofia, andato un giorno a far visita al Santissimo Sacramento e non
avendo il libro di preghiera, mi feci a leggere De imitatione Christi:
lessi alcuni capi intorno al Santissimo Sacramento». Tocco dalla «sublimità
dei pensieri» e dal «modo chiaro e nel tempo stesso ordinato ed
eloquente, con cui si esponevano quelle grandi verità», s'invaghì
talmente dell'aureo libro, che se ne fece una delle sue letture
predilette.
Orbene, leggendo e rileggendo appunto quella parte
che si aggira per intero intorno al Sacramento dell'altare, dovette
fermare la sua attenzione sopra il secondo periodo del capo decimo, dove
il pio autore osserva come il nemico, ben sapendo quanti e quali frutti si
ricavino dalla santa comunione, sia solito dar di piglio a ogni mezzo per
ritrarne fideles et devotos, non solo cioè i semplici fedeli, ma anche le
anime pie o a Dio consacrate.
Vecchio flagello dunque nella Chiesa, avrà esclamato
fra sé e sé il riflessivo lettore, vecchia peste questa maledetta
infiltrazione diabolica! E tanto più avidamente dovette sorbire e
convertire in succo e sangue il soavissimo nettare del libro sublime,
anelando al giorno, in cui si sarebbe fatto araldo della pia exhortatio ad
sacram Communione in mezzo alla gioventù di tutto il mondo. Sì, in mezzo
alla gioventù; perché, a non voler edificare sull'arena, bisognava
prendere le mosse dai giovani e condurli presto al banchetto eucaristico,
condurveli in gran numero, ricondurveli con gran frequenza, e abituare a
simili spettacoli gli occhi del gran pubblico. Appunto così egli fece.
Fioccavano osservazioni di qua e di là; ma Don Bosco
non perdeva tempo a discutere: preparava bene folte schiere di giovanetti
alla prima comunione, moltiplicava le comunioni generali, istituiva società
e compagnie con l'intento di assuefarne i membri alla comunione frequente
e quotidiana, confessava comunicandi per ore infinite. Dio solo sa i
sacrifici impostisi da Don Bosco per promuovere efficacemente la frequenza
dei giovani alla santa comunione; ma non passava inosservata la gioia
sincera che gl'inondava il petto nel contemplare le file interminabili di
giovani andare e venire dalla sacra mensa. Che avrebbe infatti potuto
desiderare di meglio chi viveva con lo spirito fissamente rivolto a Gesù
Sacramentato?
A questo capo mancherebbe un elemento importante, se
non dicessimo ancora, in qual modo usasse Don Bosco della confessione
durante quegli anni. Nella vita spirituale la scelta di un buon direttore
è condizione ordinaria per fare veri progressi.
Vi allude san Bernardo con quel celebre detto: Qui se
sibi magistrum constituit, stulto se discipulum facit; prendere se stesso
a proprio maestro è farsi discepolo di uno stolto. Il santo Dottore
scrive così non già a un qualsiasi principiante, ma a un povero
ecclesiastico; anzi, nella medesima lettera conferma la sua dottrina,
allegando in prova il suo esempio: «Non so, dice, che cosa pensino gli
altri di se stessi su quest'argomento; io parlo per esperienza, e quanto a
me dichiaro che mi torna più facile e più sicuro comandare a molti che
guidare me solo».
Lo Scaramelli, maestro insigne di direzione
spirituale, appellandosi all'autorità di S. Basilio, afferma che «dopo i
primi desideri di perfezione e dopo le prime risoluzioni di conseguirla,
il mezzo più necessario per fare grandi progressi in questo cammino
spirituale è senza fallo la scelta di una buona guida».
Don Bosco, che aveva già mostrato assai per tempo di
comprendere questa necessità, appena trasferitosi a Torino, si mise sotto
la direzione del beato Cafasso, andando ogni settimana ad aprirgli la sua
coscienza. Lo trovava nella chiesa di san Francesco d'Assisi, col
confessionale assiepato da penitenti che aspettavano il loro turno.
Inginocchiatosi per terra, di rimpetto, vicino a un pilastro, si veniva
preparando, in attesa che il confessore lo vedesse. Questi, per non
obbligarlo a perdere troppo tempo, gli accennava alzando la tendina; egli
allora a capo chino e in atteggiamento devoto si appressava, ponevasi in
ginocchio sul dinanzi del confessionale, e con edificazione dei presenti
faceva la sua confessione. A maestro santo, santo discepolo.
CAPO VII. - Nel periodo delle grandi fondazioni.
Durante questo periodo della sua vita Don Bosco
gradatamente riempie del suo nome il mondo intero. Giornali di vario
colore, opuscoli illustrativi, fotografie sparse a larga mano perché
assai ricercate, conferenze, tutte insomma le trombe della fama gareggiano
a divulgare notizie intorno alle sue opere. Nessun apostolo aveva mai
avuto per il suo apostolato tanti mezzi di pubblicità.
I fortunati successi poi che ne coronavano ardue
imprese, contribuivano a confermare nelle menti l'opinione ch'egli fosse,
un gran santo, dicevano gli uni, un grand'uomo, dicevano altri. Si
aggiunga che egli stesso nel fare appello all'universale beneficienza
bandiva ai quattro venti la propria missione, indirizzando a uomini d'ogni
qualità o nazione circolari scritte in più lingue. Una taciturna
modestia esulava dai suoi metodi. Non mancò chi ne pigliasse scandalo: ma
fu scandalo di pusilli: tante volte gli stessi censori si videro costretti
a imitarlo.
Abbiamo un giudizio pronunciato da Don Cafasso nel 53
per mettere le cose a posto dinanzi a dotti ecclesiastici, che nicchiavano
un po' sul conto di Don Bosco, giudizio, il cui valore trascende le
piccole contingenze, nelle quali venne proferito. Disse allora il
direttore spirituale di Don Bosco: «Sapete voi bene chi è Don Bosco? Per
me, più lo studio, meno lo capisco! Lo vedo semplice e straordinario,
umile e grande, povero e occupato in disegni vastissimi e in apparenza non
attuabili, e tuttavia benché attraversato e, direi, incapace, riesce
splendidamente nelle sue imprese. Per me Don Bosco è un mistero! Sono
certo però ch'egli lavora per la gloria di Dio, che Dio solo lo guida,
che Dio solo è lo scopo di tutte le sue azioni».
Il riserbo prudenziale del beato Cafasso era molto
spiegabile allora; ma quando la fama che Don Bosco fosse un santo, entrò
nel dominio del pubblico, non ci furono più argini che valessero. La
rinomanza però, mentre risuona agli orecchi dei lontani, non sempre ha
dalla sua la realtà spicciola della vita, quale si svolge dinanzi agli
occhi dei vicini. Appunto per questo un nostro proverbio dice che
confidenza fa perdere riverenza, e con immagine più rappresentativa i
Francesi: «Non c'è uomo grande per il suo cameriere».
Ma ecco la singolarità nel caso di Don Bosco: tutti
coloro che ne godettero la familiarità, hanno attestato unanimi che
quanto più da presso lo conoscevano, tanto maggiormente si confermavano
nella convinzione, ch'egli fosse davvero un santo; quelli stessi che,
addetti per lungo tempo alla sua persona, ebbero ogni agio d'investigare
direttamente il tenore dell'intima sua vita quotidiana, si sentivano
compresi per lui di una venerazione che rasentava il culto.
La domestichezza lungi dallo sciogliere l'incanto
dell'ignoto, riducendo a più modeste proporzioni la voce che correva
celebratrice per le bocche della gente, serviva anzi a darle maggior
consistenza. Ora, chiunque non sia profano in fatto di vita spirituale sa
due cose: che nessuna opinione di santità potrebbe formarsi e durare, se
il supposto santo non apparisse uomo d'orazione, e che a screditarlo in
questo non ci vorrebbe molto, ma basterebbe vederlo fare malamente il
segno della croce.
E Don Bosco viveva la sua vita sotto gli sguardi di
moltissimi, sicché le sue azioni potevano essere sindacate da osservatori
discreti e indiscreti; e poi fra le mura dell'Oratorio la vera pietà si
conosceva egregiamente. In Don Bosco dunque lo spirito di orazione era
quel che nel buon capitano lo spirito marziale, nel buon artista o
scienziato lo spirito di osservazione: una disposizione abituale
dell'anima, attuantesi con facilità, costanza e visibile diletto.
Fra i cresciuti alla scuola di Don Bosco meritano
distinta menzione coloro che, prima plasmati lentamente da lui, indi suoi
collaboratori, divennero pietre fondamentali della Società Salesiana. Noi
li abbiamo conosciuti quegli uomini così differenti d'ingegno e di
cultura, così disuguali nelle loro attitudini; in tutti però spiccavano
certi comuni tratti caratteristici, che ne costituivano quasi i lineamenti
d'origine.
Calma serenatrice nel dire e nel fare; paternità
buona di modi e di espressioni; ma particolarmente, per restare nel nostro
tema, una pietà, la quale ben si capiva essere nel loro concetto l'ubi
consistam, il fulcro della vita salesiana.
Pregavano molto, pregavano divotissimamente; ci
tenevano tanto a che si pregasse e si pregasse bene; sembrava che non
sapessero dire quattro parole in pubblico o in privato, senza farci
entrare in qualche modo la preghiera. Eppure, non eccettuato nemmeno Don
Michele Rua, la cui figura ascetica e in certi momenti quasi mistica,
richiamava l'attenzione riverente dei riguardanti, quegli uomini non
mostravano di possedere grazie straordinarie d'orazione; infatti noi li
vedevamo compiere con ingenua semplicità nulla più che le pratiche
volute dalle regole o portate dalle nostre consuetudini.
Ma che diligenza nel loro modo di trattare con Dio! E
con quale naturalezza, parlando delle cose più disparate, v'insinuavano
pensieri di fede! Erano vissuti a lungo con Don Bosco; quella convivenza
aveva lasciate nel loro vivere tracce indelebili. Potrebbe fare molto bene
al caso ciò che l'Apostolo scriveva ai Cristiani di Corinto: chi avesse
desiderato di conoscere quale spirito di preghiera fosse stato in Don
Bosco, ecco, c'erano i suoi discepoli, quasi sua lettera autentica, in cui
parlava egli stesso.
L'assenza dunque delle grandi esteriorità, che
generalmente spesseggiano nel pregare dei Santi, non valse a far passare
inosservato in Don Bosco lo spirito di preghiera nemmeno durante il
periodo più operoso della sua vita, quando brighe d'ogni fatta se ne
disputavano tempo e pensieri, mettendone prevalentemente in vista
l'attività indefessa. Troppo radicata portava nell'anima l'idea della
presenza di Dio, perché ressa di negozi ne ostacolasse l'intima e
perpetua unione con Lui; anzi, il sentire sempre Dio presente, mentre di
continuo lo teneva vigile e intento all'unico fine di servire a Lui solo,
gli era anche fonte perenne di allegrezza nel mare delle occupazioni;
giacché in tutto il suo agire non cercava se non l'attuazione perfetta
del divin volere.
Perciò, scrivendo a un virtuoso sacerdote per
chiamarlo in suo aiuto nell'amministrazione e disciplina dell'ospizio,
gremito già d'interni, usava un modo di dire lepido, ma conforme allo
stile dei Santi: «Venga ad aiutarmi a dire il Breviario».
Passare senza posa da occupazione a occupazione era
per Don Bosco quasi un continuo salmeggiare; poiché in tutte le cose che
faceva, Don Bosco dava lode a Dio, eseguendone amorosamente i voleri. In
realtà, il libro che dal sacerdote si sfoglia nella preghiera rituale,
gli dice che del pari egli deve svolgere giorno per giorno la sua attività
davanti a Dio in spirito di preghiera. Analoga immagine ricorre in
sant'Agostino. Il grande Dottore, volendo che il cristiano converta
l'intera sua vita in inno di lode alla gloria di Dio, ripensa al musicale
strumento davidico e dice: Non tantum lingua canta, sed etiam assumpto
honorum operum psalterio; non cantare a Dio soltanto con la lingua, ma
pigliando anche in mano il salterio delle buone opere. Ecco il Breviario
di Don Bosco.
Fin qui era abbozzato questo capo quando si lesse il
discorso pronunciato dal Papa Pio XI il 19 marzo 1929 per il decreto sui
miracoli di Don Bosco, e nel discorso ecco un ricordo personale, che
arrivava proprio in buon punto. Diceva il Santo Padre che, passando
qualche giorno della sua vita con Don Bosco, sotto lo stesso tetto, alla
stessa mensa, e gustandovi più volte la gioia di potersi intrattenere
lungamente col Servo di Dio, benché sempre occupatissimo, ne aveva notata
una delle caratteristiche più impressionanti: «una calma somma, una
padronanza del tempo, da fargli ascoltare tutti quelli che a lui
accorrevano, con tanta tranquillità come se non avesse null'altro da fare».
Vi sarebbe materia da riempire un grosso volume, se
si volessero narrare tutti i fatti e riferire tutte le testimonianze che
confermano la giustezza di questa osservazione. La quale osservazione va
applicata non solo al dominio del tempo, ma anche a quello dei
contrattempi; poiché la stessa calma e tranquillità lo assisteva
inalterata di fronte a ostacoli, a inciampi, a disgrazie, che, per quanto
gravi, non lo facevano scomporre.
È ancor viva fra noi la memoria di un detto
ripetutoci dal primo successore di Don Bosco, che cioè quando il caro
Padre appariva più gaio e più contento del consueto, i suoi
collaboratori, edotti dall'esperienza, si sussurravano con pena
all'orecchio: - Oggi Don Bosco dev'essere in qualche imbarazzo ben serio,
giacché si mostra più lieto dell'ordinario. «In queste circostanze,
depone il medesimo Don Rua nei processi, la sua forza era la preghiera».
Difatti, anche prescindendo da sì autorevole testimonianza, non vi
sarebbe altra spiegazione del fatto.
Il pio autore dell'Imitazione fa appunto derivare la
pace e serenità perfetta dello spirito da una causa sola, dall'abbandono
in Dio, proprio di chi vive a lui strettamente unito: Tu, parole
dell'anima al suo Diletto, tu facis cor tranquillum et pacem magnam
laetitiamque festivam.
Bella prova di abituale unione con Dio è la facilità
a parlare di Lui con sentimento verace. Ben sapevano di tale facilità i
suoi figli, con i quali conversando soleva avere questi spunti favoriti:
«Come è buono il Signore, e quanta cura si prende di noi! Dio è un buon
padre, e non permette che noi siamo tentati sopra le nostre forze. Dio è
un buon padrone, e non lascia senza mercede neppure un bicchier d'acqua
dato per suo amore. Amiamo Dio! amiamolo! Vedete com'è stato buono con
noi? Creò tutto per noi; istituì la santissima Eucaristia per stare con
noi; a ogni istante ci colma di benefici! Quando si tratta di servire Dio,
che è ì buon padre, bisogna esser pronti a qualunque sacrificio.
Ricordatevi che la fede senza le opere è morta. Facciamo tutto quello che
si può alla maggior gloria di Dio. Tutto per il Signore, tutto per la sua
gloria!». Le occupazioni anche più materiali non gli scemavano questa
facilità.
Dice il venerando Don Rua: «Talvolta, quando lo
accompagnavamo ad ora tarda a riposo, si fermava a contemplare il cielo
stellato e c'intratteneva, immemore della sua stanchezza, a discorrere
dell'immensità, onnipotenza e sapienza divina. Altre volte per la
campagna ci faceva osservare le bellezze dei campi e dei prati,
l'abbondanza e ricchezza dei frutti, e così conduceva il discorso sulla
divina bontà e provvidenza, di modo che ben sovente si esclamava coi
discepoli di Emmaus: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum
loqueretur in via?». Una identica facilità egli mostrava con estranei,
in casa e fuori di casa, fossero persone umili o altolocate, ecclesiastici
o laici. A Marsiglia in casa di un'insigne benefattrice, presa una viola
del pensiero e rivolto alla signora: - Ecco, disse, Le do un pensiero, il
pensiero dell'eternità. Con o senza fiori, non dimenticava mai di
lasciare pensieri somiglianti, chiunque fosse chi lo avvicinava. Una delle
sue massime era questa: «Il sacerdote non dovrebbe mai trattare con
alcuno senza lasciargli un buon pensiero».
Prova ancor più lampante di abituale unione con Dio
è la facilità a parlare con unzione del paradiso. Don Bosco, afferma il
cardinal Cagliero, «parlava del paradiso con tanta vivacità, gusto ed
effusione, da innamorare chiunque l'udiva. Ne ragionava come un figlio
parla della casa del proprio padre; il desiderio di posseder Dio lo
accendeva più ancora che la mercede da lui promessa».
Udendo lamenti da' suoi per tribolazioni, fatiche,
uffici, incoraggiava col dire: «Ricordati che soffri e lavori per un buon
padrone, quale è Dio. Lavora e soffri per amore di Gesù Cristo, che
tanto faticò e soffrì per te. Un pezzo di paradiso aggiusta tutto». A
chi gli annunciava difficoltà o atti ostili rispondeva: «Di questo,
nulla in paradiso! Sono momentanei i patimenti di questa vita, ma durano
eterni i gaudi del paradiso».
Ad un ricco sfondolato e miscredente, ma incantato
per le cose udite di lui e recatosi a visitarlo per pura curiosità,
rivolse nell'accomiatarlo queste parole: «Guardiamo che un giorno Lei con
i suoi denari e io con la mia povertà possiamo trovarci in paradiso». Al
sentir menzionare vacanze autunnali era un suo motto questo: «Le vacanze
le faremo in paradiso». Tornando stanco dalla città dopo questue
laboriose, invitato a riposare alquanto prima di mettersi al tavolino o
nel confessionale, rispondeva amabilmente: «Mi riposerò in paradiso».
Al termine di lunghe discussioni concludeva: «In paradiso non vi saranno
più controversie; saremo tutti dello stesso pensare».
Sue esclamazioni frequenti: «Che piacere, quando
saremo tutti in paradiso! Siate solamente buoni, e non temete! E che!
credete voi che il Signore abbia creato il paradiso per lasciarlo vuoto?
Ma ricordatevi che il paradiso costa sacrifici». A un teologo danaroso,
ma in fama di avaro parlò con tanta unzione del cielo, che quegli corse
allo scrigno, ne prese quante pezze d'oro potevano le mani contenere e
gliele consegnò con il miglior garbo del mondo.
Un giorno, sedendo a mensa fuori di casa con parecchi
sacerdoti, pigliato argomento dalla bellezza e bontà di certi frutti
recati in tavola, venne a parlare del paradiso con tanto calore, che i
commensali, sospeso il mangiare pendettero estatici dal suo labbro. «Se
alcuno, asserisce un teste bene al corrente, gli avesse domandato a
bruciapelo: - Don Bosco, dov'è incamminato? - egli avrebbe risposto: -
Andiamo in paradiso». Il continuo desiderio del paradiso è, al dire di
Sant'Agostino, continua preghiera.
Prova sovranamente dimostratrice di abituale unione
con Dio è la stessa facilità a dire sempre una buona parola. Anche colto
all'impensata, anche affaccendato in tutt'altro, Don Bosco, dice il suo
secondo successore, «sembrava che interrompesse i suoi colloqui con Dio
per dare udienza e che da Dio gli fossero ispirati i pensieri e
gl'incoraggiamenti che regalava». Di tanta facilità a parlar del Signore
in circostanze per nulla propizie, gli esempi abbondano; ma, rinviando ai
biografi per più ampie notizie, ci limiteremo a un particolare solo, che
si ripeteva di frequente.
Spesso, sacerdoti dell'Oratorio, massime i superiori,
andavano da lui per confessarsi in ore dedicate al disbrigo della
voluminosa corrispondenza e alla trattazione di negozi temporali. Ebbene,
Don Bosco, uditane la confessione parlava sempre al penitente con tali
pensieri e con tanta unzione, che pareva ritornato allora allora
dall'altare.
Come il parlare, così l'operare. Nel suo dire si
sentiva l'accento dell'uomo avvezzo a stare unito con Dio; nel suo agire
spiccava la nota tutta sacerdotale dello zelo. Zelo significa fervore
d'animo; nel linguaggio cristiano è tradotto da sant'Ambrogio con fidei
vapor con devotionis fervor. Zelo è dunque emanazione esteriore d'interna
fede: è veemenza di pietà verso Dio, la quale, più non contenendosi in
sé, quasi ribolle, sprigionando calore e forza viva. Zelo però non è
entusiasmo, ossia esaltazione straordinaria che presto si esaurisce; lo
zelo, retto da vedute superiori, ha procedimenti continui e progressivi,
qualunque siano le resistenze di uomini e di cose.
Lo zelo di Don Bosco si modellava su quello di Gesù,
tutto ardore per la gloria di Dio mediante la salvezza delle anime e la
guerra al peccato, e tutto bontà nei modi, con cui si guadagnava i cuori
di piccoli e di grandi. I giovani dell'Oratorio ne erano incantati e
traducevano la loro impressione in una frase rispecchiante la fede e pietà
del luogo, dicendo: «Don Bosco sembra Nostro Signore».
Attraverso a queste parole noi vediamo Don Bosco
andare, venire, operare con i piedi sulla terra e con le mani al suo
lavoro, ma con gli occhi sfavillanti di quella luce che scende dall'alto,
illumina l'interno dell'uomo e ne rischiara tutta la vita. Qui bisogna
cercare Don Bosco, prima che nelle sue istituzioni.
San Bonaventura, distinte tre sorta di preghiera, la
comune, la privata e la continua, raccomanda quest’ultima, specialmente
ai superiori che siano molto occupati. Esige essa tre cose: che si tenga
il pensiero rivolto a Dio in tutte le occupazioni, che l'anima cerchi
costantemente l'onore di Dio, e che di tanto in tanto, quasi furtivamente,
si raccolga in orazione. In questo senso, dal segno della santa croce alla
santa messa, dal motto familiare alla predica, dalle minuzie di casa ai
grandi affari, tutte le azioni di Don Bosco erano penetrate di preghiera;
nelle maggiori imprese poi questo spirito gli si faceva propulsore
gagliardo a promuovere la gloria di Dio.
Prima d'impegnarsi a fondo in qualsiasi attività,
anziché fare i conti se ci fossero o no mezzi materiali a sufficienza,
guardava il problema sotto un angolo visuale ignoto alla prudenza
puramente umana. Diceva: «Io tengo questa norma in tutte le mie imprese.
Cerco prima ben bene, se quella tale operai ridondi a maggior gloria di
Dio e a vantaggio delle anime; se è così, vado avanti sicuro, che il
Signore non lascerà mancare la sua assistenza; se poi non è quello ch'io
immagino o meglio quel ch'io credo, vada pur tutto in fumo, che io sono
egualmente contento».
Convertitosi poi un disegno in felice realtà, se
vogliamo sapere come vi ripensasse, ce lo dice in una risposta al padre
Felice Giordano degli Oblati di Maria Vergine, il quale erasi mostrato
curioso di conoscere come mai le sue opere camminassero tanto bene,
sebbene fossero così colossali. «Sappia, gli disse, che io non c'entro
per niente. È il Signore che fa tutto; quando vuol dimostrare che
un'opera è sua, si serve dello strumento più disadatto. È questo il
caso mio. Se egli avesse trovato un sacerdote più povero, più meschino
di me, quello e non altri avrebbe scelto a strumento di quelle opere,
lasciando da parte il povero Don Bosco a seguitare la sua naturale
vocazione a cappellano di campagna».
Il mondo parlava delle cose sue; egli stesso parlava
delle sue cose al mondo. Lasciava che la gente dicesse. «Si tratta,
soleva ripetere, di glorificare l'opera di Dio, non quella dell'uomo.
Quante meraviglie avrebbe operate di più il Signore, se Don Bosco avesse
avuto più fede!». Risalendo il merito delle opere a Dio, era naturale
che gliene tributasse lode egli stesso anche mediante le nuove forme di
pubblicità; nella qual cosa ecco il criterio pratico, da lui seguito:
«È giusto che coloro che vi fanno la carità, sappiano dove vada a
finire. Viviamo in tempi, in cui il mondo, divenuto materiale, vuol vedere
e toccar con mano; quindi è più che mai necessario che le nostre buone
opere siano conosciute, affinché Dio ne venga glorificato».
Nel processo apostolico numerosi e coscienziosi
testimoni, che con le loro orecchie l'avevano udito narrare vicende sue,
esprimono tutti il medesimo pensiero, dicendo che, nel parlare così, Don
Bosco mirava ben più alto della sua persona. L'intima persuasione di
essere umile strumento della Provvidenza divina lo sostenne in momenti di
estrema delicatezza; poiché Dio permise che non sempre gli uomini ne
giudicassero subito favorevolmente l'operato. La stessa suprema autorità
diocesana, che tardò a capire Don Bosco, era quasi convinta di rendere
onore a Dio contrariandolo a lungo. Che amaro calice per il povero Don
Bosco! Ma la sola doglianza che gli cadesse dal labbro o dalla penna
durante la sanguinosa prova fu che tante noie l'obbligassero a perdere
tanto tempo, mentre ci sarebbe stato sì gran bene da fare per la gloria
di Dio. Questo, sempre questo il suo obiettivo supremo.
Un giorno il suo voluminoso epistolario documenterà
a dovizia l'immensa sua sete di promuovere la gloria di Dio e di accendere
la stessa brama nei sacerdoti del clero secolare e regolare che avessero
con lui scambio di corrispondenza epistolare, massime ne' suoi figli. I
quali suoi figli fra i moniti paterni che si trasmettono con religiosa
pietà, assegnano un posto d'onore a questa sua ingiunzione: «Se poi
trattasi di cose spirituali, le questioni si risolvano sempre nel modo che
possa tornare a maggior gloria di Dio. Impegni, puntigli, spirito di
vendetta, amor proprio, ragioni, pretensioni ed anche l'onore, tutto deve
sacrificarsi in questo caso». Ecco il linguaggio dell'uomo abituato a
passare frammezzo agli uomini con la mente fissa in Dio.
A tutti indistintamente i Cristiani l'Apostolo fa un
dovere di cercare la gloria di Dio, ognuno secondo la propria vocazione,
il sacerdote dunque da sacerdote. Ora la missione del sacerdote, ministro
di Cristo, non può essere diversa dalla missione del Signore, cioè
salvare le anime dalla perdizione: venit enim Filium hominis quaerere et
salvare, quod penerai.
Don Bosco, che dal giorno della sacra ordinazione non
altro volle essere se non sacerdote, e quindi non ad altri uffici aspirò
se non a mansioni strettamente sacerdotali, né altro titolo ambì dinanzi
al suo nome se non quello solo solissimo di sacerdote, né altre insegne
tollerò mai sulla sua persona se non i distintivi del sacerdozio, non in
altro modo pensò mai di dover glorificare Dio se non in funzione di
sacerdote, e precisamente in quello, a cui, graduando le opere intese alla
gloria di Dio, il Pseu-dodionisio ha assegnato il primo luogo, come omnium
divinorum divinissimum, cioè cooperari Deo in salutem animarum.
Su di che i Salesiani tengono da Don Bosco stesso un
magistrale insegnamento, che entra nel patrimonio vivo delle domestiche
tradizioni. Don Bosco diceva così: «Un prete è sempre prete, e tale
deve manifestarsi in ogni sua parola. Ora esser prete vuol dire aver per
obbligo continuamente di mira il grande interesse di Dio, cioè là salute
delle anime.
Un sacerdote non deve mai permettere che chiunque si
avvicini a lui ne parta senz'aver udita una parola che manifesti il
desiderio della salute eterna della sua anima». Onde questo scopo
eminentemente sacerdotale egli si prefisse in tutte le sue grandi
fondazioni, cominciando da quella destinata a essere madre delle altre. «Ricordatevi,
predicava ai suoi, che l'Oratorio è stato fondato dalla Beata Vergine per
un sol fine, per salvare anime». Ecco perché nello stemma salesiano
incise il motto: Da mihi animas, che fu la sua parola d'ordine per tutta
la vita.
Seguirlo passo passo per questa strada non ci sarebbe
possibile; a istruzione e ad edificazione dei confratelli nel sacerdozio
altri, spigolando di proposito in questo campo vastissimo, narri le
industrie da lui escogitate, descriva le fatiche sostenute, ne enumeri gli
eroici sacrifici, ne raccolga i gemiti, i sospiri, le preghiere. Sì,
soprattutto le preghiere, senza le quali non avrebbe avuto né la forza di
seminare fra tante lacrime, né il confronto di mietere in tanta
abbondanza.
Scrive infatti uno dei più moderni teologi: «Dove
manca la vita interiore, l'azione esterna non ottiene che magri risultati,
perché la grazia di Dio non scende a fecondare un ministero, in cui la
preghiera non ha quasi posto; onde la necessità di avvivare le opere
esterne con lo spirito di preghiera».
Gran nemico di Dio, perché lo discaccia dalle anime
e gran nemico delle anime perché le spinge all'inferno, è il peccato;
contro il peccato Don Bosco impegnò per tutta quanta la vita una guerra a
fondo. Una notte non potè prender sonno per aver saputo che un suo alunno
aveva commesso peccato; la sera seguente, parlandone dal pulpitino della
"buona notte", sembrava la tristezza in persona. Al pensiero del
peccato mortale de' suoi incitabatur spiritus in ipso, gli si riempiva lo
spirito di profonda afflizione, come all'Apostolo delle genti nel vedere
gli Ateniesi adorare idoli.
Nel predicare sulla gravezza del peccato mortale il
pianto ordinariamente gli stringeva la gola, talvolta gli strozzava la
parola in bocca, obbligandolo a troncare il discorso; anche nelle
conversazioni familiari, sol che venisse in campo l'offesa di Dio, il suo
volto si contraeva e l'accento ed anche il silenzio esprimeva dolore.
Perfino fisicamente soffriva dinanzi ad atti peccaminosi, o nel ricevere
l'accusa di certe colpe più gravi; così, udendo bestemmiare, si sentiva
svenire, e ascoltando da giovani la confessione di cose impure, era
assalito da conati di vomito o provava all'olfatto sensazioni
insopportabili o pativa principi di asfissia.
Un giorno Don Francesia, vistolo dolorare
improvvisamente per mal d'occhi, gli chiese con filiale confidenza, se
avesse lavorato soverchiamente quella notte, e il buon Padre a
rispondergli che, andato a confessare nelle carceri dove non si può dare
molta penitenza, si era offerto a farne egli stesso in luogo dei
penitenti. Il peccato, quand'era tuttavia in azione, gli causava un vero
martirio, il maggiore ch'ei si potesse immaginare; ma insieme gli
centuplicava l'ardire, sicché, se avesse avuto anche un esercito contro,
non si sarebbe, diceva, arreso giammai.
Il peccato ormai commesso, massime se di scandalo,
gli metteva i brividi, facendolo esclamare angosciamente: «Oh, che
disastro! oh, che disastro!». Il peccato temuto gli dava certi
rimescolii, per cui si augurava di veder annientato l'Oratorio e rovinate
al suolo le sue case, qualora non avessero più corrisposto al loro fine
d'impedire il peccato. Una delle sue rare dichiarazioni personali era
concepita così: «Don Bosco è il più gran buon uomo di questo mondo.
Rompete, gridate, fate birichinate, saprà compatirvi, perché siete
giovani; ma non date scandali, non rovinate le anime vostre e le altrui
col peccato, perché egli allora diventa inesorabile».
L'uomo di preghiera sa ricorrere di botto a modi così
suoi per impedire l'offesa di Dio, che ad altri non verrebbero in mente
nemmeno a pensarci di proposito. In casa di certi signori un loro bambino
quinquenne, rovesciataglisi la carrozzella con cui si baloccava,
s'incollerì talmente, che pronunciò con dispetto il nome di Cristo. Don
Bosco, chiamatolo a sé, gli disse con dolce amorevolezza: - Perché hai
nominato così malamente il nome di Gesù Cristo? - Perché la carrozzella
non vuole andar bene. Ma non sai che non si deve nominare Dio senza
rispetto e divozione? Dimmi, sai i comandamenti? - Sì, - Ebbene, fammi il
piacere di recitarmeli. Il piccolo obbedì. Don Bosco, lasciatolo arrivare
al secondo: Non nominare il nome di Dio invano, fermò e gli chiese: - Sai
che cosa vuol dire Non nominare il nome di Dio invano? Vuol dire, mio
caro, che non bisogna nominar Dio, che ci vuole tanto bene, senza una
ragione giusta e senza divozione; altrimenti facciamo un peccato, cioè un
dispiacere a Dio e questo specialmente quando si nomina con collera, come
hai fatto tu adesso. Papà lo dice sempre! fece il ragazzino. E d'ora in
avanti non lo dirò più! interruppe il padre, li presente,
mortificatissimo.
Un'altra volta, aspettando la partenza del treno,
sentì il figlioletto del trattore balbettare ogni tanto: Chisto! Chisto!
Facendogli cenno con la mano, gli disse: - Vieni qua, piccolino. Vuoi che
t'insegni a pronunciar bene le parole? Su, levati il cappello, e sta'
attento. Si dice Cristo, non
Chisto. Così, vedi: In nome
del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Sia lodato Gesù
Cristo. Attento bene: non Chisto, ma Cristo.
- Nel maggio del 60 ebbe la sgradita sorpresa di una
perquisizione personale. Uno dei tre perquisitori, mentre Don Bosco apriva
l'uscio della stanza, lesse in tono canzonatorio le parole scritte al
sommo: Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria. Bosco si arresta, si
volge e detto: E sempre sia lodato il nome…, intima ai tre con severità
imperiosa: - Toglietevi il cappello! Ma poiché nessuno obbediva, ripigliò:
- Voi avete cominciato; ora bisogna che terminiate col dovuto rispetto, e
comandò a ognuno di scoprirsi il capo. La superiorità dell'uomo di Dio
s'impose. Quelli fecero di necessità virtù. Allora egli conchiuse.: il
nome di Gesù, Verbo incarnato.
Sono detti e fatti che spiegano tante altre cose; per
esempio, le ore interminabili spese a cancellare peccati; le immagini di
Domenico Savio con la scritta La morte, ma non peccati; il metodo
educativo, mirante a prevenire i peccati.
Spiegano pure come nell'Oratorio dominasse un sacro
orrore del peccato, non solo mortale, ma anche veniale; come fosse ivi
generale lo spirito di riparazione, che muoveva tanti giovani a risarcire
i peccati altrui non solo pregando, ma anche mortificandosi; come
dappertutto e sempre una premurosa sollecitudine spronasse i migliori a
invigilare per impedire che il peccato s'insinuasse o si annidasse fra i
compagni.
Certo è cosa che commuove il constatare nei processi
canonici l'unanimità, con cui i testi, ecclesiastici o laici, vissuti già
in quell'ambiente, mettono in rilievo questo lato dello zelo di Don Bosco
e non col linguaggio scolorito di chi tragga dalla memoria vecchi ricordi,
ma col tono vivace di chi sente ridestarsi dentro impressioni profonde e
care.
Un bel passo di san Tommaso proietti qui il fascio
della sua luce chiarificatrice. Argomenta l'Angelo delle scuole: «L'amore
di amicizia ha questo di proprio, che cerca il bene dell'amato. Perciò
siffatto amore, quando sia ardente, muove chi n'è acceso, a reagire
contro tutto ciò che si opponga al bene dell'amico; nel qual senso si
dice che ha zelo per l'amico chiunque si studi d'impedire quanto possa in
parola o in azioni ledere gl'interessi dell'amico.
Parimente si proclama zelante verso Dio chi si
adopera a tutto potere per opporsi a quanto vada contro l'onore o il
volere di Dio, e diciamo divorato da santo zelo chi fa del suo meglio per
rimediare al male che vegga commettersi oppure nel caso d'impossibilità
lo sopporta gemendo». Ecco dunque perché i peccati ferivano così
dolorosamente il cuore di Don Bosco.
Don Bosco ardeva del divino amore e in ogni peccato
sentiva l'offesa fatta al suo Dio. Non poche volte fu udito sfogare la
piena degli affetti con accenti simili a questi: «Come è possibile che
una persona assennata, la quale crede in Dio, s'induca a offenderlo
gravemente? E perché trattar così male il Signore? Ma vedete come Dio è
buono! Ci colma ogni giorno de' suoi benefici. Come mai offenderlo?
Bisogna proprio dire che chi offende il Signore, dimostra con ciò solo di
non essere in se stesso». Tali e altrettali sonavano le espressioni
orali; ma chi ci ridirà le impressioni della sua anima seraficamente
innamorata di Dio?
Nel fianco della casa paterna di Don Bosco si aperse
una cappellina, che è un simbolo. Ve la allestì il buon Padre nel 48 per
comodità propria e dei giovanetti, quando o solo o accompagnato da alunni
dell'Oratorio si conduceva colà a respirare per alcuni giorni l'aria
nativa. Tutto si mantiene ivi nello stato primiero.
Alla parete destra di chi entra un venerando
seggiolone, su cui egli sedeva confessando; di fronte, nel centro
dell'altare, il tabernacolo, non già decorativo, ma solido per
racchiudere l'augustissimo Sacramento; su in alto il quadro della Beata
Vergine. Ecco belli e parlanti i tre massimi fattori di santificazione,
sempre da Don Bosco usati per sé, applicati ai suoi, additati a tutti:
frequente confessione, frequente comunione, divozione a Maria Santissima:
Maria Santissima che chiama, chiama a Gesù attraverso il sacramento della
riconciliazione e dell'amore.
In una lettera del 13 febbraio 1863 Don Bosco diceva
a Pio IX: «Vostra Santità secondi l'alto pensiero, che Iddio Le ispira
nel cuore, proclamando ovunque possa la venerazione al Santissimo
Sacramento e la divozione alla Beata Vergine, che sono le due ancore di
salute per la misera umanità». Il moltissimo ch'egli fece durante gli
anni delle sue maggiori fondazioni per instillare nei vicini e propagare
fino agli estremi limiti della terra il culto amoroso della Santa Vergine
non avrebbe avuto una causa sufficiente, se non ci fosse stata in lui una
divozione fervida verso la madre di Dio; questa divozione infatti contribuì
grandemente alla sua formazione spirituale e allo sviluppo della sua vita
interiore.
Mariam cogita, Mariam invoca, ci esorta colui che la
Chiesa saluta maestro dei maestri nella divozione a Maria. Il pensiero di
Maria, l'invocazione di Maria non tacquero mai nel cuore e sul labbro di
Don Bosco; nel che pure la pietà di lui si rannodava al filo non mai
interrotto della genuina tradizione cattolica.
La sua lingua celebrava sempre le glorie antiche e
recenti della Madonna, mirando a trasfondere negli altri la confidenza
filiale che nutriva in cuor suo verso di lei; dalla sua lingua si levavano
continue le filiali invocazioni alla celeste Patrona; sulle sue labbra
tornavano spesso pubbliche azioni di grazie per innumerevoli benefici
ch'ei riconosceva dalla potenza della grande Ausiliatrice. «Quanto è
buona Maria!», esclamava con tenerezza in molte occasioni. Lodato per le
sue opere, ne soffriva e tosto rettificava: «Questa buona gente non sa
chi sia Don Bosco; chi fa Tutto, è Maria Ausiliatrice.
Nel predicare le grandezze di Maria gli avvenne di
commuoversi fino alle lacrime. Fu udito ripetere insistentemente di non
aver dato un passo senza far ricorso a Maria. Per avere i lumi in momenti
decisivi, pellegrinò almeno tre volte al celebre santuario d'Oropa sopra
Biella.
Nella sua corrispondenza epistolare ricorrono spesso
frasi come questa: «La Santa Vergine ci conservi sempre suoi». A
chiusura d'un bel raccontino sulla Madonna, scritto non sappiamo da chi,
egli ci mise di suo pugno sulle bozze di stampa che si conservano, questa
calda esortazione più che non dal calamaio, sgorgatagli dall'intimo del
cuore: «Lettore, ovunque tu sia, qualunque cosa tu faccia, tu puoi con
una preghiera ricorrere alla Santa Vergine Maria. Ma ricorri con fede, che
Ella è una madre pietosa, la quale vuole e può beneficare i suoi
figliuoli. Pregala di cuore, pregala con perseveranza, e sta' sicuro che
Ella sarà anche per te una vera provvidenza, un pronto soccorso nei tuoi
bisogni spirituali e temporali».
Altrove si descrive l'apparizione di Maria a santo
Stanislao Kostka, quando il giovane angelico ne ricevette il comando di
entrare nella Compagnia di Gesù; orbene, parimente sulle bozze, Don Bosco
aggiunse: «Cristiani, che amate di essere cari a Maria, pregatela di
cuore che vi ottenga questa bella grazia di consacrarvi totalmente a Dio.
Ditele che Ella così vi tolga dai grandi pericoli del mondo; che vi
faccia, poiché Ella può tutto, di questi comandi che fece a Stanislao, e
voi prontissimi l'obbedirete. Questa grazia di essere chiamato allo stato
religioso richiedeva sempre fin da fanciullo il venerabile padre Carlo
Giacinto a Maria e la ottenne». Veri sfoghi l'uno e l'altro di spontanea
e vivissima pietà verso la Madonna.
In argomento si dolce non facciamoci scrupolo di
allungare il discorso. Come il cuore di Don Bosco si dilatava al pensiero
di Maria, così il nostro animo si allieta a raccoglierne le espansioni, e
tanto più avidamente, quanto minore soleva essere in lui il gusto di
mettere altri a parte degl'interni suoi moti. Vi sono però circostanze,
in cui anche da temperamenti pieni di riserbo la emotività prorompe.
Abbiamo una lettera di Don Bosco, datata da Oropa il
6 agosto 1863 e indirizzata ai suoi «carissimi figliuoli studenti», che
ribocca di un vero lirismo pio. Il buon padre li chiama tutti a
condividere seco in ispirito i soavi trasporti, a cui egli si abbandona in
quell'atmosfera mariana, in quella regale dimora della Santa Madre di Dio.
L'alta religione del luogo si è impossessata
siffattamente del suo spirito meditativo, il giubilo causatogli dallo
spettacolo di tanta pietà verso la sua celeste Regina lo inonda a segno,
che, dato di piglio alla penna, sente per prima cosa il bisogno di far
vibrare nei figli la sua stessa commozione. «Se voi, o miei cari
figliuoli, vi trovaste sopra questo monte, ne sareste certamente commossi.
Un grande edificio, nel cui centro havvi una divota chiesa, forma quello
che comunemente si appella Santuario d'Oropa. Qui havvi un continuo
andirivieni di gente. Chi ringrazia la Santa Vergine per grazie da lei
ottenute, chi dimanda di essere liberato da un male spirituale o
temporale, chi prega la Santa Vergine che l'aiuti a perseverare nel bene,
chi a fare una santa morte. Giovani e vecchi, ricchi e poveri, contadini e
signori, cavalieri, conti, marchesi, artigiani, mercanti, uomini, donne,
pastori, studenti d'ogni condizione vi si vedono continuamente in gran
numero accostarsi ai santi Sacramenti della confessione e comunione e
andare di poi ai pie' d'una stupenda statua di Maria Santissima per
implorare il celeste di Lei aiuto».
La sua gioia però si vela ben tosto di tristezza,
perché non si vede, come nell'Oratorio, circondato da' suoi Figli, per
condurli tutti con sé a rendere divoto omaggio alla benedetta Madre. «Ma
in mezzo a tanta gente il mio cuore provava un vivo rincrescimento. Perché?
Non vedeva i miei cari giovani studenti. Ah! sì, perché non posso avere
i miei figli qui, condurli tutti ai pie' di Maria, offerirli a Lei,
metterli tutti sotto alla potente di Lei protezione, farli tutti come
Savio Domenico o altrettanti san Luigi».
A questo vivo dispiacere di non poter onorare la
Santa Vergine in forma più solenne mediante la partecipazione de' suoi
figli, Don Bosco trova conforto in una promessa e in una preghiera. «Per
trovare un conforto al mio cuore, sono andato dinanzi al prodigioso altare
di Lei e Le ho promesso che, giunto a Torino, avrei fatto quanto avrei
potuto per insinuare nei vostri cuori la divozione a Maria. E,
raccomandandomi a Lei, ho dimandato queste grazie speciali per voi. Maria,
Le dissi, benedite tutta la nostra casa, allontanate dal cuore dei nostri
giovani fin l'ombra del peccato; siate la guida degli studenti, siate per
loro la sede della vera Sapienza.
Siano tutti vostri, sempre vostri, e abbiateli sempre
per vostri figliuoli e conservateli sempre fra i vostri divoti. Credo che
la Santa Vergine mi avrà esaudito e spero che mi darete mano, affinché
possiamo corrispondere alla voce di Maria, alla grazia del Signore».
Finalmente il cuore di Don Bosco si riposa in un
sentimento di ferma fiducia, quasi vedesse la Madonna che, esaudendone le
suppliche, di lassù dai bei monti di Oropa alzi la destra a benedire il
caro Oratorio di Valdocco, stendendo il manto della sua materna protezione
sopra tutti coloro che vi abitano. «La Santa Vergine Maria benedica me,
benedica tutti i sacerdoti e chierici e tutti quelli che impiegano le loro
fatiche per la nostra casa; benedica tutti voi. Ella dal cielo ci aiuti, e
noi faremo ogni sforzo per meritarci la sua santa protezione in vita e in
morte. Così sia».
Partendo dal sacro luogo, Don Bosco dovette, con
l'occhio della mente fisso nell'avvenire, mormorare fra le labbra
intenerito e fiducioso: Levavi oculos meos in montes, unde veniet AUXILIUM
mihi, giusto allora che stava in procinto di erigere a Maria Ausiliatrice
il suo Santuario.
Per il qual Santuario Don Bosco aveva ideato un
quadro stupefacente. Al centro, sull'alto, Maria Santissima fra i cori
angelici; torno torno e più vicino a lei, gli apostoli, indi martiri,
profeti, vergini, confessori; in basso, emblemi, delle vittorie di Maria e
i popoli della terra supplici. Egli ne coloriva il disegno con tanta copia
di parole e dovizia di particolari, che sembrava ritrarre uno spettacolo
da lui realmente veduto. È vero che il pittore gli fece toccare con mano
l'impossibilità di aggruppare entro spazio si limitato un numero si
stragrande di figure; ma la grandiosa concezione di Don Bosco e più la
sua maniera di esporla riproducevano al vivo un soggetto di
contemplazione, che doveva essere familiarissimo al fervente divoto di
Maria e instancabile propagatore delle sue glorie.
CAPO VIII. - Nelle tribolazioni della vita.
Tutti quelli che piacquero a Dio, passarono per molte
tribolazioni, mantenendosi fedeli. Guardando a distanza, chi non avrebbe
creduto che Don Bosco andasse avanti per un cammino sparso di rose? Eppure
la sua vita fu tutta quanta seminata di pungenti spine. Spine in famiglia:
la povertà e le opposizioni, che prima gli sbarrarono, poi gli resero
aspra la strada del sacerdozio, obbligandolo a dure e umilianti fatiche.
Spine in fondare l'Oratorio: da ogni parte gli si gridava la croce
addosso, da privati, da parroci, da autorità municipali, politiche,
scolastiche. Spine e peggio per causa dei protestanti: con le sue Letture
Cattoliche metteva ogni mese il dito su qualche piaga, inde irae. Spine a
fasci per mancanza di mezzi: aver sulle braccia tanti giovani e tante
opere e non aver mezzi sicuri di sussistenza. Spine dal suo stesso
personale: sacrifici per formarselo e diserzioni dolorose. Triboli e spine
per via dell'autorità diocesana: malintesi, opposizioni, contrarietà
senza fine.
Un calvario la fondazione della Società Salesiana,
tanto che a cose fatte Don Bosco disse: «L'opera è compiuta. Ma quante
brighe! quanti rompicapi! Se avessi ora a cominciare, non so se avrei più
il coraggio di accingermi all'impresa». Un martirio prolungato le
sofferenze fisiche. Sostenersi fra tante tribolazioni e giungere con
serena sicurezza alla meta è possibile soltanto a chi, secondo
l'insegnamento di san Paolo, fissa gli occhi sull'autore e consumatore
della fede, Gesù, che, propostosi il gaudio, sostenne la croce, non
facendo caso dell'ignominia. Dove si vede in sostanza che questi sono
trionfi riserbati alle anime interiori.
Accostiamoci un po’ a Don Bosco per osservarlo da
presso in qualche momento più critico della sua vita. Sant'Agostino, dopo
aver detto che il Salmista, in mezzo a pene causategli da uomini tristi,
si rifugia nella preghiera, orat multa patiens, esorta anche noi, quando
fossimo similmente in tribolazione, a fare come lui orazione: ut,
communicata tribulatione, coniungamus orationem. È la gran lezione che ci
danno i Santi, gli unici veri maestri dopo Gesù nell'arte di ben
soffrire.
Al Huysmans che in un suo succinto, ma geniale
schizzo su Don Bosco aveva necessità di omettere moltissime cose, non
parve soverchio destinare un pagina per la domenica delle Palme del 46.
Una giornata realmente di passione per Don Bosco! Cacciato e ricacciato da
ogni angolo della città, ma seguito fedelmente da gregge sempre più
numeroso, erasi ridotto a fare in un prato perfino ciò che normalmente si
compie nelle chiese.
Ma anche là era sonata l'ora dello sfratto. Nessuna
dilazione concessa; non un barlume di speranza; tutte le ricerche vane. Le
diffidenze sollevategli contro gli facevano chiudere la porta in faccia,
dovunque si presentasse. Il cuore si spezzava. Confessati i suoi birichini
là nel margine del prato, li condusse in pellegrinaggio al santuario
della Madonna di Campagna, distante un paio di chilometri. Che fervore di
canti, di preci, di comunioni! La celebrazione della messa lo corroborò;
ma gli si acuiva il rammarico al vedere la schietta pietà di quei
figliuoli, vicini a sbandarsi dopo tanti sacrifici suoi per adunarli e
tenerseli uniti. Nel discorsetto li paragonò a uccelli, cui veniva
gettato a terra il nido; pregassero
molto la Madonna, che ne avrebbe preparato loro un altro migliore e più
sicuro.
Durante il pomeriggio la ricreazione ferveva nel
prato; ma Don Bosco aveva il pianto nell'anima. Al cadere del giorno,
nulla di nulla; un tentativo estremo per trarsi d'imbarazzo, fallito.
Allora la natura volle imperiosamente i suoi diritti; Don Bosco sentì un
gran bisogno di piangere. Oppresso dall'afflizione, fu visto appartarsi,
raccogliersi tutto in sé e dir alto, lagrimando, la sua preghiera. I più
grandicelli che, conoscendone le abitudini, non si davano pace al vederlo
così mesto e l'avevano seguito, udirono quella preghiera del dolore e
della speranza: - Dio mio, Dio mio, sia fatta la vostra volontà; ma non
permettete che a questi poveri figliuoli manchi un rifugio. Il pregare non
fu vano; apparve quasi immediato l'effetto. La domenica dopo si potè
festeggiare con allegrezza la Pasqua.
Uno dei baldi giovanotti che stettero ivi a fianco
del padre nell'ora della desolazione e che ha lasciato nella storia
dell'Oratorio un nome assai simpatico, si chiamava Giuseppe Brosio,
braccio destro di Don Bosco in frequenti occasioni. Dobbiamo alla sua
penna ingenua il racconto che segue.
Una domenica, finite le funzioni, Don Bosco non si
vedeva nel cortile fra i ragazzi. L'insolita assenza non poteva passare
inosservata. L'affezionatissimo Brosio andò in cerca di lui, finché non
lo rinvenne in una camera, molto triste e quasi piangente. Alle sue
incalzanti domande Don Bosco, che gli voleva tanto bene, rispose che un
tal oratoriano l'aveva oltraggiato in modo da recargli grave dispiacere.
Per me, soggiunge, poco importa; mi duole soltanto che l'ingrato corre
alla perdizione. Brosio, ferito nel cuore, più non si tenne, ma, con la
furia del popolano che va in bestia, si avventava fuori per correre e dare
all'insolente una lezione sonora. Don Bosco, mutato aspetto, fece in tempo
a fermarlo, dicendo pacatamente: - Tu vuoi punire l'offensore di Don
Bosco; hai ragione faremo insieme la vendetta: sei contento? - Sì,
rispose con energia il garzone, cieco di collera. Don Bosco soave soave lo
piglia per mano, lo conduce in chiesa, lo fa pregare accanto a sé, e
rimane a lungo in orazione. Dovette aver pregato anche per il vicino, che
in un attimo passò dall'ira all'amore. Usciti che furono, Don Bosco
paternamente gli disse: - Vedi, mio caro, la vendetta del cristiano è
perdonare e pregare per l'offensore.
Quante occasioni, anche tragiche, si presentarono
all'uomo di Dio per mettere in pratica il santo ammonimento! Dal 48 al 54
furono anni di attentati veri e propri alla sua esistenza. Una palla di
fucile, a lui diretta mentre faceva il catechismo, gli forò la manica fra
il braccio sinistro e il petto. Due sicari, appostati all'oscuro in un
canto di Piazza Castello, erano li lì per pugnalarlo, quando accorse
gente.
Due volte, chiamato al letto di finti moribondi, mandò
a vuoto con la sua presenza di spirito diabolici tentativi di sopprimerlo,
avvelenandolo o massacrandolo. Per ben tre volte scansò, vittima
designata, la ferocia di un terribile accoltellatore prezzolato. In camera
sua minacciato con arma da fuoco, dovette la salvezza all'irrompere di
chi, sospettando, stava alle vedette. Sulla strada di Moncalieri un
formidabile colpo di randello gli avrebbe fracassato la nuca, se
l'aggressore, nell'atto di assestarglielo, non fosse andato, per un suo
provvidenziale spintone, a ruzzolare nel borro vicino.
E i quattro mortali pericoli, da cui lo scampò il
cane misterioso? I mandanti, malfattori d'alto bordo, appiattati
nell'ombra, armavano mani omicide e moltiplicavano gli assalti, perché
Don Bosco non intendeva disarmare nella sua lotta implacabile, ma leale
pro Ecclesia et Pontifice, mezzo soprattutto delle temute Letture
Cattoliche. Tanti e si brutti rischi, che avrebbero sgomentato uomini non
privi di coraggio, a lui non scemavano nemmeno la calma nelle ordinarie
occupazioni, sicché entro casa e poco e da pochi si conoscevano le sue
peripezie. Quale spirito superiore lo animasse nell'azzardosa campagna,
egli stesso ce l'apprende.
Nel 53, a due signori che, ricevuti cortesemente,
erano trascesi a truculente minacce per forzarlo a smettere quella
pubblicazione periodica, disse chiaro e tondo: «Facendomi sacerdote, io
mi sono consacrato al bene della Chiesa Cattolica e alla salute delle
anime, particolarmente della gioventù. Loro non conoscono i preti
cattolici; altrimenti non si abbasserebbero a queste minacce. Sappiano che
i sacerdoti della Chiesa Cattolica, finché sono in vita, lavorano
volentieri per Iddio; che se nel compiere il proprio dovere avessero a
soccombere, riguarderebbero la morte come la più grande fortuna e la
massima gloria».
Ci tenne pure a dichiarare che egli non avrebbe mai
opposto violenze a violenze, perché «la forza del sacerdote sta nella
pazienza e nel perdono». Infatti chi dopo simili incontri avesse cercato
Don Bosco, l'avrebbe trovato a ringraziare il Signore e la Vergine, a
pregare per gli sciagurati persecutori, a pensare dinanzi a Dio come
rendere bene per male e a ritemprare l'animo nella comunicazione col suo
Signore.
Le aggressioni a mano armata s'intercalavano ad
assalti più prosaici, ma assai più numerosi: a quelli dei fornitori e
dei creditori. Nel condurre avanti opere di religione e di carità, Don
Bosco si vedeva sovente ridotto in durissime strettezze: le quali però
non gli toglievano di trarre dalle profondità della fede alimento perenne
a una santa allegrezza e pace. Dio è un buon padre, diceva; egli provvede
agli uccelli dell'aria e non lascerà certamente di provvedere a noi.
Quanto a sé e alla sua missione, ragionava così: - Di queste opere io
sono soltanto l'umile strumento; l'artefice è Dio. Spetta all'artefice e
non allo strumento provvedere i mezzi di proseguirle e condurle a buon
fine. Egli lo farà, quando e come giudicherà meglio; a me tocca solo di
mostrarmi docile e pieghevole nelle sue mani.
Tale abitudine a guardare le cose dai tetti in su gli
faceva dire nei sermoncini della sera: «Pregate, coloro che possono,
facciano la santa comunione secondo la mia intenzione. Vi assicuro che
prego anch'io! anzi prego più di voi. Mi trovo in gravi imbarazzi! Ho
bisogno di una grazia. Vi dirò poi quale sia». Alcune sere dopo
manteneva la parola, raccontando, per esempio, di un ricco signore venuto
a portargli la somma sufficiente, e soggiungeva: «La Vergine Santissima
oggi, oggi stesso, vedete, ci ha ottenuto un sì segnalato beneficio.
Ringraziamola di cuore. Intanto continuate a pregare; il Signore non ci
abbandonerà. Ma se nella casa entrasse il peccato, poveri noi! Il Signore
non ci soccorre più. Attenti dunque a respingere le insidie del demonio e
a frequentare i sacramenti».
Sono spizzichi di parlatine che giovani interni
scrivevano letteralmente sera per sera e che i nostri archivi custodiscono
gelosamente, perché eco fedele della voce paterna, e documento prezioso
della verità di quanto egli asseriva pubblicamente nel 76: «Non abbiamo
mezzi umani; ma noi siamo soliti alzare gli occhi in su». Se non che, la
prova migliore che un uomo ha continuamente il cuore in Dio e Dio nel
cuore, sta in quel mutare fortitudinem, in quel pigliare sempre nuove
forze, dove tutto parrebbe congiurare a prostrarle: stabilità, che è
partecipazione intima dell'immutabilità divina. «Durante trentacinque
anni io, attesta il Cagliero, non mi ricordo di averlo veduto un sol
istante infastidito scoraggiato e inquieto per il sostentamento de' suoi
giovanetti».
Alla ferocia delle violenze passeggere, all'assillo
delle angustie quotidiane, s'aggiungano fatti dolorosi, che lo colpivano
nei sentimenti più cari. Valga per tutti il brutto caso occorsogli nel
centenario di san Pietro.
Uno dei grandi amori di Don Bosco fu sempre il Papa.
In tempi ostilissimi al Papato egli spiegò per il Romano Pontefice uno
zelo operosissimo, messo a dure prove, ma conosciuto pienamente dall'una e
dall'altra sponda. Toccare Don Bosco nell'amore al Vicario di Gesù Cristo
era ferirlo nella pupilla degli occhi. Eppure Dio permise che neanche
questa tribolazione gli fosse risparmiata.
Per la solenne ricorrenza mondiale aveva egli dato
alle stampe nelle Letture Cattoliche un suo fascicolo sul Principe degli
Apostoli, operetta che incontrava molto favore; quando, che è che non è,
si viene a sapere che il suo libro è stato da taluno deferito alla sacra
Congregazione dell'Indice. Un fulmine a ciel sereno! Egli ricevette poi
d'ufficio la relazione di un Consultore: una requisitoria grave, severa,
financo rude verso la persona dell'autore, quasi che avesse attentato a
infirmare l'autorità pontificia con erronee dottrine. Don Bosco molto
pregò, molto si consigliò, poi mise in scritto una rispettosa risposta.
La notte prima d'inviarla a Roma, chiamò uno de'
suoi per la trascrizione calligrafica; la qual circostanza ci ha permesso
di conoscere cosa che altrimenti sarebbe rimasta sepolta nelle tenebre di
quelle ore. Nel silenzio notturno il calligrafo udiva commosso dalla
camera attigua i sospiri e le parole tronche di Don Bosco: erano accenti
d'infocate preghiere. A mezzanotte, aperto dolcemente l'uscio e osservato
il lavoro: - Hai visto? domandò. Sì, ho visto com'è trattato Don Bosco.
Allora il caro Padre, guardando il Crocifisso: - Eppure, o mio Gesù,
esclamò, tu lo sai che ho scritto questo libro con buon fine! Ah!
tristis est anima mea usque ad mortem ! Fiat voluntas tua! Non so
come passerò questa notte. O
mio Gesù, aiutatemi voi! Come Don Bosco abbia passato il resto della
notte, Dio solamente lo sa; noi sappiamo che alle cinque, il segretario,
rimessosi al tavolino per ultimare la copia, vedeva Don Bosco tutto sereno
e tranquillo scendere, secondo il solito, a confessare e a celebrare; dopo
di che egli sembrava proprio un altro, tanta giovialità gli brillava in
viso.
La difesa partì. Pio IX stesso arrestò la
procedura. Intanto, riesaminatosi l'affare, tutto si ridusse a due
ritocchi da eseguirsi in una nuova edizione. Grossa tempesta dunque in un
bicchier d'acqua; ma per Don Bosco fu un colpo fierissimo. La preghiera
umile che ne aveva rinfrancato lo spirito nei giorni della tristezza, si
mutò in azione di grazie alla Madonna, tostoché il cielo si rifece
sereno.
Ma che è un incubo di quattro mesi rispetto a
un'oppressione protrattasi immutabile per lo spazio di ben dieci anni?
Disperda il vento ogni amara parola; le polemiche ripugnano troppo anche
all'indole di questo lavoro. La storia farà il dover suo; anzi è già in
cammino a farlo. L'eroismo della santità di Don Bosco giganteggia in quei
due lustri. Per noi, sarebbe una grave lacuna, dove si discorre
dell'unione di Don Bosco con Dio nelle tribolazioni, passare sotto
silenzio proprio la tribolazione che fu per lui la più sensibile e la più
sentita. Noi abbiamo qui da una parte Don Bosco che cerca ogni via per
appianare i dissensi, e dall'altra persone che sembrano studiarle tutte
per moltiplicare gl'incidenti e inasprire le cose.
Dieci anni di questi dolorosi contrasti sono lunghi e
dovrebbero stancare la pazienza di Giobbe. Eppure il nostro buon Padre,
sempre mite, ogni volta che fosse costretto a parlare dell'angosciosa
vessazione, un desiderio solo, un solo rammarico aveva da esprimere;
quello scritto in una sua lettera al cardinal Nina: «Non ho mai
domandato, non mai domanderò se non pace e tranquillità, a fine di
lavorare nel sacro ministero in favore delle anime esposte a tanti
pericoli». Per Don Bosco non c'erano che anime; il resto, buon nome,
riputazione, interessi contingenti, non contavan nulla. Abbeverato di
amarezze, che faceva egli dunque? Effondersi in preghiera è il conforto
del giusto perseguitato, dice il Salmo; unire alla pazienza nella
tribolazione l'assiduità nell'orazione è, secondo l'Apostolo, la pratica
dei Santi.
Negli Atti processuali, c'imbattiamo in tre righe,
nelle quali quel periodo infausto è definito «il crogiuolo che purificò
l'oro della sua virtù da ogni scoria mondana, rendendolo eminente
soprattutto nello spirito di fede e nell'unione con Dio». Riguardo agli
autori delle tribolazioni, «io so», depone Don Rua, «che non si
contentava di perdonarli, ma pregava e ci faceva pregare per loro».
Per una cosa Don Bosco non pregò mai, per la
guarigione dalle infermità che lo travagliavano, pur lasciando che
pregassero gli altri a esercizio di carità. Le sofferenze fisiche
accettate con si perfetta conformità al volere di Dio sono atti di grande
amor divino e penitenze volontarie; ma bisogna vedere fino a che grado!
Non furono né pochi né lievi i malanni, a cui Don Bosco, andò soggetto
in tutto il tempo del suo vivere. Non è davvero iperbole il dire anche di
lui che la sua carne non ebbe mai sollievo. Sputi sanguigni, cominciati
sul principio del suo sacerdozio e rinnovantisi periodicamente. Dal 43,
mal d'occhi con bruciore e in ultimo perdita completa di quello destro.
Dal 46, enfiagione alle gambe e ai piedi, cresciutagli di anno in anno,
obbligandolo all'uso di calze elastiche, perché la carne afflosciata,
come vide chi gli rendeva il pietoso ufficio di aiutarlo a scalzarsi,
scendeva a coprirgli l'orlo delle scarpe! Dio sa come facesse a resistere
in piedi ore e ore! Egli chiamò questa gonfiezza la sua croce quotidiana.
Forti dolori al capo, si da parergli che il cranio gli si fosse dilatato;
atroci nevralgie, che gli torturavano per intere settimane le gengive;
ostinate insonnie; digestioni a volte assai laboriose; palpitazione di
cuore fino a sembrare che una costa avesse ceduto all'impulso.
Negli ultimi quindici anni, febbri intermittenti con
eruzioni cutanee; poi sull'osso sacro un'escrescenza di carne viva, grossa
come una noce, immaginiamoci con quanta sua pena sedendo o posando in
letto. Di questa tribolazione, per motivi facili a intendersi, non fiatò
mai con chicchessia, neppure col medico, che mediante un piccolo taglio vi
avrebbe tosto rimediato, come fu fatto nell'ultima sua malattia. Ai
familiari, accortisi d'un suo disagio a star seduto, si contentò di dire:
- Sto meglio in piedi o passeggiando. Mi dà fastidio il sedermi.
Un'altra di queste croci, della quale si ebbe vaga
notizia, ma senza che mai se ne conoscesse l'entità, fu rivelata dopo la
sua morte. La portava fin dal 45. Essendo in quell'anno scoppiata al
Cottolengo l'epidemia petecchiale, Don Bosco, che vi faceva frequenti
visite di carità, contrasse il morbo, conservandone poi sempre le tracce.
Il curatore della salma vide cosa da far pietà: una specie di èrpete
diffusa su tutta la cute massime nelle spalle. Più orribile cilicio non
l'avrebbe potuto straziare!
Nel quinquennio estremo, indebolimento della spina
dorsale, per cui lo vedevamo andar curvo penosamente sotto il peso di
tante croci, sorretto con filiale pietà da braccia vigorose.
Una celebrità medica francese nell'80, visitatolo
infermo a Marsiglia, disse che il corpo di Don Bosco era un abito logoro,
portato dì e notte, non più suscettivo di rammendamenti e da riporsi per
conservarlo come stava. Un altro medico, il suo medico curante, lasciò
scritto che «dopo il 1880 circa, l'organismo di Don Bosco era quasi
ridotto ad un gabinetto patologico ambulante».
Orbene, con tutta questa serqua di mali, mai un
lamento, mai il menomo indizio d'impazienza; anzi, lavorare al tavolino,
confessare a lungo, predicare, viaggiare, come chi gode perfetta salute;
più ancora, sempre di buon umore, sempre giulivo nell'aspetto e
incoraggiante nel parlare. Invitato a pregare il Signore, perché lo
liberasse da un incomodo rispose: - Se sapessi che una sola giaculatoria
bastasse a farmi guarire, non la direi. Don Bosco, guardando i suoi mali
in Colui che glieli mandava, li trovava tanto più amabili, quanto
maggiore ne era il numero e il travaglio.
Questo solo fatto ci discopre tale un abisso
d'interiorità, che quasi non ci si crederebbe, se non si sapesse quanto
sia ammirabile Dio ne' suoi Santi. Esso ci porge il destro di richiamare
una ben fondata dottrina del Taulero. Dice il Doctor sublimis: «Di tutte
le preghiere fatte da Gesù nella sua vita mortale, la più alta ed
eccellente è quella innalzata al Padre, quando disse: Padre mio, si
faccia non la mia, ma la tua volontà. Preghiera la più glorificatrice
del Padre e a Lui più accetta; preghiera la più giovevole agli uomini e
la più terribile ai demoni.
Mercè questa rassegnazione della volontà umana di
Gesù, noi tutti, volendo, ci salviamo. Ecco perché la maggiore e più
perfetta letizia dei veri umili sta nel fare esattissimamente la volontà
di Dio». Ed ecco dunque una preghiera che Don Bosco seppe fare a
perfezione durante il corso della tanto tribolata sua esistenza.
CAPO IX. - In contrattempi di vario genere.
Due pericoli minacciano seriamente gli uomini di
azione; sono quelli indicati da Gesù nel sollicita es nel turbaris, che
Egli rimproverò a Marta, cioè preoccupazione di pensieri e inquietudine
di sentimenti: due cose tanto facili a riscontrarsi nelle persone
costrette a spartire la loro attività erga plurima. Per non incapparvi ci
vuole l’unum necessarium prescelto da Maria, cioè non perdere di vista
l'unione con Dio. La nave con tutto il carico solca diritta e sicura le
onde, finché il metacentro è al suo posto; allora essa possiede stabilità
di equilibrio non solo, ma anche energia, diciam così, a ritornarvi, ogni
volta che momentaneamente a causa del mareggio sia sbandata. Metacentro
della vita attiva è appunto questa unione con Dio, che o impedisca
sbandamenti o ristabilisca presto il regolare equilibrio.
Quante ondate colpiscono improvvise la nostra povera
navicella! Non patire in simili contrattempi nemmeno il più piccolo
sobbalzo visibile è privilegio molto raro d'uomini così uniti al Signore
da essere letteralmente un solo spirito con lui, secondo l'espressione di
san Paolo. Che Don Bosco sia stato uno di questi uomini privilegiati, ci
porta a crederlo anche il suo fare e il suo dire in presenza di accidenti
fortuiti, repentini e fastidiosi, i quali, pur contrariandolo bruscamente
e di sorpresa, non ne scotevano né punto né poco la vigile calma
consueta: cosa propria di chi dovunque e sempre si trovi nel suo centro.
Don Bosco ebbe grossi contrattempi per subiti
disastri in opere murarie. Nel 52, nottetempo, crollò buona parte d'una
fabbrica in costruzione, tirata su Dio solo potrebbe dire con quanti e
quali sacrifici. I giovani, svegliati di soprassalto, scapparono dai
dormitori; ma s'imbatterono in Don Bosco che, raccoltili intorno a sé, li
condusse in chiesa a ringraziare Dio e la Vergine, che li avevano scampati
da maggiori pericoli. Poche ore dopo, durante la ricreazione, ecco nella
rimanente fabbrica, arrivata già fino al tetto, piegarsi i pilastri,
sfasciarsi le pareti e il tutto precipitare in un cumulo di macerie. Alla
nuova disgrazia che annientava repentinamente sforzi e speranze di gran
rilievo, Don Bosco, attonito ma sereno, celiando disse: - Abbiamo giocato
a mattonelle! Indi con la massima pace in volto e con accento paterno
proseguiva: - Sicut Domino placuit; sit nomen Domini benedictum. Pigliamo
tutto dalla mano del Signore; egli terrà conto della nostra
rassegnazione. Piuttosto, ringraziamo Dio e la Beata Vergine, perché
nelle dolorose vicende che opprimono oggi l'umanità, vi sia sempre la
mano benefica che mitiga le nostre sventure.
Una sua lettera, scritta di li a tre giorni, ci
rivela, insieme con la pena provata, anche la santa pace che gli regnava
nell'anima: «Ho avuto una disgrazia: la casa posta in costruzione rovinò
quasi interamente, mentr'era già quasi tutta coperta. Tre soli furono
lesi gravemente, niuno morto; ma uno spavento, una costernazione da far
andare il povero Don Bosco all'altro mondo. Sic Domino placuit».
Nel 61, a mezzanotte, un formidabile rimbombo scosse
dalle fondamenta l'Oratorio. Un fulmine, penetrato nella camera di Don
Bosco, vi mise tutto a soqquadro, lasciando lui mezzo fuori dei sensi. Il
suo primo pensiero volò ai giovani che dormivano nel piano superiore, e
li raccomandò fervidamente alla Madonna. Ce n'era bisogno! La scarica
elettrica, passata anche di là violentissima, aveva squarciata la volta e
riempito di terrore gli animi, sicché il panico minacciava di fare ciò
che il fulmine non aveva fatto.
In una confusione babelica di urli, fracassi e
tenebre, ecco su per calcinacci e mattoni avanzarsi con il lume in mano la
figura dolce e sorridente di Don Bosco. Non abbiate paura, dice con voce
rassicurante, abbiamo in cielo un buon Padre e una buona Madre che
vegliano su di noi. Come Dio volle, il trambusto si sedò; Don Bosco,
accertatosi che le vite erano salve, diede in un Deo gratias, che
gli veniva proprio dal cuore, e poi continuo: - Ringraziamo, ringraziamo
il Signore e la sua santissima Madre! Ci hanno preservati da un grave
pericolo. Guai se la casa pigliava fuoco! Chi si sarebbe salvato? - Né
d'altro più sollecito in quei primi istanti, fattili inginocchiare ivi
stesso dinanzi a un'immagine di Maria, recitò con loro le litanie
lauretane.
Più tardi i chierici salirono a fargli visita,
desiderosi di assicurarsi se il buon Padre avesse sofferto. Era già la
terza volta che il fulmine gli dava briga; ma questa volta con effetti
assai più sensibili e duraturi che non le altre due. Si restrinse però a
dire:
- Questa di oggi è una delle maggiori grazie
ottenuteci dalla Madonna. Ringraziamola di cuore! Infatti ulteriori
indagini misero in chiaro, che era mancato un nonnulla a succedere
un'ecatombe.
Fu fatta la proposta di collocare un parafulmine. Sì,
rispose Don Bosco, lassù collocheremo una statua della Madonna. Maria ci
parò così bene dal fulmine, che sarebbe ingratitudine confidare in
altro. Una statuetta della Vergine, vero palladio dell'Oratorio primitivo,
sta ancora là ad attestare la filiale pietà di Don Bosco verso la
potente Regina del Cielo.
Prima che quell'anno finisse, il cedimento di un
voltone sotterraneo in una recente fabbrica gettò negli animi gran
trepidazione. Don Bosco, ricondotta ne' suoi la calma, osservò senza
scomporsi:
- Il demonio ha voluto di nuovo mettere qui la sua
coda; ma avanti, e niente paura!
Il medesimo abbandono nelle mani di Dio ritroviamo in
lui già vecchio, di fronte a un contrattempo analogo ai precedenti.
Ventiquattr'anni dopo, proprio durante il solenne pranzo d'addio a una
schiera di missionari, scoppiò nel laboratorio dei legatori l'incendio.
Non lungi dal fuoco stavano ammonticchiati i bagagli dei partenti. Si sa
bene il finimondo che succede in simili circostanze: una casa va tosto in
subbuglio. Don Bosco, tutt'altro che indifferente al triste caso, non si
mosse dal refettorio, ma rimase là silenzioso e assorto. Ogni tanto
chiedeva se ci fossero disgrazie personali; udito che no, rientrava nel
suo raccoglimento. Riferitogli che i danni ascendevano a centomila lire: -
È grave! esclamò. Ma il Signore dà, il Signore toglie. Egli è il
padrone.
Il Niente ti turbi di santa Teresa, con cui Don Bosco
nell'assegnare uffici di responsabilità premuniva i suoi dagli effetti
immediati delle brutte sorprese, veniva in soccorso a lui stesso anche in
certi contrattempi, che per sé non apportano gravi inconvenienti, ma che
tuttavia disturbano non poco lì per lì e disorientano chi non ha fatto
l'abitudine a pensare sempre che non cade foglia senza che Dio lo voglia.
L'imperturbabilità è tanto più rara in tali
disappunti, quanto più sembra ivi al tutto naturale qualche scatto
nervoso; onde il conservarvisi invariabilmente e amabilmente sereni è
prerogativa d'uomini immersi con tutta l'anima in Dio. Chi, a mo'
d'esempio, dovendo viaggiare, non ha avuto qualche volta l'incresciosa
contrarietà di perdere la corsa? È un fatto banale; ma può essere
occasione improvvisa a rivelare il vero interno di una persona.
Un giorno Don Bosco, sceso dal treno in Asti e
trattenutosi un po' nella stazione per un affare, non fece in tempo a
prendere la corriera, che doveva portarlo a Montemagno, sicché gli
bisognava aspettare là più ore. Non si scompose: attaccò discorso con
un gruppo di giovanotti, inducendoli a confessarsi, e a farlo subito, e a
farlo nel prossimo albergo. Un'altra volta, perduto il treno da Trofarello
a Villastellone, senza alterarsi, cavò di tasca un fascio di bozze e fece
la strada a piedi correggendo. Raggiunta la mèta, levò pacatamente gli
occhi dall'ultimo stampone, dicendo al compagno: - È proprio vero che
anche le disgrazie sono sempre utili a qualche cosa. Nemmeno a casa avrei
potuto fare tanto lavoro, quanto ne ho fatto, grazie a questo incidente.
Una mattina, dovendosi recare per ferrovia a un paese
non guari lungi da Torino, aveva stabilito di celebrare colà il santo
sacrificio. Esce di camera, ed ecco un chierico che ha bisogno di dirgli
due parole all'orecchio; Don Bosco si ferma e lo ascolta. Scende la scala,
ed eccone un altro che desidera parlargli; Don Bosco si ferma e lo
ascolta. Giunge all'ultimo gradino, ed eccoti un terzo chierico che lo
attende; Don Bosco tranquillo s'intrattiene con lui. Fa per attraversare
il portico, ed ecco là preti e chierici a circondarlo; Don Bosco dà
soddisfazione a ognuno. Finalmente può incamminarsi per il cortile verso
la porta: ma ecco la voce di un giovanetto, che gli corre dietro
chiamandolo; Don Bosco si arresta, si volta e risponde alle sue domande.
Il treno però non aspetta: quando arrivò alla stazione, la locomotiva
lanciava il vecchio fischio della partenza; Don Bosco fece fronte
indietro, andò a dir messa in città e partì con la seconda corsa.
A rendere il superiore così compassionevole e
amorevole come in quest'ultimo caso, ci vuole il commercio abituale con
Dio, dice san Bonaventura; solo Colui che è bonitatis oceanus gl'infonde
nell'orazione quella soavità, per cui egli si fa tutto a tutti.
Ma i peggiori contrattempi toccarono a Don Bosco da
parte degli uomini: da parte di umili, da parte di ragguardevoli, da parte
di autorevoli.
Umile persona il buon coadiutore che, ottenuto di
andare in America e destinato a Santa Cruz nell'Argentina, cedette allo
sconforto, abbandonò la casa e si ritrasse nella fattoria di un colono.
L'inattesa notizia afflisse l'uomo di Dio, che ordinò di farlo tornare in
Italia. Alla difficoltà sulla forte spesa del viaggio, rispose calmo e
risoluto: - Non si badi a spesa, quando si tratta di salvare un'anima.
Umile persona il buon cuoco dell'Oratorio. Una sera a
Don Bosco, che, finito tardi di confessare, veniva a cena dopo la mensa
comune, mandò una minestra di riso stracotto e freddo. L'inserviente,
sapendo già per esperienza che Don Bosco non vi avrebbe fatto caso, né
bastandogli l'animo di presentargli un avanzaticcio di quella sorta, ne
rampognò il brav'omo, dicendogli risentito: - Questa roba per Don Bosco?
- Ma l'altro, fuor dei gangheri: - E chi è Don Bosco? È uno come gli
altri. L'inserviente o per la stizza o per iscagionarsi riferì tali e
quali le insane parole. Don Bosco, recando con indifferenza il cucchiaio
alla bocca, disse bonariamente: - Oh, il cuoco ha tutte le ragioni.
Umile persona il buon refettoriere, che, ammonito da
Don Bosco stesso, perché non aveva cambiata in tempo la tovaglia
sudicetta, non sofferse il paterno rimprovero, ma gli scrisse una lettera,
insolentendo fino a dirgli che quella era stata la prima volta che aveva
visto Don Bosco col volto serio. Il Servo di Dio, non che adontarsi,
appena lo incontrò, chiamatolo a sé e alludendo alla famigerata
espressione, che aveva fatto il giro dell'Oratorio, gli disse con bontà:
- Non sai che Don Bosco è un uomo come tutti gli altri? - Da san Paolo a
noi, ogni uomo veramente di Dio si è stimato sempre debitore a tutti,
agli stolti non meno che ai savi. E per tornare a san Bonaventura, è il
commercio con Dio che rende umile il cuore del superiore: devotio cor
humiliat.
Personaggio ragguardevole l'abate Amedeo Peyron,
filologo e orientalista di grido, professore nella Regia Università di
Torino. Presiedeva egli un'adunanza di sacerdoti, riuniti per interessi
del loro ministero. Caduto il discorso sulle necessità di moltiplicare le
pubblicazioni educative adatte al popolo, Don Bosco, presa la palla al
balzo, raccomandò le sue Letture Cattoliche. Non l'avesse mai fatto! Il
presidente, quasi non aspettasse altro, vuotò il sacco, inveendo contro i
difetti di lingua di grammatica e di stile, che inquinavano quei
libercoli. L'autorità dell'uomo, la foga del dire, la causticità di
certe frasi fecero rimanere tutti a bocca aperta.
Il Servo di Dio Leonardo Murialdo, che era fra gli
uditori, mortificato per la cattiva figura dell'amico, conscio inoltre che
parecchi degli astanti avevano poca simpatia per Don Bosco, aspettava
trepidante com'egli si sarebbe contenuto e in che modo avrebbe risposto.
Non ignorava nemmeno quanta sia la suscettibilità degli autori al
sentirsi criticare, non che mettere alla berlina in pubblico. Don Bosco,
cessata la gragnuola, parlò così: - Sono qui apposta per avere aiuto e
consiglio. Mi raccomando a loro: mi dicano quanto trovano da correggere, e
io volentieri correggerò. Anzi, sarei ben fortunato se altri, più buono
scrittore di me, volesse rivedere i singoli fascicoli. Il teologo Murialdo
respirò. Riandando poi nel 96 quel drammatico episodio diceva d'aver
pensato fra sé e sé fin d'allora: - Don Bosco è un santo.
Anche con altri ragguardevoli ecclesiastici, non
certo per malevolenza loro, ma per preconcetti. Don Bosco ebbe noiosissimi
incontri, nei quali emerse quel totale distacco da sé, che è frutto del
non mai interrotto contatto con Dio, la cui pace sovrana domina pensieri e
sentimenti umani. Dov'è il Signore, ivi non è commozione. In una
cospicua città fuori d'Italia, ove di fresco, aveva aperto un collegio,
recatosi a visitare un importante istituto religioso, vi ricevette dopo
lunga anticamera accoglienze peggio che glaciali. Appena rivarcata la
soglia, colui che accompagnava Don Bosco, sbottò. Sta' allegro, sta'
allegro, fece Don Bosco; saranno essi più confusi di noi per averci
trattati a quel modo. Poscia senz'ombra di turbamento passò a ragionare
di cose più importanti.
Nella medesima città, durante una visita di Don
Bosco al collegio, l'ottimo parroco locale per uno di quegli accessi
d'impulsività, non tanto infrequenti a questo mondo fra persone ben
intenzionate, investì il Servo di Dio con inaudita violenza di
linguaggio, accanendosi a lungo. Don Bosco, data giù la burrasca, sollevò
un tantino il capo nell'atteggiamento di chi chiede umilmente di parlare e
disse così: - Signor Curato, Ella ha ragione di lamentarsi; mi rincresce
che non siasi potuto corrispondere pienamente ai suoi desideri; Ella è
nostro benefattore; io ricordo con riconoscenza il bene da Lei fattoci;
faremo sempre di tutto per servirla. Io morrò presto; ma ho lasciato nel
testamento al mio successore che si preghi per Lei. Ogni parola di Don
Bosco scendeva mite rugiada sull'animo esacerbato del fiero riprensore,
che alla fine chiese perdono e gli fu più amico di prima.
Apriamo un intermezzo a proposito di giornali. Ci
sarebbe con che alzare un bel monumento, radunando e mettendo gli uni su
gli altri i tegoli venuti a cadere, improvvisi, sull'Oratorio e su Don
Bosco da redazioni di gazzette d'ogni colore. Chi scrive, ha un ricordo
personale indelebile e molto penoso. La prima volta che fanciullo intese
il caro nome di Don Bosco fu per una vignetta di un giornalaccio, dove una
figura mostruosa e una vilissima iscrizione travisavano in modo
incredibile la sua carità per la gioventù povera e abbandonata. Ma
lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti, tanto più che, anche da
vivi, Don Bosco li lasciava abbaiare alla luna; anzi non tollerava
vendette, ritorsioni o rancori contro i denigranti, pago che in favor suo
parlassero le opere.
Ai colpi obliqui della stampa egli, levando occhi e
mani al cielo, soleva ripetere con ferma fede espressioni simili a queste:
- Eh, là, pazienza! Anche questo passerà! Buona gente, se la prendono
con Don Bosco, che non cerca se non di fare del bene! Avremo dunque da
lasciare che si perdano le anime? Avversano senza saperlo l'opera di Dio.
Saprà ben Egli sventarne le trame!
Ma più che non impronta loquacità di gazzettieri,
offende savi e santi l'atteggiamento sfavorevole di chi è depositario
dell'autorità. Don Bosco, che per sua stessa confessione aveva sortito da
natura indole focosa e altera, né poteva soffrire resistenza, che brutti
quarti d'ora dovette passare ogni volta che, anelante solo alla gloria di
Dio e al bene delle anime, si vide attraversata od ostacolata la via da
autorevoli rappresentanti dell'una o dell'altra parte! Ma la natura,
avvalorata con le soprannaturali energie della grazia, faceva allora di
Don Bosco l'uomo più conciliante e pacifico del mondo.
In tempi di pubbliche agitazioni, quante volte le
autorità dello Stato, istigate dalle sette, aggravarono improvvisamente
la mano su Don Bosco! e quante volte egli, presentandosi anche ai più mal
disposti, ne soggiogò gli animi e li ridusse a miti consigli! Ma prima di
scendere in lizza, si rivolgeva a Dio nella preghiera, sperimentando
quanta fosse l'efficacia di questa a muovere i cuori dei potenti. Con
questo mezzo, diceva ai suoi, se sarà bene, si otterrà quanto si
desidera; e ciò ancorché si domandasse a chi non nutre per noi né
affetto né stima. Dio toccherà in quel momento il cuore dell'uomo,
affinchè accolga favorevolmente la nostra proposta. Ecco la fonte del suo
magnanimo ardire in contingenze aspre e sconcertanti.
Nel 62 si voleva a ogni costo fargli chiudere le
scuole dell'Oratorio. Il regio provveditore agli studi gli accordò
un'udienza dopo due ore di attesa; poi lo ricevette, egli pomposamente
seduto in poltrona e Don Bosco di fronte a lui in piedi. Prima che il
Servo di Dio aprisse bocca, il funzionario gli rovesciò addosso un
diluvio di male parole, scagliandosi senz'alcun ritegno contro preti e
frati, contro il Papa e Don Bosco, contro le sue scuole e i suoi libri; se
non che, al vederlo là sempre calmo e immobile e non accennante mai a
difendersi, gli diede dell'imbecille, e punto fermo.
Allora prese Don Bosco la parola. In tono grave e
mansueto lo pregò anzitutto di osservare che tutto il detto fino a quel
momento non aveva proprio nulla da fare con lo scopo della sua venuta;
quindi passò ad esporgli il perché della visita. Il provveditore, che
non aveva mai avuto occasione di trattare con uomini come Don Bosco, non
credeva a' suoi occhi né alle sue orecchie; da ultimo si sentì dentro
cresciuta di tanto la stima e la benevolenza verso lo svillaneggiato di
poc'anzi, che, diventato un altro, lo colmò di gentilezze e gli si
mantenne ognora amico e protettore. Don Bosco potè, ma non quella volta
solamente, far sue, con le dovute modificazioni, parole di Neemia: Ho
fatto preghiera al Dio del cielo e quindi ho detto al re... e il re mi ha
conceduto ogni cosa, perché la mano aiutatrice del mio Dio era meco.
Lo spirito di orazione, che il Servo di Dio Contardo
Ferrini chiama «festa dei santi pensieri», ha realmente questo di
proprio, che suscita nell'animo pensieri lietamente santi e santamente
lieti, anche in circostanze che per sé imbarazzano e sconcertano. Che
fastidio per Don Bosco, «fedele e assennato servo della Chiesa», come lo
proclamò Pio XI nel discorso dei miracoli, allorché nascevano
contrattempi con autorità ecclesiastiche! Ma con che agilità di mente
sapeva, conciliare i doveri della sudditanza e i diritti della giustiziai
Egli cercava in Dio la soluzione di nodi umanamente inestricabili.
Un documento d'archivio reca in margine questa
noticina di mano estranea: «Povero Don Bosco! Se non era Iddio con lui,
non sarebbe riuscito». Trattasi di una relazione ufficiale stesa e
trasmessa alla sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari da un eccellente
Monsignore, incaricato ufficioso della Santa Sede presso il Governo
subalpino. Vi si dipinge la vita dei chierici di Don Bosco a tinte così
fosche da dovere per forza far rinviare alle calende greche la tanto
sospirata approvazione della Società Salesiana.
Il buon prelato giudicava come chi, senza comprender
nulla di Don Bosco e del suo spirito, applica criteri vecchi a metodi, che
nella loro semplicità capovolgono tradizionali concezioni pedagogiche.
Messo a conoscenza della cosa, Don Bosco intuì le disastrose conseguenze
di quel referto; ma nell'informarne il Capitolo della Società usò
termini del più delicato riguardo verso l'autore; anzi ripetutamente lo
ricevette nell'Oratorio con sincere dimostrazioni di rispetto e,
presentatasi l'occasione di fargli del bene, lo fece Corde magno et animo
volenti.
Le trattative per l'approvazione della Società
costrinsero il Servo di Dio a inghiottire pillole ben più amare! Egli
teneva già commendatizie individuali di molti Vescovi; ma gli sarebbe
giovato averne anche una collettiva dagli Ordinari della provincia
ecclesiastica torinese. Il momento opportuno venne, quando l'Arcivescovo
Riccardi convocò i suffraganei nell'imminenza del Concilio Vaticano. Don
Bosco presentò dunque la sua supplica umilissima, perché fosse letta
nell'assemblea in cui contava alti protettori. L'esito non gli pareva
dubbio. Ma purtroppo le prevenzioni intorbidirono le acque; onde gli toccò
sorbirsi la mortificazione di una risposta tanto più cortese nella forma
quanto più evasiva nella sostanza. Amaramente deluso: Pazienza esclamò.
Sia tutto per amor di Dio e della Santa Vergine!
Durante un soggiorno a Roma per quest'affare
dell'approvazione una sgraditissima sorpresa gl'incolse proprio alla
vigilia della partenza. A Roma era stato oggetto di simpatia da parte di
cittadini d'ogni ordine. Mentre dunque si trovava in visita di congedo
presso l'eccellentissima famiglia Vitelleschi, ecco venir annunciato il
cardinal Altieri, al quale egli non aveva trovato il tempo di far visita.
Sembra che a quest'atto l'aristocratico Porporato ci tenesse alquanto;
fatto è che a Don Bosco, avvicinatosi ossequente, disse appena un freddo
buon giorno; durante la conversazione che seguì, in una casa dove Don
Bosco era molto venerato, non un complimento, non una parola, non uno
sguardo. Quei nobili Signori stavano sulle spine, né dopo sapevano darsi
pace, conoscendo il carattere inflessibile del personaggio. Il più
tranquillo di tutti era ancora Don Bosco. Cosa da nulla! diss'egli. Domani
sarà tutto aggiustato. Infatti la mattina appresso, raccomandatosi al
Signore, chiese udienza, nella quale ogni nube fu talmente dissipata, che
potè mostrar loro prove tangibili di essersi ingraziato il Cardinale.
Procedendo così per ordine gerarchico nella via dei
contrattempi, perché non ascenderemo fino al vertice? Don Bosco ebbe un
contrattempo anche con la Santità di Pio IX. Una volta, usando del favore
che godeva in Vaticano, consentì di raccomandare per una privata udienza
pontificia l'avvocato piemontese, più tardi senatore, Tancredi Canonico.
Apparteneva questi al gruppo di quegl'infatuati che andavano dietro al
fanatico visionario polacco Towianski, precursore dei modernisti, tutte
circostanze che Don Bosco ignorava affatto. Giunto alla presenza del Santo
Padre, l'avvocato prese a sciorinare le sue fisime, dimenticando talmente
dove si trovasse e con chi avesse l'onore di parlare, che l'angelico
Pontefice lo interruppe sdegnato e gl'intimò di uscire; il che quegli
fece, ma prima depose sul tavolino un suo scritto, contenente le cose che
aveva preveduto di non poter dire a voce. Don Bosco, chiamato subito dopo
all'udienza, udì il Papa che diceva: - O costui è un gran birbone o Don
Bosco è un gran... bonomo. Al che Don Bosco, sorrise. Pio IX,
accortosene, gli chiese: - Perché avete fatto entrare costui? E ridete
ancora del mio sdegno? Don Bosco, sommesso e tranquillo, prontamente
rispose: rido perché è lo sdegno di un padre sempre amoroso. Espose
quindi, come, il fatto era andato, lieto di vedere alle sue candide parole
sorridere anche il Vicario di Cristo.
Un giorno Don Bosco scrisse a uno de' suoi per
confortarlo in certe disdette: «Allegria e coraggio, e specialmente
oremus ad invicem». L'orazione fu per Don Bosco il segreto della
tranquillità e della pace nelle afflizioni, secondo l'inspirato
insegnamento dell'apostolo san Giacomo.
CAPO X. - Confessore.
Il commercio intimo con Dio, quando c'è davvero, fa
si che un sacerdote non sappia solamente, ma senta anche di essere persona
sacra, senza che mai gli si appanni nella coscienza l'idea luminosa di
tale suo carattere, qualunque cosa egli dica o faccia in privato o in
pubblico, direttamente o indirettamente, trattando con prossimi d'ogni
grado, ceto o condizione. Allora lo spirito sacerdotale si sprigiona da
tutta quanta la vita, irradiando intorno influssi soprannaturali che
sanano e purificano le anime, le fortificano nel bene, le elevano alle
cose celesti; come in Gesù l'umana natura, congiunta ipostaticamente alla
divinità, era strumento di mirabili operazioni, così nel sacerdote, di
vita interiore non c'è parola né atto che non porti l'impronta
sacerdotale e non serva per agire salutarmente sulle anime, fino a
meritare che di lui pure si affermi che scaturisce da esso virtù
salutifera per ogni sorta di morbi spirituali: virtus de ilio exibat et
sanabat omnes.
"Questo noi ora vedremo, esaminando le attività
esplicate da Don Bosco nel confessionale, dal pulpito, con la stampa e
come educatore.
Riguardo alla confessione, la sua maniera di
amministrare questo sacramento non s'intende a pieno, se non si tenga
conto della sua pratica personale e de suoi ordinari insegnamenti.
Don Bosco si affezionò alla confessione fin dalla più
tenera età, né alcun mutamento di vita valse ad affievolire in lui
l'amorosa propensione ad accostarvisi con frequenza. Infatti vi andava da
sé di buonissima voglia, anche quando la madre non era più là a
condurvelo, e vi andava così spesso, come generalmente non si faceva a
quei tempi, massime da giovanetti, meno che mai da piccoli e sperduti
figli dei campi.
Studente a Chieri e liberissimo di se stesso, pensò
tosto a cercarsi un confessore stabile, il quale, sebbene lo scorgesse di
umile condizione e di modi assai semplici, pure dalla sua diligente
assiduità a confessarsi ne presagì grandi cose. Chierico nel seminario,
si distinse subito e sempre per la puntuale regolarità, con cui non
preteriva settimana senza presentarsi al tribunale di penitenza. Prete a
Torino, si confessava ogni otto giorni dal beato Cafasso. Morto il Servo
di Dio, ricorse al ministero di un pio sacerdote già suo condiscepolo,
che tutti i lunedì mattina si recava a riceverne la confessione nella
sagrestia di Maria Ausiliatrice, confessandosi quindi a sua volta da Don
Bosco stesso.
Durante i viaggi e nelle assenze del proprio
confessore ordinario si manteneva fedele alla sua cara pratica,
rivolgendosi a un Salesiano o ad altri, secondo i casi: ad esempio,
durante un soggiorno di due mesi a Roma nel 67, si confessava
settimanalmente dal padre Vasco, gesuita da lui conosciuto a Torino. I
suoi figli talora sulle prime esitavano; ma egli: - Su, su, diceva, fa'
questa carità a Don Bosco, e lascia che si confessi.
Notevole era pure il suo modo di compiere la santa
azione: già ne abbiamo fatto altrove un cenno che completeremo qui. Per
confessarsi non sceglieva luoghi reconditi od ore solitarie, quasi male
operans, ma se ne stava esposto alla vista di chicchessia; onde fedeli e
giovani ebbero agio di osservare "come tanto nella preparazione
quanto nel ringraziamento egli si mostrasse altamente compreso della
grandezza e santità dell'atto. Praticare con si vivo e perseverante
affetto la confessione frequente costituisce di per sé una vigile e non
mai interrotta custodia del cuore, la quale ne rimuove di continuo ogni più
piccolo impedimento all'operazione dello Spirito Santo, sicché sempre
maggiore piove nell'anima la copia dei celesti suoi doni.
La pratica personale di Don Bosco riguardo alla
confessione si rifletteva nei suoi insegnamenti scritti e orali su questa
materia, imprimendovi una nota tutta sua, che è la tendenza spiccata non
solo ad attirarvi, ma anche ad affezionarvi i fedeli, massime i giovani,
oggetto precipuo della sua provvidenziale missione.
L'originalità di Don Bosco quando scrive della
confessione, è non nella novità delle cose, ma nel suo calore apostolico
per far amare un sacramento da lui tanto amato. Nella sua Vita di Magone
Michele inserito una digressione, con la quale in termini vibranti di
carità sacerdotale si rivolge prima ai giovani per incitarli a filiale
confidenza verso il padre delle loro anime, e poi ai confessori dei
giovani per esortarli a portare bontà paterna nell'esercizio di tale
ministero.
Anche in una memoria destinata ai Salesiani vuole che
il sacerdote, richiesto di ascoltare le confessioni, «si presenti con
animo ilare» e che nessuno «usi mai sgarbatezza né mai dimostri
impazienza», e raccomanda che «i fanciulli si prendano con modi dolci e
con grande affabilità», senza mai strapazzarli né fare le meraviglie
per l'ignoranza o per le cose confessate. Nel medesimo scritto pone questa
gran norma: «È cosa assai importante ed utile per la gioventù di fare
in modo che non mai un fanciullo si parta malcontento da noi».
Nel Giovane Provveduto egli ci si porge guida così
amabile, che, chiunque lo segua, si confessa con vera soddisfazione
spirituale. Leggendo infatti quelle pagine semplici e soavi, anche chi non
sia più giovane, anche chi abbia la fronte solcata dalle rughe del
pensiero, sperimenta un senso di fiducioso abbandono, che lo muove a
portarsi ai piedi del confessore con fervore di spirito e con la semplicità
serena degli anni primi. Anche nei regolamenti per Oratori, per Istituti e
per Compagnie la confessione tiene un posto d'onore, ma è presentata
sempre in una luce serena e volutamente simpatica.
Come negli scritti, così a viva voce. Il maggior
biografo del Servo di Dio afferma che «ogni frase di Don Bosco fu un
eccitamento alla confessione».
Sorvoliamo su quello che l'espressione possa
contenere d'iperbolico riguardo all'universalità, sebbene sarebbe da
augurarsi che tutte le iperboli avessero si buon fondamento nella realtà;
ma quanto alla positiva efficacia d'ogni suo eccitamento alla confessione,
non c'è da discutere, perchè contro il fatto ragion non vale. Diremo
meglio contro i fatti; poiché questi ci son noti in tanto numero e con
tanta varietà di circostanze, che, leggendone il racconto, si rimane
trasecolati e si ammirano i prodigi della grazia divina nell'opera di
salvazione.
Il pensiero del ritorno a Dio s'impadroniva con forza
sì irresistibile della mente di coloro, ai quali Don Bosco ne faceva
invito, ch'essi gli cadevano tosto ai piedi o comunque gli aprivano la
coscienza, fossero giovani suoi o estranei, operai o professionisti,
semplici privati o personaggi altolocati, gente per bene o malfattori. Le
vittorie di Don Bosco in questo campo non si contano. Ora, la facilità a
trovare le vie dei cuori per indurre ad atto così arduo in sé, più
arduo in dati individui, non è possibile se non quando, oltre una gran
fede nel sacramento della penitenza e una grande franchezza apostolica, si
possegga pure un’altra qualità che sia l'anima di tutto il resto,
Quale? Don Bosco stesso se ne lasciò sfuggire di bocca la rivelazione.
Nel 62, richiesto a nome d'un buon sacerdote di Osimo
che volesse svelare il suo segreto per guadagnare i cuori, egli rispose:
«Io l'ignoro. Se quel buon prete ama Dio, riuscirà pure in ciò assai
meglio di me».
Troviamo nel libro del Chautard un bel commento a
queste parole, che è pregio dell'opera riferire. «Fra la bontà
naturale, frutto del temperamento, e la bontà soprannaturale d'un
apostolo corre tutta la distanza che fra l'umano e il divino. La prima
potrà far nascere il rispetto, anche la simpatia, per l'operaio
evangelico, facendo talora deviare verso la creatura un affetto che doveva
andare a Dio solo; ma non potrà mai determinare le anime a fare, e
veramente per Iddio, il sacrificio necessario per tornare al loro
Creatore. Solamente la bontà che sgorga dall'unione con Gesù può
ottenere tale effetto».
Se Don Bosco faceva così in incontri isolati,
figuriamoci come dovesse profittare dell'occasione quando impartiva
l'istruzione religiosa o dispensava la parola di Dio. Nei catechismi non
rifiniva mai di tornare da capo sulle disposizioni necessarie per ricevere
con frutto il sacramento della penitenza, rappresentando al vivo la bontà
del Signore nell'istituirlo e i beni che esso arreca alle anime.
Dall'amare la confessione e quindi la comunione egli faceva dipendere la
possibilità di trascorrere immacolato il tempo delle passioni o quella di
rialzarsi dalle prime cadute.
Erano poi rarissime le sue parlate ai giovani, le sue
conferenze al personale, le sue prediche a ogni qualità di ascoltatori,
in cui non toccasse opportune e importune l 'argomento della confessione
sacramentale. Non veniva egli a noi, così facendo, o non correva rischio
di urtare l'uditorio, dando, per fare ciò, in stonature? No. Chi parla
con fede e amore parla ispirato, trascinando chi ode. Infatti il cardinal
Cagliero, che lo sentì centinaia di volte, depone che del suo tema
prediletto Don Bosco «parlava sempre con modi nuovi e attraenti». E
quanto a uscire di tono, meno che meno; poiché, qualunque persona,
qualunque adunanza di persone avesse dinanzi a sé, Don Bosco non vedeva
uomini, vedeva anime. La qual vista due sentimenti gli svegliava dentro,
uno di desiderio e l'altro di timore: desiderio di condurre tutti in
paradiso e timore che alcuno battesse la strada dell'inferno. Ora, questi
due sentimenti, armonizzati nell'amor divino che formava tutta l'intima
ragion di essere come del suo operare così del suo parlare, davano
l'intonazione fondamentale a' suoi discorsi, pur passando per variazioni
molteplici, una delle quali, e la più ordinaria e la più abilmente
intercalata, era il richiamo al sacramento della misericordia.
Quanta e quale fosse la carità che abitualmente
infiammava il cuore di Don Bosco verso Dio, oltreché dall'eccitare così
con la penna e con la lingua alla confessione, traluce in sommo grado dal
suo modo di amministrare questo sacramento.
Il Huysmans, da grande convertito, come si dice in
Francia, trova che per i suoi pari, i quali «tutta d'un colpo debbono
riversare la loro vita vissuta ai piedi d'un sacerdote», sarebbe «veramente
bello e buono» venire «confortati» e «aiutati» come Don Bosco
confortava e aiutava i penitenti, tanto «il suo modo, di confessare
ricorda l'insuperabile misericordia di Gesù». Il solo vederlo nell'atto
di così santo ufficio ingenerava nei riguardanti riverenza e amore verso
l'augusto sacramento.
Con quel senso delle cose divine che gli era proprio,
accedeva al luogo delle confessioni, non già tenendo la berretta in
testa, ma stringendola fra le dita davanti al petto, né si assideva prima
d'aver pregato e fatto un bel segno di croce. D'ordinario confessava da un
seggiolone a bracciuoli, collocato fra due inginocchiatoi. La sua positura
era quale si addice a rappresentante di Dio, cioè dignitosa e amorevole.
Ginocchia unite, piedi sopra lo sgabelletto, busto eretto, capo
leggermente chino, volto d'uomo assorto in opera divinissima e tutto
penetrato dello spirito di Dio. Si volgeva alternatamente a destra e a
sinistra, con movimento grave e modesto. Nell'accogliere i penitenti non
li mirava in faccia, né mostrava punto di volerli conoscere; ma,
appoggiato il gomito sull'inginocchiatoio, accostava alla loro bocca il
suo orecchio, facendovi riparo con il cavo della mano. Ascoltava attento,
non mutando mai aspetto e usando una dolcezza inalterabile.
Che cosa passasse fra lui e i penitenti, non è dato
saperlo se non da quelli, a cui toccò in sorte di averlo per confessore.
Uno di essi, autorevolissimo per più titoli, è il cardinal Cagliero,
confessatosi da Don Bosco per più di trent'anni. Egli dice nei processi e
altrove: «Ammirabile la sua bontà coi giovanetti e con gli adulti. Quasi
tutti ci confessavamo da lui, guadagnati dalla sua dolcezza e dalla sua
carità sempre benigna e paziente. Era breve, senza fretta. Benigno al
sommo e non mai severo, c'imponeva una breve penitenza sacramentale,
adatta alla nostra età e sempre salutare. Sapeva farsi piccolo coi
piccoli, darci gli avvisi opportuni, e le stesse riprensioni sapeva
condirle con tale sapore, che c'infondeva sempre amore alla virtù e
orrore al peccato. Un ambiente angelico aleggiava sopra la sua persona e
le sue esortazioni».
Era poi voce comune che assai sovente si vedessero
persone, le quali, presentatesi a lui sfiduciate, se ne tornavano
raggianti di consolazione, quasi ricolme di fiducia nell'infinita
misericordia divina. Questo suo modo di confessare ispirava tanta
confidenza, che, chi l'aveva sperimentato, non se ne dimenticava più.
Quindi i già suoi penitenti, incontrandolo anche dopo non pochi anni, o
spontaneamente gli manifestavano senz'altro come stessero d'anima e da
quanto tempo non si fossero confessali, o a sua domanda rispondevano con
affettuosa sincerità; molti, informati della sua presenza in dati luoghi,
volavano a lui anche da lontano, per potersi nuovamente confessare come
una volta.
Non sarebbe detto abbastanza intorno al suo modo di
confessare, se non si aggiungessero ancora due osservazioni, che aiutano a
scandagliare sempre meglio le profondità della sua vita interiore.
In primo luogo, confessando, egli era un uomo
completamente astratto dalle cose di questo mondo. E sì che affari ne
aveva fin sopra i capelli, e di si gravi, che, ripartiti, avrebbero
occupato a sufficienza più persone di attività non pigra! Eppure,
richiesto di confessare nel bel mezzo di qualsiasi faccenda, non si
mostrava importunato, non diceva di tornare più tardi, non indirizzava a
qualche altro; ma, sospesa ogni cosa temporale si metteva, umilmente al
servizio di quell'anima. Per solito, poi, scoccata l’ora delle
confessioni, si spiccava tostamente da tutto e da tutti: nulla da
quell'istante aveva a' suoi occhi importanza maggiore. Ciò si ripeteva
ogni sabato sera, ogni vigilia di feste e tutte le mattine prima e durante
la messa della comunità. Se ne stava nel confessionale parecchie ore di
seguito, interamente concentrato nel suo ministero, senz'aria di noia,
senza mai sospendere per umane ragioni. Non sospendeva nemmeno quando
convenienze eccezionali sembravano consigliare di farlo. È inutile
discutere: per i Santi non esistono negozi terreni che reggano al
confronto degl'interessi celesti.
Una domenica mattina capitò all'Oratorio il marchese
Patrizi, romano, ospite desideratissimo. Lo ricevettero come poterono
meglio alcuni superiori, perché Don Bosco era a confessare i ragazzi
esterni. Il Servo di Dio, avvisato, rispose con calma: - Bene, bene!
Ditegli che sono contento del suo arrivo e che aspetti un momento, finché
abbia terminato di ascoltare questi poverini, che desiderano di fare la
santa comunione. Quel momento durò un'ora e mezzo.
La seconda osservazione si riferisce all'impassibilità,
con cui, una volta assiso nel confessionale, sopportava qualsiasi disagio,
molestia o sofferenza. Impassibile alla stanchezza: dopo giornate molto
laboriose, quasi non sentisse bisogno di riposare, rimaneva inchiodato là,
finché continuavano a venire penitenti. Impassibile all'asprezza della
temperatura: prima che ci fosse calorifero, soffriva invitto i rigori
dell'inverno torinese fino alle dieci e alle undici di notte.
Impassibile in Liguria agli assalti delle zanzare:
lasciava che lo punzecchiassero, levandosi alla fine tutto crivellato
nella fronte e nelle mani. Impassibile a qualche cosa di peggio: i poveri
oratoriani di quei tempi al confessore non portavano solo peccati; dopo le
confessioni certe volte era un affar serio per Don Bosco liberarsi da
tanti minuscoli aggressori di varie specie: ne aveva ben avvertito
l'avanzarsi minaccioso e in numero crescente, ma non se n'era dato per
inteso, sempre intento alla cura di quelle misere anime.
E le confessioni dei carcerati? Le carceri d'allora
erano peggiori delle carceri odierne, per quanto concernesse nettezza e
decenza. Don Bosco, dotato di sensitività squisita, sembrava non avere più,
in quell'ambiente stomachevole, né occhi né nari: applicato a medicate
le piaghe spirituali di quei disgraziati, non aveva tempo di badare alle
ripugnanze suscitategli dai sensi. Insomma, dopo il fin qui detto, come
non richiamare le parole di Pio X, il quale nell'enciclica dell'11 giugno
1905 ai Vescovi d'Italia affermava categoricamente, che per sopportare con
perseveranza le noie inseparabili da qualunque apostolato mancano del
tutto le forze, dove non ci sia l'ausilio della vita interiore?
CAPO XI. - Predicatore.
L’intimità con Dio, che fu l'anima del confessore,
animò del pari il predicatore. Non un alimento del proprio io gonfia la
parola di Don Bosco in pulpito; sempre e solo la penetra e avviva
l'afflato di Dio.
Purtroppo la voglia di comparire crea grandi
tentazioni ai banditori della divina parola. S'insinua essa sottile
sottile nell'ingegnosità dei concetti, nella novità delle immagini, nei
fronzoli eruditi, nelle eleganze di forma, nel tono stesso della voce e
nella maniera di porgere; l'adulazione poi, sotto colore di cortesia, fa
il resto, per chi abbia la debolezza di crederci. Grande miseria, che non
appena tanto o quanto solletichi l'amor proprio di un povero predicatore,
invano si cercherebbe di cautamente dissimularla, perché trapela sempre a
dispetto di ogni precauzione, sviando le genti superficiali da pensieri più
gravi che la parola di Dio dovrebbe infondere, e arrecando disgusto alle
persone serie. È proprio un adulterare la parola di Dio, l'energica
espressione di san Paolo, e quindi un or più or meno isterilirla.
Don Bosco non andò neppur lui esente da tali spiriti
tentatori negli inizi della sua predicazione; del che egli stesso non ci
fa mistero. Il buon ingegno, i forti studi, la memoria tenace, un po'
l'ambiente viziato ve lo sospingevano; ma l'amore di Dio doveva prendere e
prese ben tosto il sopravvento sul diavolo del proprio io.
Nelle prediche Don Bosco di suo ci metteva l'umile
preparazione; giacché, ammoniva egli i principianti, «la predica che
produce migliori effetti, è quella meglio studiata e preparata». Vi
premetteva ancora l'umile preghiera; anzi, mentre a Torino confessavasi
regolarmente ogni otto giorni, durante le sue fatiche apostoliche si
umiliava più spesso al tribunale di penitenza - egli che non seppe mai
per esperienza sua che cosa fossero scrupoli - all'unico scopo di rendersi
strumento meno indegno della grazia divina a pro delle anime. Così,
dovunque si presentò ad annunciare la divina parola - e predicava
moltissimo e in moltissimi luoghi, anche fuori d'Italia - vi si condusse
da autentico ministro del Signore, mandato, più che non andato, ad dandam
scientiam salutis plebi eius.
Don Bosco nella sua prima messa aveva chiesto «ardentemente»
al Signore l'efficacia della parola, vale a dire la forza di persuasione
per fare del bene alle anime; la quale domanda gli fu esaudita in modo da
non potersi desiderar migliore, talché sul finire della vita egli scrisse
con modestia eguale a verità: «Mi pare che il Signore abbia ascoltato la
mia umile preghiera».
Per quel che concerne la parola detta dal pergamo, si
pensi che le sue prediche filavano dall'esordio alla perorazione senza
lampi, senza voli, quasi senza gesto, con un fare piuttosto lento, in uno
stile monotono, in lingua popolare, non di rado in schietto vernacolo
piemontese; talvolta perfino passavano il segno in lunghezza, raggiungendo
estensioni inverosimili; eppure piacevano, eppure si ascoltavano con
gusto, tanta era l'unzione e la naturalezza che le condiva.
A Saliceto in quel di Mondovì, per esempio, i
paesani una volta lo forzarono a predicare, tolti brevi intervalli, sei
ore di seguito. Si pensi inoltre che i suoi argomenti erano di cose trite
e ritrite: importanza del salvarsi l'anima, fine dell'uomo, brevità della
vita, incertezze della morte, enormità del peccato, impenitenza finale,
perdono delle ingiurie, restituzione del maltolto, falsa vergogna in
confessione, intemperanza, bestemmia, buon uso della povertà e delle
afflizioni, santificazione delle feste, necessità e modo di pregare,
frequenza dei sacramenti, santa messa, imitazione di Gesù Cristo,
divozione alla Madonna, facilità della perseveranza; eppure stavano a
udirlo senza batter palpebra, insieme col buon popolino, anche persone
nobili e istruite, ecclesiastici, vescovi, affascinati no, che sonerebbe
male, quasi effetto di umana suggestione, ma soavemente presi dal divino
ardore, di cui si svelarono l'uno all'altro l'arcano i due discepoli di
Emmaus.
Oh! con quanta verità si applicherebbe a Don Bosco
predicatore il bellissimo responsorio, che i Trappisti, dicono nella festa
di san Giovanni Evangelista: «Posando sul petto del Signore, attinse
direttamente da quella fonte divina le acque salutari del Vangelo e
diffuse per tutto il mondo la grazia della parola di Dio». Sono pur tutti
ispirati gli Evangelisti; ma come negare in san Giovanni quella potenza
tutta sua di eloquio, che viene dal cuore e va al cuore? e donde l'attinse
egli, se non da quel Cuore, sul quale posò nell'ultima Cena e che è
sempre la vera sorgente dell'eloquenza sacerdotale? Questo è il pectus
che disertos facit i
sacerdoti cattolici. Non per nulla Don Bosco portava il nome del discepolo
prediletto di Gesù.
Questa particolarità, che per se stessa non dice
niente, ci richiama al motivo della predilezione di Gesù per Giovanni
secondo il pensiero di San Girolamo e c'induce a riferire sul predicare di
Don Bosco una testimonianza tramandataci da un giovane cronista
dell'Oratorio, il quale sotto il 29 maggio 1861 scrisse: «Usciti di
chiesa, molti venivano meravigliati ad esclamare con me e con altri: - Oh,
che belle cose ha mai detto stamane Don Bosco! Io passerei il giorno e la
notte ad ascoltarlo! Oh, quanto bramerei che Dio mi concedesse il dono di
poter io pure, quando sarò sacerdote, innamorare in tal modo il cuore dei
giovani e di tutti per questa sì bella virtù!». Don Bosco quella
mattina aveva parlato della purità.
Un'idea prevalente dominava nella predicazione di Don
Bosco: la necessità di salvare l'anima. In questo appunto noi sacerdoti
pro Christo legatione fungimur tamquam Deo exhortante per nos:
siamo i portavoce di Dio alle anime per le cose concernenti la loro
salvezza. Questo egli stimò sempre essere suo imperioso dovere. Basti
dire che non se ne esimeva neppure nei panegirici, che sono la forma di
eloquenza sacra, in cui gli oratori si lasciano facilmente prendere la
mano dell'andazzo: vi si aspetta, quasi vi si pretende il nuovo e il
fiorito. Ecco perché il beato Cafasso aveva poca simpatia per i
panegirici: ma in quelli di Don Bosco il maestro non avrebbe certamente
trovato appiglio per condannare il discepolo.
Vediamone uno per saggio: sia il panegirico di san
Filippo detto nel 68 ad Alba. Passando sopra a tutto il resto, egli andò
a cavare il suo argomento da quello, dice, che è il cardine su cui il
Santo appoggiò la pratica di tutte le altre sue virtù, cioè «lo zelo
per la salvezza delle anime». Ne dipinse al vivo l'apostolato; poi,
avendo saputo che fra gli uditori ci sarebbero stati sacerdoti in buon
numero, eccolo di punto in bianco sonare a campane doppie anche per loro.
Vi si fa strada bellamente supponendo di sentirsi muovere l'osservazione,
che tante meraviglie avesse operate san Filippo a salvezza della gioventù,
perché era un santo. Alla quale ipotetica uscita egli risponde: «Io dico
diversamente. Filippo operò queste meraviglie, perché era un sacerdote
che corrispondeva allo spirito della sua vocazione». E lì ha battere
sulla necessità che i preti imitino il Santo nel radunar Fanciulli per
catechizzarli, per animarli a confessarli, per confessarli. Quindi, dopo
aver minacciato genitori, padroni, maestri, con apostolico ardore
prosegue: «Che terribile posizione per un sacerdote, quando comparirà
davanti al divin Giudice, che gli dirà: - Guarda giù nel mondo: quante
anime camminano nella via dell'iniquità e battono la strada della
perdizione! Si trovano in quella mala via per cagion tua; tu non ti sei
occupato a far udire la voce del dovere, non le hai cercate, non le hai
salvate. Altre poi per ignoranza, camminando di peccato in peccato, ora
sono precipitate nell'inferno. Oh! guarda quant'è grande il loro numero!
Quelle anime gridano vendetta contro di te. Ora, o servo infedele, serve
nequam, dammene conto. Dammi conto di quel tesoro prezioso che ti ho
affidato, tesoro che costò la mia passione, il mio sangue, la mia morte.
L'anima tua sia per l'anima di colui, che per tua colpa si è perduta.
Erit anima tua pro anima illius ». Finalmente chiude il suo discorso
incorando tutti a confidare nella grazia misericordia di Dio.
Come si vede, Don Bosco predicatore spendeva bene la
popolarità che ne circondava il nome e la persona: anche nei malfamati
panegirici non si curava dei giudizi altrui, ma voleva e sapeva andare al
sodo. Lo sperimentarono a Roma anche certe religiose di un insigne
monastero, che l'avevano invitato a dire le lodi della loro Patrona, una
santa martire. Anelavano grandemente di udirlo, aspettandosi da lui cose
peregrine.
Don Bosco, avuto sentore che vi sarebbero intervenuti
anche cospicui signori e nobili dame, lo sfoderò lui il panegirico!
Esordi Facendo rilevare che da più di cent'anni in quel luogo si ripeteva
l'elogio della Santa e che quindi ben magro profitto sarebbesi cavato dal
ridire cose che tutti sapevano; giudicare quindi miglior consiglio, non
foss'altro per amore di varietà, cambiar tema e dimostrare la necessità
di tendere alla perfezione e salvare l'anima per mezzo di confessioni ben
fatte.
Così, senza umani riguardi, obliando completamente
se stesso, pigliò davvero più colombi a una fava; poiché alle religiose
ragionò di perfezione, ai secolari rammentò la salvezza dell'anima, a
tutti fece fare un buon esame di coscienza sulle loro confessioni passate.
La delusione non ne avrà mandato a vuoto il frutto? No, se si deve
giudicare dalla religiosa attenzione, con cui fu ascoltato. Certo son cose
che stenterebbe a capire chi non sapesse che la prima legge dell'oratore
sacro è dimenticare se stesso. Scampanare in pulpito col proprio io è
farvi la parte poco commendevole dell'aes sonans del cymbalum tinniens: dalla
bocca invece di chi predica Gesù Cristo, esce quella parola di Dio che è
viva e attiva e più affilata di qualunque spada a due tagli e penetrante
nel più intimo dell'esser umano.
Ci fu bene per Don Bosco un'occasione, unica in vita
sua, nella quale sarebbe sembrata non pure giustificabile, ma
consigliabile qualche divagazioncella letteraria in materia religiosa;
tanto più che non gliene mancava la preparazione. I classici non gli
avevano offerto per una diecina d'anni, anche fuori della scuola, gustoso
pascolo di lettura diurna e notturna? Ma non ne fu nulla. Il caso merita
di essere conosciuto.
Nel 74 amici romani l'avevano fatto aggregare agli
Arcadi. Due anni dopo, l'Accademia designò lui a tenere il discorso
consueto sulla Passione del Signore nella solenne tornata del venerdì
santo. Il carattere letterario dell'Arcadia, la tradizione più che
secolare di commettere quell'incarico a letterati, e talvolta di grido -
vi lessero infatti il Monti e il Leopardi - il resto del trattenimento
d'intonazione letteraria, la qualità degl'intervenuti, uomini di lettere,
erano tutte circostanze che Don Bosco non ignorava né finse d'ignorare;
tant'è vero che si disse «incaricato di leggere una prosa», e confessò
che «l'eloquenza del dire, la forbitezza dello stile» solite a «brillare»
in quell'«aula scientifica» l'avevano «messo in non lieve apprensione»;
ma si confortava pensando che la «forbita penna» di altri avrebbe tosto
supplito alla sua «insufficienza».
Egli però, come in ogni luogo e in ogni tempo, così
anche allora volle essere colà semplicemente prete. Infatti, dopo la sua
presentazione quale di «umile sacerdote», puramente da sacerdote prese a
parlare. Non fece dell'ascetica né dell'oratoria, perché non si era a
predica; non fece dell'erudizione né dell'esegesi pura, perché non si
era a scuola. Ma chi mai si sarebbe aspettato che egli scegliesse per
argomento le Sette Parole? Allo spirito sacerdotale di Don Bosco sembrò
assurda cosa che un sacerdote in quel giorno, anzi in quell'ora, invece di
trattare sacerdotalmente del sacrificio cruento offerto duemila anni
innanzi dal Sacerdote eterno, si mettesse a fare della letteratura. Il
pensiero nondimeno che, così facendo, avrebbe remigato contro la
corrente, non lo abbandonava; onde, annunciato il tema, protestò di nuovo
che all'altrui «valentia» lasciava «la sublimità dei concetti» e «gli
slanci poetici» e si dichiarò contento che, se la pochezza del suo
lavoro non avrebbe porto ragione di applaudire, desse però motivo di
esercitare la bontà compatendo.
Qui finiva l'esordio! Le convenienze gli parvero
salve; entrò dunque con pacatissima semplicità a parlare in questo modo:
«Dopo mille strapazzi e tormenti, sottoposto a spietata flagellazione,
coronato di spine, condannato alla ignominiosa morte di Croce,
l'amabilissimo Salvatore con grande spasimo portò l'istrumento del suo
supplizio fino sul Golgota». E così via, con un'espressione serrata e
oggettiva. Il succo né è spremuto dalla Scrittura, dai Padri, da san
Tommaso, da sacri interpreti, con buon criterio e buon metodo citati. Non
discopre sentimenti propri: Don Bosco è un santo dominato quasi da uno
spirituale pudore, che non gli consente di svelare i segreti movimenti
della grazia: secretum meum mihi! Ma ben si appalesano le sue intenzioni:
intenzioni, come sempre, sacerdotali, d'illuminare le anime per
distaccarle dal peccato e unirle a Dio.
CAPO XII. - Scrittore.
Non meno che già nella parola parlata, il cuore
sacerdotale di Don Bosco palpita oggi ancora nella sua parola scritta.
Prese la penna per il pubblico nel 44, né più la depose; così molto
diede alle stampe, molto tuttora sopravvive della sua produzione. Tre
cause contribuirono a facilitargli il lavoro della penna sotto la mole di
tante occupazioni: la vecchia abitudine a usufruire d'ogni briciolo del
suo tempo; il vigore dell'ingegno e della memoria sorretto da pari energia
di volere; l'agilità rara a sbrigare nel medesimo tempo faccende
disparate fino a dettare simultaneamente su più cose diverse.
Ma questi tre coefficienti non ci spiegherebbero da
soli il gran numero delle sue pubblicazioni, se non tenessimo conto pure
del comune motore che li mise costantemente in atto per lo spazio di circa
quarant'anni; voglio dire il suo zelo ardente per la gloria di Dio e il
bene delle anime. Quindi mal ci apporremmo se credessimo possibile, recar
giudizio sui libri di Don Bosco, applicando ad essi i criteri letterari.
Il caro Padre, bonariamente sorridendo, ci farebbe tosto avvertiti del
nostro abbaglio e ce lo direbbe con parole poco dissimili da quelle del
Salesio: «Quanto agli abbellimenti dello stile, non ho voluto nemmeno
pensarci, avendo ben altro da fare». Come il medesimo san Francesco dice
di sé, anche Don Bosco scrive «alla buona senza pretesa né arte, perché
i suoi non sanno che farsene e ad abbellirli basta quella semplicità così
cara a Dio, che ne è l'autore».
Ciò che è l'ispirazione per il poeta, ciò che è
la prepotente inclinazione dell'animo per l'uomo di pensiero e, per dir
tutto, ciò che è la leggerezza e la vanità per gl'imbrattacarte, fu per
Don Bosco lo spirito apostolico sotto il perpetuo e gagliardo impulso
dell'amor divino. Questo è che lo faceva intento alle voci del giorno,
questo che lo portava a rinserrarsi in biblioteca, questo che lo teneva
curvo sullo scrittoio. Non è a dire che fosse in lui soverchia proclività
a far gemere i torchi, come si diceva quando non stridevano ancora le
macchine; lo stampare anzi, per confessione sua gli cagionava grande
apprensione; ma egli concepiva quale stretto obbligo del suo sacro
ministero spendere i talenti ricevuti da Dio anche in metter argine alla
cattiva stampa con la buona, disputando palmo a palmo il terreno
all'errore con fogli, opuscoli e giusti volumi, con collane periodiche e
ammannendo alla gioventù e al popolo manuali di soda pietà e d'opportuna
istruzione religiosa e altre pubblicazioni imbevute di massime salutari.
Insomma, Don Bosco che scrive e stampa, è sempre il medesimo Don Bosco
che confessa e predica; a qualsiasi forma di attività si dia, egli è
invariabilmente e sempre quel desso: l'uomo di Dio, per il quale, come
esprime il Dottor Serafico, «ciò che è spirituale, deve sempre e
dappertutto essere preferito». Dunque il tirare in campo considerazioni
d'ordine letterario sarebbe per noi uscire dal seminato.
In sì esuberante produzione religiosa sembrerebbe
ovvio che si dovessero incontrare luoghi, dove l'autore ci desse contezza
di sé e del suo mondo interiore, i soli luoghi che a noi interesserebbe
di prendere in esame. Nemmeno per ombra!
Un Vescovo, scrivendo di Don Bosco, riferisce come in
una conversazione questi prese a dire «col suo lento fare e parlare».
Ecco ritratto l'uomo che veglia su di sé, conversando; identica vigilanza
s'intravede in lui, quando scrive. Di qui avviene che la persona dello
scrittore non si produca mai sulla scena: chi la vuole, bisogna che la
cerchi dietro le quinte. Tuttavia questo silenzio ha pure una sua
eloquenza, che tanto più esalta l'autore, quanto più l'autore nei
riguardi propri ammutisce. Dell'intima sua vita spirituale si può ben
dire che penetra in tutti i suoi libri, apparendo più in alcuni e meno in
altri. Così ci spieghiamo l'influsso che i suoi scritti esercitano
sull'animo dei lettori non sopraffatti di pregiudizi.
Il Card. Vives manifestò nel 1908 il desiderio di
avere qualche operetta spirituale di Don Bosco, nella quale si rivelasse
lo spirito suo di pietà. Non so quale sia stata scelta; ma or più or
meno esplicitamente questo suo spirito traspare in tutte.
Un moderno poeta cristiano espresse modestia di
sentire unita a coscienza d'arte, soscrivendosi «Un operaio della parola»:
Don Bosco, pur senza dircelo, ci si rivela un sacerdote della parola.
Operaio della parola è chi fa con la parola opera sua e per gusto e
volere suo; sacerdote della parola diremo invece chi esercita con la
parola un ministero, il ministerium verbi, espressione nuova di cosa
nuovissima, con cui s'intende significare un uso sacro della parola, fatto
in nome di Dio e a spirituale servizio del prossimo, per dovere di
vocazione: uso dunque, in cui l'uomo non ha da presentare il suo io, ma da
rappresentare il suo Dio. Un tal ministero si adempie per via ordinaria
oralmente nella Chiesa con la predicazione; ma si prolunga pure e si
allarga a maggior beneficio delle anime per mezzo degli scritti. In questo
caso lo scrittore che dispensa la parola della salute, ascondendo l'essere
suo, come fa costantemente Don Bosco lascia intendere di avere il cuore
sgombro da meschine vanità e d'intingere la penna nel puro amor di Dio.
Ma le intime disposizioni di Don Bosco scrittore si
comprendono ancor meglio, se si considera questa sua umiltà quale ancella
industre della sua carità. In tempi di quotidiani attentati alla
religione della gioventù e del popolo, egli, mosso da carità di Cristo,
per contrapporre al veleno dell'errore l'antidoto della verità, fra la
gioventù e il popolo pensò di formarsi una larga clientela di lettori.
Ma gioventù e popolo non intendevano guari la lingua dei libri; ed eccolo
condannarsi a un rinnegamento di sé, del quale ci diedero la misura le
parole del Papa, quando disse nel discorso per l'eroicità delle virtù
che, posta la sua «vigoria di mente e d'ingegno non comune, anzi
superiore di gran lunga alla ordinaria, e propria anche di quegl'ingegni
che si potrebbero chiamare ingegni propriamente detti», Don Bosco «sarebbe
potuto riuscire il dotto, il pensatore, lo scrittore». Egli dunque che
avrebbe potuto volgere le sue migliori facoltà a creare, le applicò a
divulgare, e fu la prima rinuncia. A questa ne associò una seconda.
Anche nel campo della divulgazione, col suo
temperamento, egli avrebbe saputo fare cose belle; invece si liberò da
influssi letterari, appigliandosi al linguaggio della gente minuta. Nel
che andò oltre il credibile; infatti leggeva i suoi lavori a persone
analfabete, riducendo il suo dire al livello del loro capire, e talvolta
li dava a leggere nelle bozze di stampa a portinai di nessuna levatura,
facendosene poi ripetere il contenuto e argomentando di lì come arrivasse
all’adaequatio rei et intellectus nella categoria di lettori da lui
prescelta. Ripensando ai prodigi ignorati di quest'umile carità e
all'anima eroicamente sacerdotale di chi li operava, noi vediamo non senza
emozione oggi, come nel 53 il principe dei periodici cattolici d'Italia,
segnalasse a' suoi lettori «un modesto ecclesiastico... che si appella
Don Bosco», a proposito di certi «librettini di piccola mole, pieni di
soda istruzione, adatti alla capacità del popolo minuto e tutta cosa
opportuna» per quei tempi agitati e difficili.
Il «modesto ecclesiastico» del periodico romano
diventò parecchi decenni dopo «angelico sacerdote» nel libro di un
letterato fiorentino. Angelico egli fu per varie ragioni, ma soprattutto
per una, di cui intendiamo qui far parola. Trapela dagli scritti di Don
Bosco un geloso amore alla virtù angelica, amore che gli ha dettato
l'articolo trentacinquesimo delle Regole: «Chi non ha fondata speranza di
poter conservare, col divino aiuto, la virtù della castità nelle parole,
nelle opere e nei pensieri, non professi in questa Società».
La sesta beatitudine evangelica, rivelandoci le
intime comunicazioni di Dio con i mondi di cuore, giustifica abbastanza il
nostro entrare in quest'argomento ora che attraverso gli scritti miriamo
all'anima dello scrittore.
Un minuscolo episodio ritrae talvolta le sembianze
morali di un uomo non meno di quel che faccia un lungo discorso. Don
Bosco, giovane sacerdote, preparava per le stampe i misteri del rosario.
Nel rivedere sulle bozze il terzo gaudioso, si consultava seco stesso alla
presenza di un amico teologo e diceva: «Si contempla come la Santissima
Vergine diede alla luce..., no non va. Si contempla come il nostro
Redentore nacque da Maria Vergine… neppure . Meglio così: si contempla
come il nostro Redentore nacque nella città di Betlemme». Il candore
della sua anima rischiara dal principio alla fine la sua Storia Sacra, lui
compilata con castigatezza senza precedenti. Non il menomo neo vi offusca
mai tanta luminosità di purezza: il giovanetto non s'imbatte in un
particolare, per quanto biblico, né in un termine, per quanto usuale,
atto a produrgli un'impressione meno che casta. Il consultarla cava
d'imbarazzo quegl'insegnanti che cercano la maniera di esprimersi in punti
scabrosi senza pericolo d'inconvenienze. È un capolavoro di riserbo
cristiano nell'educazione giovanile e un monumento parlante dell'angelica
bellezza interiore di chi lo ideò e lo eseguì.
Il biografo sovrano di Don Bosco ha dettato un
periodo che sembra fatto apposta per mettere il suggello al fin qui detto
e per supplire a quel tanto di più che vi si potrebbe aggiungere. Scrive:
«Noi siamo intimamente persuasi che qui consista sovrattutto il segreto
della sua grandezza, vale a dire che Dio lo abbia colmato di doni
straordinari e che di lui siasi servito in opere meravigliose, perché si
mantenne sempre puro e casto».
Nello scorrere le pagine di questa Storia Sacra altra
novità ci sorprende: Don Bosco tra i fatti del vecchio e nuovo Testamento
dissimula con la destrezza dell'antico prestigiatore ch’ei fu,
un'apologia spicciola del Cattolicesimo, tanto più efficace quanto meno
ha l'aria di essere intenzionale. Chi mai aveva pensato prima di lui a
trar partito dai racconti biblici per iscalzare bel bello il
protestantesimo? Vi ci voleva la sensibilità sopraffina di Don Bosco per
tutto ciò che toccasse la Chiesa. Di così viva sensibilità, che poi è
il perfettissimo sentire cum Ecclesia di sant'Ignazio, rimarranno
testimonio imperituro tutti quanti i libri di Don Bosco, dalle sue
edificanti biografie di giovanetti alla serie de' suoi almanacchi per i
galantuomini.
L'autorità dottrinale e gerarchica della Chiesa
cattolica dovette stare in cima ai pensieri di uno scrittore sul quale,
tutto ciò che lontanamente la riguardasse, produceva l'effetto di farlo
senz'altro gioire o soffrire, agire o reagire, come risulta da un cumulo
di pubblicazioni succedutesi a brevi intervalli per lo spazio di otto
lustri. Lo studioso che, percorse le opere di Don Bosco, voglia incidere
con frase lapidaria l'idea formatasi dell'autore, può far suo il laconico
epitaffio scolpito sulla tomba del gran vescovo e cardinale Mermillod:
Dilexit Ecclesiam. E ciò tanto più, quando si pensi che, come il
glorioso prelato svizzero, così anche Don Bosco patì per la causa del
suo cuore persecuzioni non comuni.
La protervia dei nemici della Chiesa insolentiva
allora a tal segno nel Piemonte, che Don Bosco non trovava nemmeno i
revisori voluti dalle leggi canoniche per i suoi libri; onde alle Letture
Cattoliche furono la bestia nera delle sette, in un primo tempo
gl'incaricati di quell'ufficio accordarono l'approvazione senz'apporvi
firme, e poi più nessuno si sentì d'assumersi la rischiosa responsabilità
della revisione. Tempestato da minacce per lettera, a voce e a mano
armata, egli, confidando in Dio e sfidando i Filistei, non desistette
dalla santa battaglia. Né la sensibilità degenerò mai in animosità,
cosa tanto facile ad accadere anche nelle polemiche religiose.
Lo spirito del Signore, infiammandone lo zelo, ne
governava la penna; si cerchi pure col ruscellino per entro alle molte sue
scritture, e non verrà fatto di raccattare un tratto, un motto, un
inciso, una virgola insomma, che tradisca in lui, non diremo la segreta
voluttà, ma la momentanea noncuranza che dalla sua difesa resti umiliato
l'avversario. Le premesse di nostra santa madre, nostra buona madre e
simili, che gli sono rituali nel nominare la Chiesa cattolica di fronte a
credenti e a miscredenti, dicono la sua prevalente sollecitudine, quasi la
sua passione dominante, di affezionare alla Chiesa tutte le anime; dicono
parimente il suo amore filiale per la Chiesa, amore che è tanta parte
della pietà, dono dello Spirito Santo.
Sono parola scritta anche le lettere. Don Bosco ne
scrisse un numero sbalorditivo, in ogni parte del mondo, su millanta
argomenti, a prelati, principi e nobili, a persone e comunità religiose,
a operai, donnicciuole e fanciulli. Ma ciò che a noi maggiormente importa
si è che queste lettere riflettono lo spirito di colui che le scrisse.
Non ricerchiamovi però più di quello ch'egli vi ci mise.
L'incalzarsi della corrispondenza, che lo costringeva
a gettare in carta senza tanto pensarci su, facendolo incorrere in sviste
di forma, non ne sottraeva la penna al governo del pensiero o
all'abitudine di santamente pensare, sicché gli sfuggissero rivelazioni
di cose riguardanti la sua vita interiore. Certe introspezioni che
spesseggiano in epistolari di anime pie, esulano dall'epistolario di Don
Bosco. Vi s'intuisce benissimo il fondo; ma di stati intimi non c'è caso
ch'egli dica verbo. Ci bastano per altro le ripercussioni inevitabili,
derivate dai movimenti del suo cuore sempre in perfetta unione con Dio:
cioè sommissione piena ai divini voleri, gloria del Signore, salvezza
delle anime, sacramenti, preghiera, offesa di Dio, fiducia nella
Provvidenza, richiami a solennità, citazioni scritturali, giaculatorie.
Accludeva sovente immagini con motti di sua mano, per
sollevare le menti alle cose celesti. E poi il tono. Dopo averne lette
alcune, noi proviamo dentro un senso di calma serena che è disposizione
prossima a bontà di pensieri, di parole e di atti. A chi non è toccato
di ricevere lettere irose e offensive. Ebbene egli era solito dire che il
rispondervi immediatamente con dolcezza e con attestazione di stima dà là
vittoria, mutando nemici in amici. Quante volte egli ebbe a farne la
prova! Notevole finalmente è la naturalezza, con cui nelle sue lettere
introduce i nomi di Dio, di Gesù Cristo e di Maria Santissima. Questi
nomi, dice il biografo, «anche scrivendo li pronunciava con aspirazione
del cuore, ma in modo che altri non udisse, ripugnandogli ogni singolarità
e pareva che col suo stesso respiro li stampasse sopra la carta».
Tale coscienza del proprio carattere raggiunge nel
sacerdote tanta profondità, quando il sacerdote è realmente alter
Christus, vivente personificazione di Gesù Cristo.
CAPO XIII. - Educatore.
Si disputa da taluni se Don Bosco sia stato un grande
pedagogista; ma nessuno potrà mai mettere seriamente in dubbio, ch'ei sia
stato un grande educatore. Ed è questo che fa per noi. Perché Don Bosco
si dedicò all'educazione della gioventù? come concepì l'educazione? in
che modo la impartì e la volle impartita? Daremo la risposta a questi tre
quesiti in modo da non andar fuori del nostro argomento, che è Don Bosco
con Dio.
Don Bosco attese all'educazione della gioventù con
l'entusiasmo di chi pensa d'averne ricevuta speciale missione dall'alto.
Ed aveva i suoi buoni perché di pensare così. Chi, se non Dio, gli aveva
messo in cuore la tendenza innata che, quasi germe e presentimento di
vocazione, lo portava precocemente, quando spuntavano appena i primi
barlumi di ragione, a cercare i fanciulli, non mica per trastullarsi
insieme con loro, ma per ridire ad essi le cose belle e buone apprese
dalla mamma e per allontanarli dal male e spingerli al bene? Riandando a
tale precocità di manifestazioni, scriveva egli stesso in età avanzata:
«Radunare i fanciulli per far loro il catechismo mi era brillato nella
mente fin da quando aveva solo cinque anni; ciò formava il mio più vivo
desiderio, ciò sembravami l'unica cosa che dovessi fare sulla terra».
Poi, allorché, non ancora uscito di puerizia, cominciò a balenargli
l'idea di farsi prete, vagheggiò subito il fine da prefiggersi
nell'abbracciare lo stato ecclesiastico. «Se fossi prete, fu udito dire,
mi avvicinerei ai fanciulli, li chiamerei intorno a me, vorrei amarli,
farmi amare da essi, dir loro buone parole, dare loro buoni consigli e
tutto consacrarmi alla loro eterna salute».
Ma una vera e diretta, per quanto misteriosa chiamata
del cielo gli si fece intendere nell'età dai nove ai dieci anni. Il velo
del suo avvenire gli si squarciò allora dinanzi in un sogno. Che cosa
fossero i sogni di Don Bosco, lo vedremo più avanti; ora fermiamoci a
questo primo, che si può definire il sogno della vocazione. Rileggiamolo
tal quale ce l'ha tramandato l'aurea sua penna nelle più volte menzionate
"Memorie".
«Nel sonno mi parve di essere vicino a casa, in un
cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli
che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi
bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo
di loro, adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento
apparve un Uomo venerando, in virile età, nobilmente vestito. Un manto
bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa,
ch'io non poteva rimirarla. Egli mi chiamò per nome, e mi ordinò di
pormi alla testa di quei fanciulli, aggiungendo queste parole: - Non colle
percosse, ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi
tuoi amici. Mettiti dunque immediatamente a far loro un'istruzione sulla
bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero e
ignorante fanciullo, incapace di parlar di religione a que' giovanetti. In
quel momento que' ragazzi, cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle
bestemmie, si raccolsero tutti intorno a Colui che parlava. Quasi senza
sapere che mi dicessi: - Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa
impossibile?
- Appunto perché tali cose ti sembrano impossibile,
devi renderle possibili coll'obbedienza e con l'acquisto della scienza.
- Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?
- Io ti darò la Maestra, sotto la cui disciplina
puoi diventar sapiente e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
- Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?
- Io sono il Figlio di Colei, che tua madre ti
ammaestrò di salutare tre volte al giorno.
- Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che
non conosco, senza il suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.
- Il mio nome domandalo a mia Madre. In quel momento
vidi accanto a Lui una donna di maestoso aspetto vestita di un manto che
risplendeva da tutte le parti, come se ogni punto di quello fosse una
fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie domande e
risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per
mano e: - Guarda! mi disse. Guardando m'accorsi che quei fanciulli erano
tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti., di cani,
di gatti, orsi e di parecchi altri animali. Ecco il tuo campo ecco dove
devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto, e ciò che in questo momento
vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i figli miei.
Volsi allora lo sguardo, ed ecco invece di animali
feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando
accorrevano intorno belando, come per fare festa, a quell'Uomo e a quella
Signora.
A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e
pregai quella Donna a voler parlare in modo da capire, perciocché io non
sapeva quale cosa si volesse significare.
Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: - A
suo tempo tutto comprenderai. Ciò detto, un rumore mi svegliò ed ogni
cosa disparve.
Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che
facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi dolesse per gli
schiaffi ricevuti da quei monelli; di poi quel Personaggio, quella Donna,
le cose dette e quelle udite mi occuparono talmente la mente, che per
quella notte non mi fu più possibile prendere sonno».
Narrato questo sogno il dì seguente in famiglia, non
ne parlò più per trentaquattro anni; ma egli dice che non se lo potè
mai più togliere dalla mente; anzi nello svolgersi degli avvenimenti gli
pareva di scorgere il graduale avverarsi delle cose vedute e udite. Oggi
noi possiamo ravvisare in esso l'annuncio di una missione, per la quale
gli furono indicati l'oggetto, il metodo e l'esito finale. Lo stesso Pio
IX, quando lo udì, lo prese sul serio. Al qual proposito Don Bosco chiude
così la sua narrazione: «Io ho sempre taciuto ogni cosa, ed i miei
parenti non ne fecero caso.
Ma quando nel 1858 andai a Roma per trattare col Papa
della Congregazione Salesiana, egli mi fece minutamente raccontare tutte
le cose che avessero avuto anche solo apparenza di soprannaturale.
Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto di nove in dieci anni.
Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto, e
lasciarlo per incoraggiamento ai figli della Congregazione, che formava lo
scopo di quella gita a Roma».
Bisogna aggiungere che ad aumentargli l'impressione
intervenne il ripetersi del medesimo sogno per oltre sei volte e con
sempre nuovi particolari, che servivano di sviluppo e di chiarimento a
quello. A 16 anni ebbe la promessa degli indispensabili mezzi materiali; a
19 ricevette l'imperioso comando di occuparsi della gioventù; a 21 gli fu
indicata la categoria dei giovani, ai quali specialmente doveva rivolgere
le sue cure; a 22 gli si additò, qual suo primo campo di azione, la città
di Torino. Le ultime due volte vide distintamente il sorgere di una grande
opera in Valdocco e apprese come avrebbe dovuto fare per circondarsi di
validi aiutanti; era l'annuncio dell'Oratorio e della Società Salesiana.
Il rinnovarsi di questi fenomeni vinse del tutto le
sue perplessità circa la loro natura, facendolo persuaso che vi fosse in
ciò del soprannaturale. Infatti l'8 maggio del 1884, parlando ai membri
della Società, ne diede loro contezza e poi terminò così: «Taluno potrà
dire: queste cose tornano a gloria di Don Bosco. Niente affatto: a me
tocca solo di rendere un conto tremendo intorno al modo con cui avrò
adempiuto la divina volontà. Con questo disegno manifestatoci dal Signore
io sono sempre andato avanti e questo fu l'unico scopo di quanto finora
operai. Questo è il motivo, pel quale nelle avversità, nelle
persecuzioni, in mezzo ai più grandi ostacoli non mi sono mai lasciato
intimorire ed il Signore fu sempre con noi». La cronaca dell'Oratorio che
ci fornisce tali notizie, termina notando: «Non si può descrivere la
profonda impressione che fece e l'entusiasmo che destò simile rivelazione».
Il ricordo del profetico sogno gli si risvegliò
nella memoria, anzi quasi lo assalse a Roma nel maggio del 1887, mentre
celebrava nella Chiesa del Sacro Cuore. Tanta fu l'emozione, che le
lacrime gl'inondarono il viso. Erano trascorsi sessantadue anni, dacché
gli era stato detto: - A suo tempo tutto comprenderai. Sentiva giunto quel
tempo; l'erezione del santuario dedicato al Cuor di Gesù nell'eterna città
e consacrato il giorno prima gli parve quasi coronamento della missione
adombratagli da fanciullo. Ma più ancora compresero i suoi figli,
testimoni di ben grandi sviluppi ulteriori dell'opera, di cui, piccolo
veggente, aveva avuto una pallida idea e che, santo vegliardo, contemplava
in una già avanzata realtà.
Ben a ragione il suo terzo successore Don Rinaldi,
compreso di tutta l'importanza del celeste messaggio, nel centenario della
fatidica data richiamò su di esso l'attenzione dei Salesiani,
stimolandoli a meditarlo per cavarne utili insegnamenti. Infatti, a ben
riflettervi oggi, vi si sente palpitare come in embrione il programma di
azione assegnato dalla Provvidenza a Don Bosco ed a' suoi figli.
Se di lassù era venuta la missione, è evidente che
fine ultimo, dell'opera educativa di Don Bosco non poteva essere di dar
solo buoni cittadini alle patrie terrene, ma di preparare buoni cristiani
per la patria celeste. Ecco perché egli nel 1868, prendendo la parola
dopo l'accademia del suo onomastico, affermò categoricamente: - L'unico
scopo dell'Oratorio è di salvare anime. Sta bene che buon cittadino e
buon cristiano non furono per Don Bosco due termini incompatibili, ma che
con questo va necessariamente unito quello, e che Don Bosco non trascurò
nulla di quanto la sana pedagogia e il suo intuito psicologico gli
dettavano per trarre dal fanciullo il futuro professionista e il futuro
operaio, che si facessero onore; si spiega pure facilmente com'egli di
fronte alle autorità dello Stato mettesse in rilievo di preferenza il
lato civile dell'educazione da lui impartita: ma egli non concepiva
l'educazione di un giovane battezzato senza l'obbligo di far convergere
ogni attività pedagogica allo sviluppo della vita soprannaturale. Ecco il
punto che interessa qui a noi di studiare per conoscere il particolare
atteggiamento di Don Bosco dinanzi al gran problema.
Dice egregiamente Mons. Cavigioli: «La vita etica
dell'uomo, dopo Cristo, deve svolgersi nella sfera del soprannaturale;
l'educazione che pretendesse di arrestarsi nella zona naturale, sarebbe un
abbassamento di livello. Chi scende dal piano della grazia sconta subito
l'errore, perché non fa sosta al pianterreno della natura, ma capitombola
più in giù».
E c'era bisogno di chi alzasse risolutamente il
vessillo dell'educazione cristiana integrale, massime tra la classe più
numerosa della società. Quando il nostro Santo scese in campo, il
naturalismo invadente s'impadroniva sempre più dell'anima giovanile nella
scuola aperta a tutti. Le teorie pedagogiche più in voga prescindevano
affatto da qualsiasi presupposto di elevazione a un ordine superiore, se
pure non vi si levavano contro ostili. Non di rado anche i buoni,
trascinati dalla corrente, sacrificavano chi più chi meno alle tendenze
del tempo. Don Bosco, nulla sdegnando del buono che la modernità gli
offriva, poneva molto più in alto il suo ideale.
Com'egli concepisse l'educazione, lo dava a conoscere
fin dal momento, in cui riceveva i giovani che venivano a lui: li riceveva
come dalla mano di Dio. Dio ci ha mandato, diceva, Dio ci manda, Dio ci
manderà molti giovani. Sapeva bene che i loro parenti e benefattori
glieli affidavano, perché li facesse istruiti nella letteratura, nelle
scienze, nelle arti e nei mestieri, ed egli rispondeva a tale
aspettazione; ma nelle istruzioni a' suoi aiutanti andava ripetendo: - Il
Signore ce li manda, affinché noi ci interessiamo delle loro anime ed
essi qui trovino la via dell'eterna salute. Perciò tutto il resto deve
qui da noi considerarsi come mezzo; il nostro fine supremo è di farli
buoni e salvarli eternamente. Onde subito nel primo incontro parlava loro
dell'anima; anzi su questo punto aveva un'opinione, che forse cagionerà
qualche sorpresa.
Riteneva che se all'entrata di un giovane il
Superiore non dimostra amore per la sua eterna salvezza, se teme di
parlargli prudentemente delle cose di coscienza, se parlandogli dell'anima
usa mezzi termini o gli dice in modo vago, ambiguo di farsi buono, di
farsi onore, di ubbidire, studiare, lavorare, non produce effetti
durevoli, ma lascia le cose come sono e non se ne guadagna l'affezione. È
un passo falso ed essendo il primo, riesce difficile correggerlo; tanto
gli aveva insegnato una lunghissima esperienza. Il giovane, soleva dire,
ama più che non si creda di sentirsi parlare de suoi interessi eterni e
capisce da ciò chi gli vuole e chi non gli vuole veramente bene. Né a
far ciò dev'essere soltanto il Superiore della casa; ma raccomandava che
segnatamente in principio dell'anno tutti gli altri nell'insegnare,
nell'assistere, nel correggere, nel premiare facessero vedere ai giovani
essere là unico movente il bene dell'anima loro.
Dai maestri voleva che si considerasse la scuola come
un mezzo per fare del bene. Voi siete, diceva loro, come i parroci nella
propria parrocchia, come i missionari nel campo del proprio apostolato.
Perciò di quando in quando mettete in risalto le verità cristiane,
parlate dei doveri verso Dio, dei sacramenti, della divozione alla
Madonna. Voleva insomma che le loro lezioni fossero cristiane e che
nell'esortare gli alunni ad essere buoni cristiani si mostrassero franchi
e amorevoli. Ecco, diceva, il gran segreto per affezionarsi la gioventù e
acquistarne tutta la confidenza. Chi ha vergogna di esortare alla pietà,
è indegno d'essere maestro; ed i giovani lo disprezzano ed egli non
riuscirà ad altro che a guastare i cuori che la divina Provvidenza gli ha
affidati.
Ogni superiore, ogni maestro doveva ricorrere
costantemente a Dio per aiuto e tutto a Dio riferire il bene operato.
Quando taluno si lamentava della sua scuola, d'ordinario egli cominciava a
domandargli: - Preghi tu per i tuoi scolari? - Nei "Ricordi
confidenziali" ai Direttori raccomandava a ognuno di essi: «Nelle
cose di maggior importanza fa' sempre breve elevazione della mente a Dio
prima di deliberare». E nel Regolamento delle Case, a conclusione degli
articoli preliminari o generali, dichiara essere a tutti indispensabile
con la pazienza e la diligenza molta preghiera, senza la quale egli crede
inutile ogni buon Regolamento.
Quando poi si fosse soddisfatti dei risultati
ottenuti, il suo pensiero era: - Bisogna umiliarci davanti a Dio,
riconoscere tutto da lui, pregare e specialmente nella santa Messa,
all'elevazione dell'Ostia, raccomandare sé, le proprie fatiche, i propri
alunni. Dal canto suo, dopo la ripresa regolare delle lezioni,
incominciava a illustrare variamente e sapientemente i tre articoli
fondamentali del suo programma: fuga dal peccato, frequente confessione,
frequente comunione. Introdurre e mantenere Dio nell'anima dei giovani
costituiva la massima delle sue sollecitudini.
L'argomento potrebbe condurci ancora molto lontano.
Dal fin qui detto però appare già abbastanza quanto per Don Bosco
l'elemento religioso nell'educazione fosse essenziale, anzi prevalente;
senza quello l'educazione, secondo lui, non solo era senza efficacia, ma
non aveva nemmeno significato. In un Avviso Sacro, medesimo stampato e
diffuso nel 1849, si legge questa sentenza: "La sola religione è
capace di cominciare e compiere la grand'opera di una vera educazione».
Così dicendo non intendeva certo una religiosità vaporosa, astratta,
senza pratiche.
Nella sua Vita del giovane Francesco Besucco,
pubblicata nel 1864, parla ben chiaro, non curando quello che potessero
pensare i pedagogisti: «Dicasi pure quanto si vuole intorno ai varie
sistemi d'educazione: ma io non trovo alcuna base sicura, se non nella
frequenza della Confessione e Comunione: e credo di non dir troppo,
asserendo che, omessi questi due elementi, la moralità resta bandita».
Tale convincimento lo accompagnò per tutta la vita.
Nel 1878 lo dichiarò francamente ad un alto
funzionario governativo: - Si dice che Don Bosco vuol troppa religione. E
infatti io ritengo che senza religione nulla si possa ottenere di buono
fra i giovani. E nel 1885, con un senso di sconforto, usciva a tal
proposito in questo lamento: - Vecchio e cadente me ne muoio col dolore di
non essere stato abbastanza compreso. Non specificò da chi; ma non è
difficile indovinarlo.
Lo comprese assai bene il Papa Pio XI. Dopo averlo
proclamato «grande propugnatore dell'educazione cristiana», indicò
nell'omelia della canonizzazione quale fosse il segreto per cui il sistema
educativo di S. Giovanni Bosco ottenne frutti così copiosi e mirabili. «Egli
attuava, disse il Pontefice, quei principi che si ispirano al Vangelo e
che la Chiesa Cattolica ha sempre raccomandato». In sintesi felice il
citato Caviglioli ritrasse con poche frasi l'unico e vero ideale
pedagogico di Don Bosco: «Dio, rivelato nel Cristo Redentore, vivente
nella Sua Chiesa ed operante con i Suoi carismi su tutta l'opera
educatrice».
Plasmare cristianamente le coscienze giovanili fu in
ogni tempo il proposito degli educatori cristiani; Don Bosco vi si accinse
in un momento storico, nel quale impellente più che mai ne era la
necessità. A dire del come procedesse ci sarebbe materia non per qualche
pagina, ma da riempire un grosso volume. Riassumerò il molto intorno a
due punti soli: nel campo dell'educazione egli operò prodigi mediante la
bontà sacerdotale e la pietà cristiana, l'una e l'altra sotto forme
senza precedenti.
A dire della prima prendo le mosse da una sentenza
che egli proferì a Parigi nel 1883 in un convegno di illustri signori.
Disse allora: «Le anime giovanili nel periodo della loro formazione han
bisogno di sperimentare i benefici effetti della dolcezza sacerdotale».
Dolcezza o amorevolezza sacerdotale è emanazione di sacerdotale bontà:
di una bontà che, nata e alimentata dall'amor di Dio, si appalesa paterna
e confidente per il bene delle anime e in chi visse sotto il suo influsso
fin dalla tenera età lascia un ricordo duraturo e salutare. Questa bontà,
sapientemente e soavemente adattata all'età giovanile, Don Bosco scelse
per suo metodo educativo e a buon diritto Don Rua lo definì un uomo, nel
quale Dio elevò la paternità spirituale, al più alto grado.
Nell'oratorio la bontà di Don Bosco s'irradiava, in
ogni parte. Era come il sole, che diffonde luce e calore anche dove non si
vede. Essa manteneva nell'ambiente il sereno e nei giovani il desiderio di
renderlo contento; onde al comparire di lui nel cortile gli correvano
incontro per baciargli la mano e stargli vicino, ed egli a parlare, a
sorridere, a faceziare, volgendo in qua e in là lo sguardo e accostando
l'orecchio alle labbra di chi accennava di aver qualche cosa da dirgli e
le labbra all'orecchio di chi egli desiderava di ammonire, esortare,
incoraggiare.
Non perdeva mai di vista tre massime ispirategli dal
suo cuore sacerdotale e ricordate costantemente ai suoi per cattivarsi
l'affetto e la confidenza dei giovani: amare quello che essi amano e così
ottenere che amino loro pure quello che amiamo noi per loro bene; amarli
in modo che conoscano di essere amati; porre ogni studio, affinché mai
nessuno di essi parta da noi malcontento. Si fa presto a enunciare simili
aforismi, più presto ancora ad applaudirvi; l'attuarli invece costa
continui e non lievi sacrifici.
Ma Don Bosco insegnava pure che l'educatore è un
individuo consacrato al bene de' suoi allievi e che perciò dev'essere
pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo
fine. In ciò la forza e la costanza sono possibili solo a chi nella
grande opera dell'educazione cerca unicamente la gloria di Dio e il
vantaggio delle anime, cosa da lui predicata con la parola e con
l'esempio. Venne bensì il tempo, in cui altre occupazioni ne diminuivano
l'assiduità fra i giovani; ma allora si era creato intorno uno stato
maggiore, che, quale sua longa manus, arrivava dove non poteva più lui e
agiva in suo nome e con l'identico suo spirito.
Detto ciò quasi in genere, scendiamo ad alcuni
particolari, omettendone tanti altri che esigerebbero troppo lungo
discorso.
La sacerdotale bontà di Don Bosco si rivelava agli
alunni fin dal loro por piede nell'Oratorio. I suoi modi paterni, la
serenità del suo viso, l'amabilità del suo sorridere svegliavano subito
in essi rispetto e confidenza. Bisognerebbe poter qui riferire le svariate
e abili interrogazioni che rivolgeva ai nuovi arrivati, secondoché ne
intuiva l'indole e l'umore. Al momento buono veniva fuori l'immancabile
domanda: - Vuoi essere amico di Don Bosco? - E questa gli apriva la via a
parlare di anima e ad insinuare il pensiero della confessione.
A chi non conosce Don Bosco, parrà strano questo che
dico; eppure egli usava qui tanta naturalezza, che i novellini, uscendo,
gli lasciavano nelle mani la chiave del proprio cuore.
Don Bosco parlava ogni sera ai giovani riuniti dopo
le orazioni nella così detta "buona notte". Erano pochi minuti
di intima familiarità e di paterna effusione, nei quali stampava in tutti
l'ultima impressione della giornata. I suoi uditori ci tramandarono buon
numero di tali parlate. A titolo di saggio ne riporterò una, che fa
proprio al caso nostro.
Ogni 31 dicembre soleva dare a quell'ora la strenna,
ossia qualche ricordo spirituale per il nuovo anno. Nel 1859 esordì in
questo modo: «Miei cari figliuoli, voi sapete quanto io vi amo nel
Signore e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che
potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acquistato,
quanto sono e quanto posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita
stessa, tutto desidero impiegare a vostro, servizio. In qualunque giorno e
per qualunque cosa, fate pure capitale su di me, ma specialmente nelle
cose dell'anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà
cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me».
Dati poi i ricordi, continuava: "Voglio che si finisca l'anno con
perfetto amore e santa allegrezza. Perciò io perdono a voi qualunque
mancanza possiate aver fatta, e anche voi perdonatevi a vicenda le offese,
che per caso abbiate ricevute. Voglio cominciare l'anno 1860 senza
malumore e senza malinconie». E su questo tono di amorevolezza condusse a
termine il sermoncino.
I giovani sapevano di poter andare da lui ogni volta
che volessero, come li riceveva bene! Fattili sedere sul sofà, egli,
seduto al tavolino, li ascoltava attentamente, come si ascolta chi ha cose
importanti da dire, e dava loro tutta la soddisfazione possibile. Dopo il
colloquio li accompagnava fino alla soglia, apriva loro la porta e li
congedava con il suo solito: - Siamo sempre amici, eh! È inutile dire che
i giovani discendevano dalla scala sereni e contenti come pasque.
E com'erano felici d'imbattersi in lui, andando per
casa! Il suo animo paterno gli metteva ogni volta sulle labbra qualche
affettuosa parola, che tornava gradita quanto un bel regalo; tanto più
che egli soleva allora ricordare amabilmente qualche cosa che interessasse
l'incontrato. Gli ammalati poi ricevevano le sue visite nell'infermeria
non da lontano e di sfuggita, ma al proprio letto e a tutt'agio.
S'informava del loro stato, ne sollevava l'animo e, occorrendo, dava
ordini o provvedeva direttamente.
A un educatore, chiunque egli sia, non possono
mancare occasioni di dover correggere, far rimproveri o punire. La bontà
sacerdotale di Don Bosco aveva fin dal 1846 formulato la norma da seguire
in simili casi.
Durante una sua assenza da Valdocco era venuto a
sapere che un amico sacerdote, suo aiutante nell'Oratorio, trattava i
ragazzi «con molta energia», sicché ne aveva già disgustati parecchi.
Don Bosco il 31 agosto, mettendo sull'avviso il teologo Borel, che lo
sostituiva nella direzione, gli scriveva: "Ella faccia che l'olio
condisca ogni vivanda nel nostro Oratorio». Allo stesso linguaggio
metaforico ricorreva poi anche in seguito, presentandosi casi simili. Per
esempio, nel 1866 disse un giorno a Don Rua, che sovrintendeva alla
disciplina: «Mi pare di aver udito certi usci stridere, ed un po’
d'olio ai cardini accomoderebbe tutto». Anzi, gli raccomandava
addirittura di farsi mercante d'olio. Non fa bisogno di dire che di
quest'olio egli faceva uso senza risparmio.
Non è possibile seguirlo in tutte le manifestazioni
di bontà, delle quali allietava l'Oratorio, né esporre quanto con esse
guadagnasse di confidenza da parte degli allievi. Si leggano le pagine
tanto ammirabili e tanto ammirate sul sistema preventivo, dettategli dal
suo cuore di sacerdote educatore. Quello fu il codice, prima che scritto,
vissuto da lui per circa quarant'anni: là è dato di cogliere, insieme
col genuino suo pensiero pedagogico, anche le sfumature dello spirito, che
lo animò nella lunga e laboriosa opera educatrice e col quale riportò
trionfi, dai pedagogisti neppure immaginati.
Uno di questi trionfi (chi lo crederebbe?) fu
nientemeno che il Card. Cagliero. Ragazzo pieno di vita e d'ingegno, aveva
l'argento vivo addosso. Sebbene il regime dell'Oratorio avesse assai più
della famiglia che del collegio, pure il frugolo castelnovese scoteva il
giogo ed era la disperazione dei superiori, che avevano da fare con lui.
Vi fu chi fece la proposta di rimandarlo a casa, e se non fosse stato di
Don Bosco, il Cagliero non sarebbe divenuto quello che divenne. Don Bosco
invece seppe così bene prenderlo per il suo verso, che a poco a poco ne
fece un giovane esemplare, e poi tutto il resto che è noto.
Un Vescovo argentino in un suo discorso per le feste
della beatificazione ebbe una felice idea, togliendo a dimostrare che Don
Bosco educatore aveva del pedagogo il puro necessario, del carabiniere
niente, del padre tutto.
A Londra un anglicano, che dirigeva un ospizio di
giovani, avendo letto il testo di Don Bosco sul sistema preventivo e
osservante l'applicazione nell'Oratorio di Torino e in alcuni collegi
d'Italia, ne era rimasto talmente impressionato, che si studiava di
conformarvisi quanto poteva. Di Don Bosco teneva il ritratto nella sala di
ricevimento, perfino col motto: Da mihi animas, cetera tolle.
Due suoi articoli, pubblicati nel 1900 e nel 1903,
terminavano col far voti che il Signore suscitasse in Inghilterra uomini
dallo spirito di Don Bosco, perché ve n'era estremo bisogno. Essendo
ritualista, vi parlava anche della frequente confessione e comunione e
della Messa quotidiana; solo che non la chiamava Mass, invisa a suoi
correligionari, ma Eucharist.
Anche questo dunque aveva compreso il protestante,
ossia che del sistema educativo di Don Bosco la pietà cristiana è il
fondamento. Ecco la seconda caratteristica accennata sopra. Molto a tal
proposito abbiamo già visto nei capi che precedono massime negli ultimi;
mi restringo quindi a poche osservazioni e testimonianze.
La pietà nell'Oratorio veniva coltivata, non
imposta; fioriva perciò con una simpatica spontaneità. La alimentavano
la comune preghiera, la Messa, quotidiana, la frequente confessione e
comunione e il sermoncino della sera. Pratiche periodiche la stimolavano,
come la predicazione festiva, l'esercizio mensile della buona morte e gli
esercizi spirituali a metà dell'anno scolastico. Vi contribuivano le
feste religiose, preparate con cura e celebrate con solennità.
Sostenevano la pietà quattro Compagnie o Associazioni interne, ognuna con
proprio regolamento. Si raggruppavano in esse i migliori delle varie
sezioni, i quali s'infervoravano a vicenda e si tiravano dietro gli altri;
erano il buon fermento, che agiva nella massa.
Ma più di tutto e più di tutti influiva Don Bosco
col suo esempio, con le sue parole e con il ministero della confessione,
come abbiamo già detto altrove. La sua pietà poi e il suo zelo per la
pietà si comunicavano ai subalterni, che portavano il medesimo spirito
anche nei collegi: «Chi visita l'Oratorio, scriveva il Vescovo di
Vigevano De Gaudenzi, ed i vari stabilimenti eretti e governati dal Sig.
Don Bosco coadiuvato dai suoi sacerdoti vi sente tosto un non so che di
pio, che non è dato facilmente di sentire in altri Istituti; par che
negli Istituti di Don Bosco si respiri proprio il buon odore di Gesù
Cristo».
Anche un altro Vescovo, il Vescovo di Casale Ferré,
fu colpito dalla pietà osservata nelle case di Don Bosco. Il dotto
Prelato disse una volta in presenza di ragguardevoli persone che un gran
segreto di Don Bosco nella sua opera educativa era imbevere i giovani
delle pratiche di pietà. «L'atmosfera stessa che li circonda, continuò,
l’ aria che respirano è impregnata di pratiche religiose. I giovani così
impressionati non osano quasi più, anche volendo, fare il male; non hanno
mezzi di farlo; dovrebbero muovere contro la corrente per divenir cattivi;
trascurando le pratiche di pietà, si troverebbero come pesci fuor
d'acqua. Questo è che li rende docili e li fa operare per convinzione e
per coscienza, sicché una ribellione non è neanche possibile
immaginarla. Le cose vanno per forza irresistibile».
Don Bosco un giorno, riferita questa osservazione,
disse che era una bella e buona verità, e vi aggiunse questo commento: «Con
le pratiche di pietà si cerca di non opprimere i giovani, anzi di non
istancarli mai; si fa che quelle siano come l'aria, che non opprime, non
istanca mai, ebbene noi ne portiamo sulle spalle una colonna pesantissima:
la ragione è che interamente ci circonda e interamente c'investe dentro e
fuori».
Due cose vanno rilevate nella pietà, quale la
inculcava Don Bosco: non era una pietà sentimentale né andava
scompagnata da allegria. Una pietà fatta di sentimento è superficiale e
quindi effimera. Don Bosco non conobbe la malattia moderna del
sentimentalismo. Nel suo concetto la vera pietà consiste in una
disposizione d'animo a schivare l'offesa di Dio anche leggiera ed a
compiere per amor di Dio tutti i propri doveri. Le pratiche, se non
conducono a questo, restano cose campate in aria. Perciò nelle occasioni
di tridui, di novene, di mesi e di feste raccomandava, sì, la comunione o
preghiere speciali, ma insieme indicava giorno per giorno col nome di
fioretti certi doveri, certi atti di virtù, certe opere buone da fare, in
omaggio al Signore, alla Madonna, ai Santi, soprattutto lo studio, il
lavoro, l'obbedienza, l'osservanza di qualche regola e in primis fuga del
peccato, segnatamente del peccato impuro.
La pietà da lui inculcata s'ispirava al primo
versetto del Salmo CXI Beatus vir, qui timet Dominum; in mandatis eius
cupit nimis. In generale, i suoi sermoncini del serale saluto, gira e
rigira, finivano sempre, come i salmi in Gloria, in un pensiero su cosa
concernente la pietà associato con qualche altro riferentesi agli
obblighi del proprio stato o a qualche verità della fede. Era un suo
principio che la fede è l'occhio della pietà; non per nulla abbondava
all'Oratorio l'istruzione religiosa. Così dava ai giovani una pietà
illuminata e li abituava ad agire per motivi soprannaturali e per
coscienza; che qui sta la differenza fra il pedagogista e il sacerdote
educatore, il primo fa un lavoro psicologico, il secondo si occupa anche e
più nello studio delle coscienze.
E poi l'allegria. Dice bene un noto scrittore di
ascetica: «La tristezza, è un soffio che viene dall'inferno; la letizia
è l'eco della vita di Dio in noi». In Don Bosco, dall'anima piena di
Dio, l'allegrezza del cuore traluceva dall'aspetto, dal sorriso,
dall'abituale ottimismo, e così passava in coloro che lo attorniavano. Il
servite Domino in laetitia è un articolo essenzialissimo nella sua
pedagogia. In gioventù non aveva già denominato dall'allegria una società
di condiscepoli da lui fondata per tirarli al bene? Il piissimo Domenico
Savio, tutto imbevuto dello spirito di Don Bosco, ne interpretava
fedelmente il sentimento, quando diceva a un nuovo venuto: «Sappi che noi
qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri». E non eran
parole. Nel 1857 un giovanotto, poco dopo il suo ingresso nell'Oratorio,
scriveva ad un amico: «Qui mi sembra di essere in un paradiso terrestre.
Tutti sono allegri, ma di un'allegria veramente celeste, e specialmente
quando si trova Don Bosco in mezzo a noi».
La vita dell'Oratorio era fatta di pietà, studio e
lavoro, ma il tutto condito di santa allegria. «Chi non ha visto,
difficilmente se ne fa un'idea», scrive lo storico che vide. I superstiti
di quei tempi ringiovanivano, decantando la gioia allora da essi goduta
nella casa di Don Bosco. Eppure non si conoscevano neppur di nome le
comodità introdotte dopo. Chi ha il cuore in pace, fa sempre festa, dice
la Scrittura: secura mens quasi iuge convivium.
Don Bosco nel trattatello sul Sistema preventivo
prometteva di comporre un'operetta intorno a tale argomento; ma non potè
adempiere la promessa. Invece, assai più che un libro, nel quale fosse
esposta ampiamente la sua dottrina, lasciò dopo di sé a' suoi figli uno
spirito, che nell'apostolato dell'educazione li guidasse meglio di tutti i
libri del mondo. Questo spirito aveva in lui un'unica sorgente: la intima
e abituale unione con Dio, alimentata dalla sua vivissima fede.
CAPO XIV. - Uomo di fede.
Ogni cristiano è tale per la fede, di cui il
battesimo è la porta, ed è la fede il fondamento della vita
soprannaturale e il vincolo che unisce l'anima a Dio; la qual fede viene
integrata dalla speranza e dalla carità. Ma altro è essere credente,
altro essere uomo di fede. Il credente pratica più o meno la sua fede,
mentre l'uomo di fede vive della fede e la vive a segno da raggiungere una
profonda e continua unione con Dio. Tale fu Don Bosco.
Veramente, quasi tutto quello che abbiamo visto fin
qui e gran parte del resto che vedremo, è fede vissuta: pensieri,
affetti, imprese, ardimenti, dolori, sacrifici, pie pratiche, spirito di
orazione furon tutte fiamme sprigionantisi dalla fede che gli ardeva in
petto; parrebbe quindi doversi o ridire il già detto o rinunciare a un
capo sulla fede. Tuttavia nella vastità del campo ci rimane ancora
qualche poco da spigolare. Una vita così perennemente e intensamente
animata dal soffio della fede non offrirà materia a indugiarci di
proposito nella prima delle virtù teologali? Non possono mancarvi note
caratteristiche meritevoli di essere messe in particolare rilievo.
Fra i testi chiamati a deporre nei processi, quelli
che vissero più lungamente vicino a Don Bosco, si direbbe che fanno a
gara per esaltarne la fede. Le loro deposizioni si possono condensare in
questa formula: le verità della fede il nostro Santo fu avido di
conoscerle, fermo nel crederle, fervente nel professarle, zelante
nell'inculcarle, forte nel difenderle. Degna di attenzione speciale è la
testimonianza, con cui Don Rua incominciò la sua deposizione. Esordì in
questi termini: «Fu uomo di fede. Istruito da bambino nelle principali
verità della nostra santa religione dall'ottima sua madre, ne divenne
famelico».
L'ultima espressione è non meno vera che bella; non
solo però nella puerizia la mamma nutrì di fede l’anima del figlio, ma
anche dopo, nei momenti più solenni della vita, riversò nel cuore di lui
la piena della fede che traboccava dal suo. Ecco perché Don Bosco serbò
quasi un culto alla memoria della virtuosa genitrice. Fino agli estremi
suoi giorni scrisse e parlò di lei con una tenerezza che commuove. Nelle
sue parole vibrava un sentimento di viva gratitudine a Dio per avergli
dato una madre tanto pia; gli parve sempre questo un segnalatissimo favore
del Cielo.
Bisogna tuttavia aggiungere che, se la madre
interveniva nelle occasioni più importanti della sua vita, questi suoi
interventi erano prevenuti da potente lavorio della grazia divina, la
quale dal fondo della fede gli faceva trarre atti e propositi generosi.
Mamma Margherita, preparò il suo Giovanni alla prima comunione,
conducendolo ella stessa ai piedi del confessore; ma egli, non pago
ancora, volle tornare a confessarsi altre due volte, tanto era alto il
concetto che già allora la fede gl'ispirava di sì augusto sacramento.
Nell'affare della vocazione la madre gli dichiarò
nettamente: - In queste cose io non centro, perché Dio è prima di tutto.
Non pensare a me. Io sono povera; ma se tu, prete, diventerai ricco, non
verrò a farti una sola visita. Ma il figlio era già così persuaso di
non dover ascoltare nella vocazione la voce della carne e del sangue, che
stava da tempo in cima a' suoi pensieri una sola preoccupazione, quella di
ben conoscere e di fedelmente seguire la chiamata del Signore; infatti,
prima ancora di parlarne con la madre, andava facendo tutte le diligenze
possibili per venirne a capo.
Entrato poi nel seminario, vi portò un'idea così
eccelsa del sacerdozio, a cui aspirava, che per prepararvisi degnamente si
diede a una vita di perfezione non solo praticando i consigli evangelici,
ma consacrandosi perfino con voto perpetuo. Ordinato prete, la madre gli
tenne un sublime discorso: - Sei prete, dici la Messa dà qui avanti sei
dunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che cominciare a dir
Messa vuol dire cominciare a patire. Da qui innanzi pensa solamente alla
salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me. Anche su di
questo il figlio aveva già formate le sue buone risoluzioni; tra le
altre, quella di «patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre, quando si
trattasse di salvare anime». Il suo spirito si moveva dunque in una piena
atmosfera soprannaturale di fede.
Venne il giorno, in cui era necessario che scegliesse
per quale via correre alla salvezza delle anime. Nessuna preoccupazione in
lui per tale scelta.
La fede gl'insegnava che la volontà di Dio si
manifesta per mezzo dei Superiori; a lui premeva soprattutto di non
metterci nulla di suo. Suo Superiore era il Beato Cafasso. Questi un bel
giorno gli diede ordine di andar a dirigere un ospedaletto aperto per
fanciulle dalla Marchesa di Barolo ed a governare nello spirito un
educandato della medesima Signora. Ci poteva essere cosa più contraria
alle sue aspirazioni? Non era stata sempre sua ardente brama di occuparsi
dei giovani?
Dei precedenti suoi primi quattro mesi di sacerdozio,
passati presso il proprio parroco a Castelnuovo, scrisse più tardi: «La
mia delizia era fare il catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro,
parlare con loro». E ne era sempre circondato. Doveva dunque mandare
tutto a monte? Non prese consiglio da umana prudenza, ma unicamente dalla
fede la quale gli magnificava il valore e il merito dell'obbedienza. Obbedì
senza far motto. Non poteva certo supporre in quel momento, che proprio
per una via così impensata e così opposta a' suoi disegni, la
Provvidenza lo avviasse alla meta vagheggiata.
«La fede è quella che fa tutto», scrisse una
volta. Con tale convinzione in mente, non credette mai di aver fede
abbastanza. Una volta raccomandò financo ai giovani di pregare, perché
il Signore gli concedesse «una fede viva, quella fede che trasporta le
montagne nel luogo delle valli, e le valli nel luogo delle montagne».
Anzi talora nel corso delle sue imprese ed anche prossimo alla fine de'
suoi giorni si accusò di fede mancante, esclamando con le lacrime agli
occhi: «Quante cose di più avrebbe fatto il Signore, se Don Bosco avesse
avuto più fede!».
Vero è che senza una gran fede non avrebbe potuto
fare il gran bene che fece. Su questo tema ci sarebbe da scrivere per un
bel pezzo! Contentiamoci di fermare l'attenzione su pochi punti ben
determinati e più comprensivi. Aggiungiamo poche cose sopra un tema già
toccato nel capo settimo. Gloria di Dio e salute delle anime sono due
espressioni, che s'incontrano con frequenza nella letteratura salesiana.
L'uso invalse a forza di udirle ripetere da Don Bosco e quindi anche dal
suo successore e continuatore Don Rua. Il nostro Santo nel parlare ai
Salesiani, nelle comunicazioni ai Cooperatori, negli scritti, nella
corrispondenza epistolare le adoperava di continuo. Levato sulle ali della
fede, non cercava altro nella vita.
Una lezione salutare doveva finire di staccarlo da sé
e dalle mire terrene. Andava a recitare il penegirico di S. Benigno in un
paese dell'astigiano. Aveva preparato un sermone coi fiocchi per far onore
al Santo, ma un poco anche a sé. Faceva la strada a cavallo. A mezzo
cammino la bestia spaventata si diede a una corsa pazza attraverso campi e
prati, finché lo buttò capovolto sopra un mucchio di pietre spaccate.
Portato privo di sensi in una casa vicina e curato, si riebbe ma se la legò
al dito. «Dopo questo avviso, scrisse nelle Memorie, ho fatto ferma
risoluzione di voler per l'avvenire preparare i miei discorsi per la
maggior gloria di Dio e non per comparire dotto e letterato». La gloria
di Dio e, ciò che torna al medesimo, il bene delle anime gli stavano già
a cuore; ma da quel giorno vi si abbandonò senza riserva, nulla scorgendo
di più nobile né di più giusto per un ministro del Signore.
Prima di mettere mano a un'impresa qualsiasi, divenne
sua costante abitudine osservare se ridondasse a maggior gloria di Dio e a
vantaggio delle anime e, avutane la morale certezza, riteneva che l'idea
gli venisse dall'alto, né cosa del mondo valeva più ad arrestarlo. Altri
intorno a lui potevano bene sbigottirsi nel timore che dovessero mancare i
mezzi. Uomini materiali! diceva in simili casi. Non è molto più creare
l'idea che dare i mezzi per attuarla? - Non pochi stupirono al vederlo
intraprendere la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice, sapendosi
che non aveva fondi e che non c'era da sperar molto per tali opere in quei
tempi. Non è questo uno sfidare la Provvidenza? - gli andavano dicendo.
Ma la sua risposta era sempre quella.
Il movente di una fede viva, illuminata e costante
produceva in lui effetti. Gli dava forza a tollerare stenti, fatiche,
disdette e persecuzioni che avrebbero, come si esprime il Cagliero nei
Processi, schiacciato chiunque si fosse lasciato guidare da motivi umani.
Inoltre lo manteneva in un'abituale calma e serenità. Se Dio permette
queste prove, diceva, è segno che ne vuol cavare gran bene. Andiamo
avanti con coraggio e pazienza, confidando in Lui. Certuni de' suoi
avrebbero voluto qualche volta, come i figli di Zebedeo, invocare il fuoco
dal cielo; ma egli sorridendo ne smorzava le collere dicendo: - Eh! voi
siete ancora ragazzi. Bisogna lasciar tutto nelle mani del Signore. Egli
saprà disperdere i cattivi disegni. Piuttosto preghiamo e non temiamo.
Altre volte osservava: - Quanto più mancano gli appoggi umani, tanto più
Dio vi mette del suo. L'ho già sperimentato. Oppure: - In mezzo alle
prove più gravi ci vuole maggior fede in Dio. Usciva anche in
invocazioni: - L'opera è vostra, o Signore, voi la sosterrete. Se l'opera
è mia, sono contento che cada. Infine con l'animo così disposto le
occupazioni materiali e le preoccupazioni finanziarie sembrava che gli
tornassero soavi e si vedeva che non lo raffreddavano punto nell'esercizio
della sua unione con Dio.
Questo abbandono in Dio non escludeva le industrie
personali. Era sua massima che anche la Provvidenza vuol essere aiutata
dai nostri sforzi; onde nel cominciare le sue opere prevedeva già sempre
di dover darsi attorno. Non bisogna aspettare l'aiuto della divina
Provvidenza stando neghittosi, soleva dire. Il Signore si muove in
soccorso, quando ne vede i nostri sforzi generosi per amor suo.
E circa le cose fatte che cosa gli suggeriva la fede?
Abbiamo su di questo una bella lezione data durante la grave malattia del
1872 al coadiutore che lo assisteva. La lezione non era per lui o almeno
non per lui solo. Giova riportarla. Quando principiava a riaversi, il
rifluire della salute lo rendeva espansivo più dell'ordinario, come
avviene generalmente nei convalescenti. Dopo aver facenziato sul
cambiamento che subiva della pelle, continuò: «Vedremo se questa nuova
pelle sarà più forte e più capace dell'altra a resistere alle bufere e
alle tempeste. Ho fiducia però che Dio la renderà abbastanza resistente
per l'opera sua, a sua maggior gloria. Persuaditi, mio caro, tutte le
nostre facoltà e il nostro ingegno, tutti i nostri lavori, le nostre
pene, le nostre umiliazioni, bisogna che abbiano di mira solamente la
gloria di Dio. Se noi fatichiamo per il nostro onore, non valgono nulla i
nostri pensieri, i nostri trovati, le nostre invenzioni, le nostre opere.
Guai a chi lavora aspettando le lodi del mondo! Il mondo è un cattivo
pagatore, paga sempre con l'ingratitudine. Chi è Don Bosco? È un povero
figlio di contadini, che la misericordia di Dio elevò al grado di
sacerdote senza alcun suo merito. Ma osserva quanto è grande la bontà
del Signore! Egli si servì di un semplice prete per fare cose ammirabili
in questo mondo; e tutto si fece e si farà in avvenire a maggior gloria
di Dio e della sua Chiesa!
La sua fede si rivelava al sommo nel cercare la
salute delle anime. Chiunque gli venisse dinanzi, la sua mente lo faceva
pensare subito all'anima di lui e al modo di giovargli per l'eternità.
Due considerazioni soprannaturali gl'ispiravano questo zelo: il pericolo
dell'altrui eterna dannazione e tutto quanto aveva fatto e patito il divin
Redentore per la salute delle anime. Tremava quindi per la sorte che
poteva toccare a chi non si curasse dei propri destini dopo la morte, e si
sentiva acceso da forte brama di guadagnar tutti a Gesù Cristo; nel che
dava prova di un coraggio e di una fortezza senza limiti: coraggio nel
vincere ogni rispetto umano, fortezza nel sopportare disagi, sacrifici,
umiliazioni per sì caritatevole e nobile scopo. Compreso del suo potere
sacerdotale di rimettere i peccati, invitava tutti al salutare lavacro
della confessione.
Finché gli fu possibile, si aggirava per Torino in
cerca di anime, entrando in pubblici esercizi, come in osterie, caffè,
botteghe di barbieri e con la scusa di una consumazione, di un acquisto o
di un servizio, attaccava abilmente conversazione con avventori e
principali, trovando la via per giungere allo scopo da lui inteso. Più
tardi non si lasciava sfuggire occasione di toccare il medesimo tasto
negli incontri, nei viaggi o nelle udienze, nel che non faceva distinzione
di persone. Il Signore, è vero, gli aveva donato un'efficacia di parola
più unica che rara; ma ciò non toglieva che in molte circostanze il suo
linguaggio sonasse ostico sulle prime o che si richiedesse da parte sua un
tal quale ardimento per entrare in certi discorsi con gente altolocata o
con uomini colti e con miscredenti. La sua fede però gli comunicava una
sicurezza e una disinvoltura, a cui, era difficile resistere. Non a torto
fu detto un gran pescatore di anime.
Qui specialmente mirava con una sentenza, che gli
piaceva ripetere parlando a ecclesiastici: «Chiunque avvicini un
sacerdote, deve riportarne sempre qualche verità che gli rechi vantaggio
all'anima»
Al qual proposito aggiungerò una notizia venuta
fuori durante il Processo Apostolico. Pio IX aveva dispensato Don Bosco
dalla recita dell'ufficio; ne recitava però abitualmente qualche parte.
Orbene egli in compenso promise di non far atto né di pronunciar parola
che non avesse in mira la gloria di Dio. Avevano evidentemente questo
scopo anche i frequenti richiami ad aggiustare le partite della coscienza.
Della sua fortezza a tollerare incomodi e sofferenze
d'ogni sorta nell'esercitare il ministero del perdono, abbiamo detto sopra
quanto basta al nostro intento. Persone a lui molto affezionate, vedendo
che l'età e la salute esigevano riguardi, avrebbero voluto che si
moderasse nel lavoro del confessionale e si concedesse un po' di riposo.
È nota la sua risposta: - Bisogna dire al demonio che cessi d'ingannar
tanti poveri giovani e di attirare tanti all'inferno; allora cesserò
anch'io dal sacrificarmi per loro.
Detto di questi due punti fondamentali, dirò
brevemente di tre altre cose, che ci aiuteranno a misurare la grandezza
della fede in Don Bosco. La prima riguarda il tanto che fece e patì per
difendere la fede contro gli attentati dell'eresia.
Nel 1851, promulgate le leggi sulla libertà dei
culti e della stampa, i protestanti si buttarono a una propaganda spietata
nelle contrade piemontesi, erigendo financo un tempio in Torino. I
cattolici, avvezzi al regime precedente, non erano preparati a sostenere
la lotta. Don Bosco si levò sentinella vigile in difesa della fede. Per
preservare dalle insidie gl'incauti, lanciava nel pubblico foglietti
volanti, fondò un periodico intitolato l'Amico della gioventù, e faceva
scrivere opuscoli che veniva divulgando con le Letture Cattoliche, unì
pure nel Giovane Provveduto un trattatello sui Fondamenti della fede. Oggi
questa inserzione pare un fuor d'opera; ma aveva la sua ragion d'essere
allora.
Ricoverava intanto nell'Oratorio quanti più
fanciulli poteva, strappati ai lacci dei protestanti. Teneva colloqui e
sosteneva dispute con caporioni e ministri delle sette, incantandoli
sovente con la sua mirabile calma e impressionandoli con la luminosa
chiarezza delle sue dimostrazioni. La carità non mai scompagnata dalle
sue parole ne soggiogò parecchi, i quali abiurarono i loro errori. A
molti inviava soccorsi pecuniari, affinché, stretti dal bisogno, non si
lasciassero comprare dai nemici della fede. Metteva inoltre sull'avviso
parroci e prelati, denunciando subdole mene di eretici.
Il suo zelo personale non era circoscritto a Torino.
Andava a predicare missioni in paesi già infetti dal contagio ereticale.
Fece gran rumore una sua predica nel 1856 a Viarigi, dove si era insediato
un apostata fanatico, che si trascinava dietro una folla d'illusi; Dio ve
lo favorì anche di prodigi. Eppure non tutti anche tra i ben pensanti
compresero la sua provvidenziale azione e gli causavano affliggenti
umiliazioni, mentre avversari accaniti trascendevano a vie di fatto,
attentando più volte alla sua vita, come abbiamo accennato altrove. Ma
nulla intimidiva l'atleta della fede. Anzi dal 1868 in poi estese pure le
sue sollecitudini al Canton Ticino, dove il radicalismo imperante aveva
reso privi di parroci non pochi luoghi; sommano a non meno di trenta i
paesi, ai quali procurò ottimi sacerdoti, sottostando a spese e sacrifici
e anche affrontando non lievi opposizioni; ma continuò imperterrito,
meritandosi la riconoscenza dei cattolici, confermati per mezzo della sua
carità nella loro fede.
Quanto gli costò l'erigere in Torino la chiesa di S.
Giovanni Evangelista, che a poca distanza dal tempio valdese doveva
neutralizzarne il malefico influsso! È noto poi che le Case salesiane
della Spezia, di Vallecrosia e di Firenze furono da lui aperte con il fine
precipuo di far argine all'attività protestante. Dio benedisse anche là
il suo zelo. Alla Spezia per esempio, dove nel 1880 i protestanti avevano
cinquecento ragazzi alle loro scuole, nel 1884 ne avevano appena più
diciassette. Vi sarebbe ancora altro da dire; ma non lo consentono i
limiti di questo lavoro.
Un giorno Don Bosco, discorrendo in camera con alcuni
Salesiani, all'improvviso si fece serio, impallidì, tremò da capo a
piedi e stette con gli occhi fissi e immobili. I circostanti lo guardavano
spaventati, quando, ritornato in sé, disse: - Ho veduto una fiammella
spegnersi. Un giovane dell'Oratorio festivo si è fatto protestante. Ecco
un indice della sensibilità di Don Bosco di fronte ai pericoli della
fede.
La fede di Don Bosco lo faceva trepidare dinanzi al
crescente diradarsi delle file dei giovani aspiranti al sacerdozio. I
tempi volgevano tristissimi per le vocazioni ecclesiastiche; non è qui il
luogo di enumerare le cause. Se fides ex auditu, cosa sarebbe stato del
popolo cristiano, quando fosse venuta a mancare la parola di Dio e in
genere l'istruzione religiosa? Il servo fedele della Chiesa non si perdeva
in vani lamenti. Uomini del Governo avevano un bel rimproverargli di fare
troppi preti! Egli non la perdonava a sacrifici per moltiplicare gli
alunni del santuario.
Predicava a voce e per iscritto che, procurando una
buona vocazione, si regalava un gran tesoro alla Chiesa. Quindi
raccomandava ai Salesiani che per mancanza di mezzi non ricusassero mai di
ricevere un giovane, il quale desse buone speranze di poter essere
incamminato al sacerdozio. Spendessero pure tutto quello che avevano e,
occorrendo, andassero anche a questuare: se per questo si trovassero in
bisogno, non si affannassero che la Madonna in qualche modo, anche
prodigiosamente, li avrebbe aiutati. Poco importava che un prete andasse
poi in diocesi, nelle missioni o in una casa religiosa; era sempre un
prezioso regalo fatto alla Chiesa di Gesù Cristo.
Dal canto suo apriva le porte dell'Oratorio ai
giovani che mostrassero inclinazione allo stato ecclesiastico; non credeva
di poter impiegare meglio i mezzi fornitigli dalla carità, che allestendo
locali opportuni per accoglierne il maggior numero possibile e spendendolo
senza riserva in lor favore per studio, vitto, vestito, titolo
ecclesiastico, riscatto dalla leva militare. Centinaia di alunni, speranze
della Chiesa, passarono dall'Oratorio in seminari, checché cercassero
d'insinuare coloro, i quali sussurravano che Don Bosco pensava a reclutare
vocazioni solamente per sé. Nelle Memorie Biografiche possono riscontrare
dati positivi, donde risulta tutto il contrario.
Che dire poi degli enormi sacrifici di un decennio
per dare ospitalità e comodità di studi e di formazione nell'Oratorio ai
chierici di Torino e di altre diocesi subalpine e liguri, quando il
Governo ordinò la chiusura di parecchi seminari? Non basta. A fine di
cavare figli di Abramo anche dai sassi, ideò nel 1875 e istituì l'Opera
di Maria Ausiliatrice per le vocazioni tardive, la quale somministrò un
contingente assai rilevante di buoni preti. In queste sollecitudini la durò
fino al termine della vita.
Nel 1883, dinanzi a vari autorevoli Salesiani, disse
con visibile compiacenza: - Sono contento! Ho fatto redigere una diligente
statistica, e si è trovato che più di duemila sacerdoti sono usciti
dalle nostre case e sono andati a lavorare nelle diocesi. E rendeva grazie
a Dio ed a Maria Ausiliatrice, che gli avessero procurati i mezzi, con cui
fare tanto bene.
Altra nota caratteristica del suo spirito di fede fu
l'amore per tutto ciò che si riferisse al culto divino. E’ vero che il
culto appartiene alla virtù della religione; ma presuppone la virtù
della fede, che illumina sui diritti di Dio. Prescindendo dal culto
interno, oggetto di tanta parte del già esposto fin qui, toccheremo solo
del culto esterno. Anche de' suoi atti di culto abbiamo avuto più volte
occasione di parlare. Resta da mostrare quanto fece il suo zelo per i
luoghi e per le cerimonie del culto.
Benché povero, profuse tesori nell'erezione delle
tre chiese di Maria Ausiliatrice e di S. Giovanni Evangelista a Torino e
del Sacro Cuore di Gesù a Roma. Le volle splendide per ricchezza e per
arte: «Che uomo unico! scriveva l'architetto della seconda. Dandomi idea
del prezzo da spendere, aggiungeva con una pace e confidenza invidiabile:
Però è meglio far le cose bene e se la stima eccedesse anche del doppio
le somme stanziate, non fa niente, troveremo modo di soddisfarvi».
Dando grande importanza alla musica, impiantò in
esse organi di prim'ordine. Le esecuzioni erano avvenimenti, che servivano
a tirar gente alle solennità e con la decorosa grandiosità non solo
mettevano entusiasmo nel popolo, ma imprimevano negli animi un'alta idea
dell'onore dovuto a Dio.
Riguardo alle funzioni accennerò soltanto a una
geniale singolarità. Spiccava in esse il così detto piccolo clero,
creazione di Don Bosco nella forma da lui introdotta. I Salesiani
diffusero l'istituzione in ogni parte; a Parigi una tal vista fece
profonda impressione anche nel Huysmans. Quei numerosi chierichetti di Don
Bosco eseguivano le sacre cerimonie con edificante esattezza, gravità e
grazia e serbavano un contegno, che attirava la divota ammirazione dei
fedeli.
Don Bosco sapeva innamorare i giovani di tutto quello
che si dice, servire, all’altare, tanto nelle maggiori solennità e
nelle feste ordinarie quanto nelle funzioni quotidiane. Questo contribuiva
molto a fare dell'Oratorio un ambiente di fede, riflesso della fede di
lui, sempre desideroso di veder Dio degnamente servito. Coloro che
venivano di fuori, depose un testimonio ben informato, erano presi
d'ammirazione allo spettacolo di tanti giovani così pii e lieti. Famiglie
signorili e patrizie, soggiunge il medesimo, conducevano i figli nella
chiesa prima di san Francesco e poi di Maria Ausiliatrice, perché si
specchiassero senz'accorgersi in quei figli del popolo tanto sereni e
buoni.
Questo della fede di Don Bosco è un argomento
inesauribile; ma qui non è possibile svilupparlo più ampiamente. Servano
pertanto di chiusa alcune parole, che il quarto successore di Don Bosco
scrisse da Roma a tutti i Salesiani nella stessa giornata trionfale della
canonizzazione: «La fede, che di ogni santità è fondamento, fu senza
dubbio lucerna a' suoi passi, secondo l'espressione del Salmista. Nella
luce della fede la sua mente s'inebriava alla contemplazione delle verità
rivelate e la sua volontà si muoveva nelle direzioni che erano conformi
al beneplacito divino. Quindi o parlasse o scrivesse o agisse, il suo
spirito non oscillava mai fra Dio e il proprio io, fra il cielo e la
terra, fra l'eterno e il temporaneo, fra il dovere e il piacere, ma si
slanciava tosto dalla parte di Dio, Padre e Signore assoluto, donde
pigliava la norma sicura con cui regolarsi in tutto che avesse ragione di
relativo e terreno. Intendo dire che in nulla egli cercò se stesso, il
suo comodo, la sua soddisfazione, il suo tornaconto; ma spese tempo,
energie e sforzi per servire nel miglior modo possibile il Signore,
lavorando nel campo assegnatogli dalla Provvidenza».
CAPO XV. - Apostolo di carità.
Vediamo di cogliere ancora qualche lineamento atto a
integrare la figura di Don Bosco, quale ci è apparsa nelle pagine che
precedono. Seguendolo passo passo nel corso della sua esistenza, abbiamo
potuto rilevare lo spirito che lo animò nelle varie età e nelle svariate
contingenze della vita. Ci è passato dinanzi fanciullo e adolescente,
chierico e giovane sacerdote, fondatore di opere e ministro del Signore,
sempre divorato da zelo per la gloria di Dio e la salute delle anime e
provato quasi del continuo da tribolazioni d'ogni fatta, ma senza mai
perdere quella sua calma imperturbabile, quella sua tranquillità e pace,
che gli venivano da perfetta, intima, ininterrotta unione con Dio. Ora,
poiché indubbiamente la vita di Don Bosco fu tutta un grande apostolato
di carità, studiarlo sotto un tale punto di vista e vedere che cosa vi
abbia avuto di proprio, sarà l'argomento di questo capo. Argomento vasto
per sé, ma che non deve portarci oltre i limiti consentiti dall'indole
del libro.
Don Bosco fu essenzialmente un apostolo. L'apostolo
è un inviato. Egli venne inviato, come abbiamo visto, per una missione
specifica di carità in favore della gioventù, missione provvidenziale,
ma non esclusiva. Nell'invito a tale apostolato gli s'indicarono pure i
mezzi, con i quali prepararvisi: doveva incominciare col rendersi umile,
forte e robusto, e poi passare all'acquisto della scienza. Preparazione
dunque anzitutto fisica, morale, e ascetica, indi anche scientifica.
L'avvenire doveva chiarirgli quello che allora egli non capiva.
L'esecuzione del mandato importava un faticoso
lavoro, attraverso difficoltà e contraddizioni e in una larga opera
d'istruzione e di educazione; necessitavano perciò buona salute, tempra
d'animo, buona cultura. Sarebbe stato così fornito di quelle attitudini
naturali, che Dio vuole sempre in una sua creatura destinata a una
missione straordinaria, come indispensabile al compimento della missione
stessa. Ma non gli sarebbe bastato affidarsi a' suoi sforzi umani né alle
virtù naturali: in questo modo avrebbe prodotto solo risultati naturali,
che non rispondevano ai disegni del cielo. Ci voleva insieme e soprattutto
il potente aiuto della grazia divina, la quale non viene concessa se non
agli umili di cuore. «L'umiltà, insegna S. Tommaso, è una disposizione
che facilita all'anima l'acquisto dei beni spirituali e divini».
Con l'umiltà di tutta la vita Gesù trionfò del
mondo; non altrimenti avrebbe Don Bosco trionfato degli infiniti ostacoli
sollevatigli contro dai nemici del bene, conducendo a felice termine il
grande compito assegnatogli da Dio. E bisogna convenire che la Provvidenza
gli procacciò le occasioni per ben fondarsi nell'umiltà: umili natali,
umile stato di biennale servitù in casa d'altri, umile condizione servile
dai sedici ai ventun anni.
Così il suo spirito, che si sentiva fatto per cose
grandi e portato ad alta estimazione di sé, si andò macerando allungo e
avvezzandosi a non ricusarsi mai a nulla anche di più umiliante, ogni
volta che poi lo esigesse la gloria di Dio e il bene del prossimo, senza
mai considerarsi più che un povero strumento nelle mani del Signore.
L'umiltà diventò il segreto della sua unione intima con Dio, dalla
quale, come da fonte, scaturì l'azione esteriore. Così è di ogni vero
apostolo.
Non è un particolare trascurabile il fatto, che
gl'impartì questa lezione la Madre di Dio. L'apostolato di Don Bosco
presenta una spiccata impronta mariana, che ne forma un carattere
distintivo. Maria Ausiliatrice e Don Bosco potrebbe essere titolo d'un
magnifico poema. Don Bosco non è nulla, ripeterà egli fino all'ultimo
respiro; chi fa tutto è la Madonna.
Ogni apostolato ha un oggetto proprio e preciso. Come
tutti i Santi, Don Bosco praticò la carità universale, secondo le
circostanze. «Far del bene a tutti, del male a nessuno», fu una sua
massima ripetuta ancora poco prima di morire.
Nel campo della carità, vasto quanto la vastità dei
bisogni umani, una porzione speciale toccò a lui in sorte, l'educazione
cristiana dei figli del popolo. Accintosi a tale opera, creò due famiglie
religiose, informandole del suo spirito. Quale spirito? Lasciati da parte
elementi comuni, mi fermo a tre soli accennati sopra, che si possono dire
particolari e caratteristici: spirito di carità operosa, di carità
gioconda, di carità indipendente.
Il primo elemento è l’operosità, o se si vuole,
la laboriosità. Sarebbe difficile trovare un altro Santo che, nella
misura di Don Bosco, abbia coniugato e fatto coniugare il verbo lavorare.
Per Pio XI la sua fu «una vita di lavoro colossale».
Questo aspetto della vita di Don Bosco viene
delineato, come non si potrebbe meglio, dal Servo di Dio Don Leonardo
Murialdo nella testimonianza seguente: «A me non constano di Don Bosco né
prolungate orazioni né penitenze straordinarie; ma mi consta il lavoro
indefesso, incessante per lunga seria di anni in opere di gloria di Dio,
con fatiche non interrotte, fra croci e contraddizioni d'ogni fatta, con
calma e tranquillità al tutto unica e con un risultato per la gloria di
Dio e il bene delle anime al tutto straordinario».
Sul lavoro Don Bosco aveva una dottrina propria sia
per sé e per i suoi sia circa il modo. Per conto suo, e lo scrisse fra i
propositi in occasione del presbiterato, riguardava il lavoro come un'arma
contro i nemici dell'anima. Non intendeva però di un lavoro qualunque.
Secondo lui, il prete ha l'obbligo di lavorare e lavorare tanto, che, se
anche vi lascia la vita, non fa più del suo puro dovere. Questo
l'obiettivo, questa la gloria dei preti: non stancarsi mai di lavorare per
la salute delle anime.
Sentendosi poi chiamato a opere di larga portata,
riteneva che senza grandi fatiche non sia mai possibile arrivare a grandi
cose. Persuaso inoltre che il mondo odierno vuol veder i preti a lavorare
e sperimentando quanto anche i nemici della Chiesa apprezzino nel clero
chi lavora, pensava che oggi non basti più pregare, ma che, non
dimenticando mai la preghiera, bisogna operare, intensamente operare.
Movendo da tali principi, non fa meraviglia che
impiegasse tutte le sue forze a lavorare per la gloria di Dio e la salute
delle anime, e che, consigliato a prendersi un po' di riposo, rispondesse
piacevolmente: - Mi riposerò quando sarò qualche chilometro sopra la
luna. La sua salda costituzione fisica gli avrebbe permesso di vivere
anche fin oltre novant'anni; invece si consumò letteralmente si consumò
in un improbo lavoro diurno e notturno. Onde si può ben credere quanto
sia vero che settantenne, al dire di testimoni, soffriva pensando al gran
lavoro che prima poteva fare, mentre allora non gli bastavano più né le
forze né la vista per una centesima parte.
Il medesimo spirito di laboriosità volle veder
fiorire nella Congregazione Salesiana. Già, lo diceva apertamente a
coloro che domandavano di entrarvi: - Lo spirito della Congregazione è
questo, che niuno vi entri sperando di starvi con le mani sui fianchi.
Un'esperienza fatta nei primordi della Società lo incoraggiava a far
lavorare senza tregua.
Allora, non potendosi parlare liberamente di vita
religiosa, perché idee ostili dominavano un po' dappertutto nel popolo, e
avendo necessità di prepararvi coloro che fra i giovani chierici
dell'Oratorio vi stimava adatti, non esigeva molto in materia di pratiche
religiose, ma faceva lavorare a più non posso. Orbene, che avvenne?
Chierici anche divagati, che, assoggettati a regole restrittive, sarebbero
andati via, lavoravano di buona voglia e molto sotto la sua vigile
direzione, e appresso, cambiate le circostanze, diventarono preti
salesiani di ottimo spirito.
In seguito, rassodate le cose, ebbe agio di fare
un'altra esperienza, essere cioè la poca volontà di lavorare una delle
cause che allontanano dalla vita religiosa, mentre il lavoro continuato,
oltreché a svegliare molteplici forme di attività che senza quello
sarebbero rimaste latenti, serve a conservare le vocazioni. In questo suo
modo di vedere lo confermò la parola di Pio IX. Il grande Pontefice due
volte gli aveva manifestato in proposito un pensiero conforme al suo.
Nel 1869 gli aveva detto stimar egli in condizione
migliore una Congregazione, dove si preghi poco e si lavori molto, che non
un'altra, nella quale si facciano molte preghiere e poco lavoro. Perciò
nel 1874 lo autorizzò ad affidare ai novizi occupazioni volute dalle
Regole dopo la professione. Occupateli a lavorare, a lavorare! gli disse
il Papa.
Ciò posto, veniva da sé che non risparmiasse il
lavoro a' suoi. Raccomandava bensì la cura della sanità, ma per poter
lavorare molto. Il suo esempio e la sua parola erano stimoli potenti ed
efficacissimi. Con palese soddisfazione rilevava come tutti quelli che
crescevano nella Società, acquistavano un amore, anzi un ardore tale per
il lavoro, che non gli pareva potersi da altri superare. Finché dura
questo gran lavoro, diceva, si andrà avanti a gonfie vele.
Dinanzi a siffatte disposizioni d'animo potè
permettersi più volte affermazioni come questa: - Quando avverrà che un
Salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte
che la nostra Congregazione ha riportato un grande trionfo, e sopra di
essa scenderanno copiose le benedizioni del cielo. E simili casi si
avveravano, specialmente nelle Missioni. Onde il Santo nella sua prima
relazione triennale del 1879 sullo stato della Società alla Santa Sede
non si peritava di scrivere: «Il lavoro supera le forze e il numero degli
individui, ma niuno si sgomenta, e pare che la fatica sia un secondo
nutrimento dopo l'alimento materiale».
Ma altro è lavorare molto, altro lavorare bene. Chi
non sa che l'apostolato, mentre può e dev'essere mezzo di santificazione,
diventa invece, per chi si lascia sopraffare dall'attività esteriore, una
causa di snervamento spirituale? Don Bosco non aveva bisogno di chi gli
segnalasse un pericolo così evidente. A cominciare da lui, possiamo
appellarci al giudizio di un Papa come Pio XI, conoscitore degli uomini e
buon conoscitore di Don Bosco.
Nel discorso del 19 novembre 1933 per l'approvazione
dei miracoli, disse: «Vien proprio fatto di domandarsi quale Fosse il
segreto di tutto questo miracolo di lavoro. E proprio il Beato ce l’ha
data la spiegazione, la chiave vera di questo magnifico mistero: ce l'ha
data in quella sua perenne aspirazione, anzi continua preghiera a Dio;
poiché incessante fu la sua intima conversazione con Dio e raramente si
è come in lui avverata la massima qui laborat, orat, identificava
appunto il lavoro, con la preghiera».
Quanto agli altri, non si contentava che lavorassero
molto, ma insegnava loro a lavorare spiritualmente, ossia con fede,
speranza e carità. Con fede mirando a fare in tutto e sempre la volontà
di Dio senza mai cercare le lodi degli uomini; con speranza, aspirando
alle celesti ricompense delle fatiche sostenute quaggiù e non alle misere
soddisfazioni terrene; con carità verso Dio, offrendo ogni fatica a Lui,
che solo è degno di essere amato e servito, e con carità verso il
prossimo, cercando esclusivamente, mediante la dolcezza di san Francesco
di Sales e la pazienza di Giobbe, il bene delle anime.
Temeva, temeva assai che l'efficacia e il merito del
lavoro andassero in fumo per l'infiltrarsi della volontà propria, che
bisognava invece vincere e rinnegare, considerando lavoro da cristiano e
da religioso anzitutto l'adempimento dei doveri del proprio stato,
piacessero o no all'amor proprio. Dopo una voce venutagli dal cielo nel
1876, ripeteva con frequenza: - Lavoro e temperanza faranno fiorire la
Congregazione Salesiana. Sono due armi con cui noi riusciremo a vincere
tutti, e tutto. Con la temperanza una seconda virtù giudicava
indispensabile che si accompagnasse al lavoro. Per sollevare gli spiriti
amava in certe occasioni rappresentare il bene straordinario che la
Congregazione era chiamata a compiere nel mondo, e lo faceva con sì vivi
colori come se le cose già fossero; ma alla fine metteva in guardia
contro qualsiasi presunzione, raccomandando di unire al lavoro e alla
temperanza anche l'umiltà. Insomma, si deve dire che fu ben ispirato quel
Capitolo Generale della Società, che nel Regolamento per le Case di
Noviziato fece un dovere ai Maestri dei Novizi d'instillare nei loro
alunni «quella operosità instancabile santificata dalla preghiera e
dall'unione con Dio, che dev'essere la caratteristica dei figli di Don
Bosco».
Non mi indugio a misurare il campo della operosa
carità di Don Bosco verso il prossimo, segnatamente a vantaggio dei figli
del popolo. Per questo rimando ai quattro capi, dove si tratta di Don
Bosco confessore, predicatore, scrittore, educatore. Là si vede come la
sua laboriosità senza pari fosse accoppiata sempre a un'interiorità
perfetta, facendo di lui un Santo al tutto singolare.
Operoso, operosissimo il suo apostolato di carità,
ma di una carità gioconda. L'Epistola della Messa di S. Giovanni Bosco,
tolta da S. Paolo, incomincia con le parole: State allegri sempre nel
Signore; lo dico per la seconda volta, state allegri. L’allegria
albergava in lui ed emanava da lui. Quanti motivi ebbe di attristarsi,
dalla fanciullezza alla vecchiaia! Eppure le testimonianze di coloro che
meglio furono in grado di conoscerlo, sono tutte concordi nell'asserire
che la giovialità fu il carattere di tutta la sua vita. Chi avrebbe detto
che era assillato di mille cure, quando dava ai giovani quelle "buone
notti" scoppiettanti del più amabile buon umore o quando scendeva in
cortile e calmo e sorridente dispensava motti di spirito, che destavano
l'ilarità e facevano tanto bene a chi erano indirizzati?
Esistono sue lettere, scritte sotto l'incubo di dure
fatiche e di gravi fastidi, eppure infiorate di arguzie, che però avevano
lo scopo di arrivare per tal modo al cuore altrui e deporvi il germe di
qualche buon sentimento. Il suo esempio influiva talmente su quanti ebbero
la sorte di convivere con lui, che essi stessi senz'accorgersene si
sentivano inclinati per costante abitudine a pigliare le cose contrarie al
proprio gusto con invidiabile serenità d'animo ed anche con disinvolto
sorriso. Dal cuore ricolmo del divino amore proveniva in Don Bosco il
perenne gaudio spirituale che, unito a perfetto dominio di sé, lo rendeva
sereno nelle vicende della vita e apportatore di serenità ai suoi figli
piccoli e grandi.
Non posso passare qui sotto silenzio due cose, sulle
quali influì questo suo fondo di gioconda carità. La prima riguarda la
pietà dei giovani e più precisamente la frequente comunione.
Nulla ripugnava tanto alla sua maniera di pensare
sulla bontà del Signore quanto gl'ingombranti residui di severità
giansenistica che sopravvivevano ancora qua e là in Piemonte, aduggiando
le anime specialmente nella pratica dei sacramenti. Don Bosco si accinse
con coraggio a farli dileguare col promuovere fra i giovani la cordiale
partecipazione alla mensa eucaristica. Forte del genuino insegnamento
della Chiesa, si spinse più in là dello stesso san Francesco di Sales,
generalizzando l'uso della comunione non solo settimanale, ma quotidiana.
Non si era mai visto alcun che di simile.
Sono spiegabili quindi le osservazioni in contrario e
a volte anche le fiere rimostranze. Cadevan proprio dalle nuvole certuni,
vedendo nell'Oratorio alla Messa della comunità le processioni di
ragazzi, che ogni giorno si affollavano alla balaustra. Ma egli lasciava
dire, e il suo esempio a poco a poco s'impose e la pratica si fece strada,
finché il santo Pontefice Pio X troncò per sempre la questione, emanando
il celebre decreto, che segnò il trionfo dell'ascetica sacramentale di
san Giovanni Bosco e usando perfino sue stesse parole.
L'altro benefico effetto della sua gioconda carità
è la forma da lui impressa al sistema preventivo nell'educazione della
gioventù. Le sobrie, ma sapienti e feconde norme ch'ei dettò, sono la
consacrazione della lieta cordialità in un'opera delle più delicate che
si possano intraprendere a vantaggio della tenera età. Egli che fanciullo
si sentiva già stimolato a farla da apostolo in mezzo a' suoi piccoli
coetanei ed a' suoi stessi compaesani più grandi, valendosi dell'abilità
di giocoliere acquistatasi proprio a tale scopo; egli che adolescente
esercitò l'apostolato fra i condiscepoli, organizzando un'associazione
intitolata dell'allegria; egli che, giovane prete, all'inizio della sua
missione si attirava i birichini torinesi facendosi lietamente piccolo coi
piccoli e nei primordi dell'Oratorio escogitava i mezzi più geniali per
riempire di gioia la casa: quando prese la penna e mise in termini precisi
le norme che dovevano regolare l’educazione giovanile così com'era da
lui concepita, fece della carità gioconda una conditio sine qua non per
tutto il suo metodo educativo, che si riduce in ultima analisi al più bel
servite Domino in laetitia.
L'ho detto apostolo di una carità indipendente,
superiore cioè a giudizi e pregiudizi: giudizi di coloro, a cui benefico
la esercitava, e di quegli altri che o lo mordevano con le loro critiche o
gli tributavano grandi lodi; pregiudizi di chi per malintesi frapponeva
ostacoli al suo zelo, e di chi per malanimo combatteva le sue istituzioni
e le avrebbe perfino volute distruggere.
Anzitutto, la carità che gli ardeva in petto, lo
faceva essere ministro di Dio con ogni genere di persone. Con chiunque
aveva da trattare, non appena intuiti i suoi sentimenti nei riguardi della
religione, trovava la maniera d'invitarlo a pensare all'anima. La carità
che ve lo muoveva, gli comunicava una singolare franchezza apostolica la
quale, congiunta con la più schietta semplicità, non mancava di far
breccia. In questi casi non sapeva che cosa fosse quel rispetto umano, che
trattiene a volte i sacerdoti dal toccare certi tasti.
Conscio di rendere così il miglior servigio che si
possa aspettare da un prete, non badava alle prime impressioni prodotte o
producibili dalle sue parole in chi gli stava dinanzi. Erano spesso nobili
scienziati, professionisti, uomini politici, personaggi potenti, noti per
le loro idee contrarie alla Chiesa, che quindi a tutta prima avrebbero
facilmente arricciato il naso; ma egli senza preoccuparsene condiva la sua
libertà con tale gentilezza di modi, con tali espressioni di stima,
riverenza e affetto e opportunamente anche con inaspettate e urbane
facezie, che non consta di un caso solo, in cui alcuno se la sia avuta a
male.
Quanti gustosi episodi si narrano a questo proposito!
Biasimi e poi lodi gli fioccarono da ogni parte e in
ogni tempo; centinaia di volte la stampa si occupò della sua persona prò
o contro. La sua carità non si sgomentava dei primi, e nelle seconde
ravvisava al più un valore di propaganda per le sue opere di bene. Quale
fosse intorno a ciò il suo intimo sentimento, lo diede a vedere
abbastanza in un articolo che si leggeva già nell'antico Regolamento
delle Case Salesiane e che fu mantenuto nella prima edizione del 1877 e
nelle successive.
In quell'articolo Don Bosco dice ai giovani che si
avvezzino ad accogliere con indifferenza il biasimo e la lode. Non è
davvero esiger poco a quell'età! Per parte sua, quando gli si parlava di
lodi o di biasimi a lui rivolti, soleva ripetere che chi lo lodava, diceva
quello che egli sarebbe dovuto essere, e chi lo biasimava, diceva quello
che era. Più comunemente due cose gli rinfacciavano i suoi critici, che
permettesse tanta pubblicità intorno alla sua persona e alle sue opere e
che si familiarizzasse troppo con gente avversa alla Chiesa.
Ma nella pubblicità egli vedeva soltanto un mezzo
per far conoscere e sostenere le sue istituzioni, nel che ebbe il merito
di capire i tempi: a poco a poco la cosa acquistò sì gran voga, che
perfino suoi censori vi si appigliarono, se vollero riuscire in qualche
loro buona impresa.
Della seconda accusa gli tornava facile scagionarsi:
non trovava infatti che fosse male avvicinare tutti per fare a tutti del
bene e, trattandosi di autorità costituite, rispettarle e dare a Cesare
quel che è di Cesare, per ottenere che non si neghi a Dio quel che è di
Dio. Del resto non corteggiava nessuno: fossero deputati, senatori o
ministri, si diportava cortesemente, ma francamente e da prete con ognuno,
senza omettere al solito di dire verità che non avrebbero mai sentite da
altri.
La sua carità si mantenne pure indipendente da
altrui pregiudizi, si svolse cioè eludendo saviamente ogni azione
deleteria, che avrebbe potuto da questo lato intralciare il corso
provvidenziale. I pregiudizi a lui sfavorevoli ebbero un triplice
carattere: ecclesiastico, religioso e politico.
L'Opera di Don Bosco si affacciava al mondo con
elementi nuovi, che non sembravano conciliabili con venerande tradizioni.
Oggi novità importate da lui sono entrate nella vita della Chiesa; ma i
precursori non trovano facile adito dappertutto presso gli uomini del
passato: donde riserve, diffidenze, opposizioni. In questo campo le
difficoltà insorsero talvolta sì gravi e prolungate da poter scoraggiare
chi non avesse avuto la coscienza di una missione superiore. Egli tuttavia
non si smarrì né cambiò rotta: pazientò, si umiliò, parlò, scrisse,
finché verso la fine de' suoi giorni provò il conforto di vedersi
universalmente compreso, approvato e benedetto.
Per i pregiudizi della seconda specie intendo le
false idee dei tempi circa lo stato religioso. Il Governo sopprimeva i
conventi e ne disperdeva gli abitatori. Continuamente la stampa nei
giornali, nei libri, nel teatro li denigrava e copriva di dileggi. Anche
famiglie cristiane ne subivano l'influsso, non guardando con simpatia i
religiosi. Non sempre il clero secolare li teneva in pregio. Religioso
voleva dire frate, e frate allora passava per sinonimo di uomo da poco e
fannullone. I ragazzi ridevano volentieri dietro le cocolle, quando rare
ne comparivano. Eppure Don Bosco mirava proprio a fondare una nuova
Congregazione religiosa. Avrebbero avuto un bel dire che la sua era
diversa dalle altre: nemmeno i giovani dell'Oratorio gli avrebbero dato
ascolto, e gli avrebbero risposto che preti sì, ma frati non volevano
essere. S'immagini dunque com'egli, dovendo attaccarsi proprio ad essi e
venirseli preparando, avesse bisogno di andar cauto per non urtare i
comuni pregiudizi e non sciupare le uova nel paniere! La bontà, la
pazienza e la sagacia gli diedero finalmente causa vinta. Solo una carità
lungimirante potè sostenerlo nell'ardua impresa.
Veniva infine la pregiudiziale politica. Il sorgere
della Società coincise col periodo delle guerre per l'indipendenza e
l'unità d'Italia. Idee punto ortodosse di riforma, di progresso e di
libertà, fermentate sotto il Pontificato di Gregorio XVI, esplosero
all'avvento di Pio IX. Deliranti manifestazioni popolari suscitavano
smanie di cose nuove anche in membri del clero secolare e regolare, che o
per insofferenza di disciplina o perché esaltati dalla lettura dei libri
giobertiani o perché illusi dalla propria ingenuità, si abbandonavano
alla corrente. Se tutto fosse stato patriottismo puro, meno male; ma c'era
chi pescava nel torbido o tirava l'acqua al suo mulino, ed erano settari,
nemici di Dio e della Chiesa. Troppi dei buoni o di corta vista non
vedevano o allucinati pigliavano lucciole per lanterne.
Si fece di tutto per trascinare anche Don Bosco nel
mare magno della politica; ma il suo animo profondamente sacerdotale gli
indicò la vera linea di condotta: niente politica che divide, sempre e in
tutto la carità che unisce. Ebbe molto a soffrire allora e in conseguenza
anche dopo. Egli tuttavia non piegò. Prudente, calmo, rispettoso, badava
a raccogliere fanciulli abbandonati per farne buoni cittadini e buoni
cristiani, e si studiava intanto di preservare dalle comuni aberrazioni il
crescente stuolo dei giovani, che destinava tacitamente a essere le pietre
fondamentali del costruendo edificio.
L'esperienza di quell'agitato periodo gli fu maestra
nel periodo successivo, quando veniva rassodando la Società Salesiana. Di
fronte al nuovo Stato si prefisse, e ne ebbe lode da Pio IX, di far
conoscere che, rispettando le leggi della carità, si può dare a Cesare
quel che è di Cesare senza mai compromettere nulla e nessuno e senza
essere mai distolto dal dare a Dio quel che è di Dio. Egli considerava
questo come il massimo problema dei cattolici in quei tempi.
Nella pratica incontrò serie difficoltà, che
cercava di risolvere per le vie della carità evangelica. Nei nemici della
Chiesa l'arte purtroppo era raffinata e i loro mezzi immensi; Don Bosco
tuttavia, mantenendosi nella legalità e accaparrandosi con la carità il
favore personale degli uomini che sedevano al potere, pur attraverso a
sacrifici d'ogni maniera, eresse il suo edificio su basi solide, tanto
solide che, se altri vollero ridar vita ad antiche istituzioni, non
isdegnarono di seguire il suo esempio.
Il Papa della canonizzazione alludeva all'insieme di
tante contrarietà, che attraversarono al Santo il cammino e dalle quali
egli col divino aiuto si affrancò, quando nell'omelia del gran giorno
diceva: «Dedito interamente alla gloria di Dio e alla salute delle anime,
egli non si arrestò davanti all'altrui diffidenza; ma con arditezza di
concetti e con modernità di mezzi si accinse all'attuazione di quei
nuovissimi propositi che, per quanto sembrassero temerari, egli, per
superiore illustrazione, conosceva essere conformi alla volontà di Dio».
E più innanzi: «Davanti alle difficoltà di ogni genere, davanti alle
irrisioni e agli scherni di molti, egli, sollevando i suoi occhi luminosi
verso il cielo, era solito esclamare: - Miei fratelli, questa è opera di
Dio, è volontà del Signore: il Signore è quindi obbligato a dare gli
aiuti necessari. Gli avvenimenti mostravano la verità delle sue parole,
tanto che gli scherni si cambiarono in ammirazione universale».
Si avverò così per lui quello che scrive l'Apostolo
della carità: Perfecta caritas foras mittit timorem. Lo stragrande amor
di Dio e del prossimo lo rese tetragono a tutto, e così raggiunse il fine
della sua missione.
Qui il pensiero torna spontaneo alla bella Messa
approvata dalla Chiesa per S. Giovanni Bosco. Si apre essa con le parole,
che la Scrittura dice di Salomone e che Pio XI fece sue varie volte in
discorsi su Don Bosco: Insieme con sapienza e prudenza straordinaria Dio
gli diede larghezza di cuore immensurabile com'è l'arena che sta sul lido
del mare. Ben si addiceva a chi, e lo suggerisce la Messa medesima, doveva
diventare pater multarum gentium.
CAPO XVI. - Il dono del consiglio.
La luce spirituale di Don Bosco ebbe i massimi
fulgori verso il tramonto dell'età, quando, consolidate le sue opere e
giunti alla loro maturità i discepoli formatisi alla sua scuola, il
debilitarsi della fibra più non consentiva che egli si mescolasse al
ritmo della vita quotidiana. Allora i carismi straordinari, che, a dir
vero, fin dai nove anni non avevano cessato di mandare sprazzi luminosi,
rifulsero in lui più vividi e frequenti, sicché da ultimo il
soprannaturale quasi ne avvolgeva l'esistenza.
Dio sa con quale trepida apprensione mi sono
accostato all'anima di Don Bosco nelle parti precedenti del nostro studio;
ora poi, non volendo omettere qui sull'ultimo di trattare di doni
carismatici, la trepidanza si cambia in sacro terrore, quale di chi si
appressava all'arca del testamento. La teologia mistica non è detta il «piano
nobile» della scienza sacra? E che dire delle esperienze mistiche, non
esposte in trattati, ma vissute in atto?
Il celebre apologista francese Augusto Nicolas, uomo
venerando per canizie, dottrina e santità di vita, recatosi a visitare
Don Bosco pochi anni prima che il Servo di Dio abbandonasse la terra, gli
si pose davanti in ginocchio e là volle stare con le mani giunte durante
tutto il colloquio, religiosamente cogliendo dalle sue labbra le sante
parole, quasi suono mortale dell'immortale Verbo divino. Ecco il migliore
atteggiamento che si convenga nel cospetto di tanta grandezza.
Dio con Don Bosco ha veramente largheggiato a
dismisura nelle sue grazie, per farsene strumento a' suoi disegni
provvidenziali. È infatti nell'ordine della Provvidenza che Dio,
scegliendo una creatura per un ufficio determinato, la disponga prima e la
prepari a compiere bene la missione destinatale.
Ora, fra le grazie speciali, di cui il Signore volle
arricchire Don Bosco, bisogna mettere il dono del consiglio, che ne
illuminò la vita intera, associato quasi per concomitanza ad altri
insigni privilegi da non doversi né trascurare né toccare
superficialmente.
Mediante il dono del consiglio lo Spirito Santo
perfeziona nell'anima fedele la naturale virtù della prudenza, dandole un
intuito soprannaturale, per cui essa pronto e sicuro si forma il giudizio
su ciò che è da fare, massime nei casi difficili. Questo carisma ha
dunque per oggetto la buona direzione delle azioni particolari nostre o
altrui, secondo il variare di tempi, di luoghi e d'individuali
circostanze. Applicando in concreto a Don Bosco quello che dottrinalmente
insegna un gran Vescovo, diremo che con un tal dono il nostro buon Padre
possedette sempre il sicuro discernimento de' suoi mezzi, vedendo ognora
netta la propria via e percorrendola intrepido, per ardua e arida e
ripugnante che troppe volte la gli si parasse dinanzi, e sapendo in ogni
tempo aspettare il momento propizio.
Chi ci ha seguiti fino a questo punto, non cercherà
ulteriori prove di tale asserto; non c'è quasi pagina qui sopra, che non
dimostri com'egli abbia veduto chiaro, chiarissimo in tutte le cose
concernenti il governo di se stesso. Sarebbe quindi un bis in idem
l’indugiarvici ancora; studiamone piuttosto la chiaroveggenza nel
governo degli altri.
Che Don Bosco fosse un uomo di consiglio, non per
innata virtù d'ingegno e per mero effetto di umana prudenza, ma in grazia
di lumi superiori, era convinzione così universalmente diffusa e
radicata, che da tutte le parti si scriveva o si veniva a lui per averne
la parola illuminata.
Persone innumerevoli, anche di grande affare,
ricorrevano a Don Bosco per lettera su cose di coscienza e di vita
spirituale o su faccende di altro genere. Dei tantissimi documenti della
prima specie pochi ci rimangono, perché le missive, data la natura del
contenuto, venivano ordinariamente da lui distrutte; ma abbondano negli
archivi richieste di consigli su cose di famiglia, su l'opportunità di
trasferimenti o d'impieghi o di professioni o d'imprestiti, su
composizioni di liti, sul modo di regolare la propria casa o di educare un
figlio, sulla scelta dello stato, insomma su dubbiezze e necessità senza
numero, tanta era la fiducia generalmente riposta nella sovrumana saggezza
de' suoi suggerimenti.
Lo stesso Papa Pio IX pensò a Don Bosco e a' suoi
lumi superiori in un'ora trepida, allorché dopo la presa di Roma la sua
mente ondeggiava fra il restarvi e il partirsene. Consigli per il secondo
partito premevano da più lati sull'animo del Pontefice: il Papa, benché
esitante, dava prudenti disposizioni per il viaggio; ma alle istanze perché
rompesse gl'indugi, rispondeva d'aver chiesto consiglio a Don Bosco e di
essere deciso a seguirlo, qualunque fosse. Il Servo di Dio, dopo aver
pregato a lungo, inviò per mano sicura la risposta in questi termini: «La
sentinella, l'Angelo d'Israele si fermi al suo posto e stia a guardia
della rocca di Dio e dell'arca santa». Nella parola di Don Bosco il Papa
intese la voce di Dio, e si confermò nel pensiero di non allontanarsi.
Chi poteva, si recava da Don Bosco personalmente. Per
questo l'immane fatica delle udienze fu cosa che passa ogni immaginazione.
Il padre Giuseppe Oreglia, gesuita, asseriva che, anche senz'altre
penitenze, questa sola basterebbe a dimostrare il carattere eroico della
sua virtù. La gente lo assediava in casa e per le vie, in città e fuori,
né si conosceva in ciò discrezione o misura. Persone d'ogni classe
sociale e d'ogni grado si succedevano a consultarlo; ecclesiastici e
laici, principi e gente del popolo, ricchi e poveri, amici ed estranei,
dotti e ignoranti, buoni e cattivi ne affollavano le anticamere; molto
spesso chiedevano di parlargli superiori d'ordini o di comunità
religiose, direttori di monasteri, suore d'ogni colore.
Don Bosco, a guisa di chi disimpegna un ufficio, a
cui sia tenuto indistintamente verso tutti, non guardava in faccia a
nessuno: chiunque si presentasse, lo trattava come se glielo mandasse Dio,
usando sempre maniere dolci e soavi. Ascoltava senza interrompere,
interessandosi di quanto gli si esponeva, anche se fossero le lungaggini
inconcludenti di poveri scrupolosi; qualora, mentr'egli parlava,
l'interlocutore gli troncasse il discorso, taceva all'istante; poi, quasi
non avesse altro pensiero al mondo, non era mai il primo a finire il
colloquio, né dava segno di volerlo abbreviare, sebbene gli toccasse dire
e ridire, perché altri la durava imperterrito a ripetere le medesime
cose.
A Marsiglia, mentre stava ragionando con una madre
che non se n'andava mai, avvisato per la terza volta che molti
aspettavano, disse all'avvisatore in un orecchio: «Le cose bisogna farle
come si conviene o non farle. Qui non si perde il tempo. Appena si possa,
lasceremo entrare altri».
All'Oratorio, in quella sua cameretta, scrive un
testimonio, «aleggiava una pace di paradiso». Ma poiché quell'aura
celestiale emanava dalla persona di Don Bosco e non dalle pareti della
stanza, così anche fuori, nelle visite o nei viaggi, era sempre
ricercato; dovunque s'intrattenesse, gli si formava tosto intorno
un'atmosfera di serena e fiduciosa aspettazione, sicché le sue parole vi
cadevano come oracoli, come panacee, come mistiche faville, a seconda dei
casi.
Lo spirito del Signore, che parlava per bocca di Don
Bosco, manifestavasi pure nella libertà mirabile, con cui, chiesti o non
chiesti, egli largiva i salutari suoi consigli a persone d'ogni fatta,
fossero povere o ricche, ignoranti o dotte, umili o altolocate. Sempre
ispirandosi al Seminator casti consilii, gettava senza rispetti umani
nelle anime germi fecondi di sani e santi pensieri.
Che lo spirito del Signore fosse sulle labbra di Don
Bosco nel consigliare, ce lo dice inoltre la facilità sua in dare i
consigli e in darli aggiustatissimi e di un'efficacia irresistibile, anche
se talora sapessero di amaro. Sono cose, delle quali nell'Oratorio fecero
quotidiana esperienza preti, chierici e alunni, avvicinandolo in cortile,
in camera e in confessionale.
I consigli del cortile si chiamavano parole
all'orecchio. Don Bosco, fintanto che potè, partecipò alle ricreazioni
dei giovani e quando non potè più fermarsi a lungo con essi, faceva
qualche comparsa, offrendogli quel tempo occasioni propizie per conoscere
i suoi figlioli e dir loro individualmente paroline opportune. Al qual
proposito inserì nel regolamento delle sue case quest'articolo: «Ricordate
l'esempio dei pulcini. Quelli che si avvicinano di più alla chioccia, per
lo più ricevono da essa qualche bocconcino speciale. Così coloro che
sogliono avvicinare i superiori, hanno sempre qualche avviso o consiglio
particolare».
Negli anni estremi, non potendo far di meglio,
allorché, percorso il ballatoio, giungeva alla soglia del suo
appartamento, non entrava subito, ma, voltasi ai giovani che dal cortile
acclamando ne avevano seguito con amorosi sguardi i passi lenti e
stentati, lasciava cadere di lassù una parola buona, accolta con avida
attenzione e salutata da lieto battimano. In altri tempi, quante di tali
parole aveva sussurrate ai singoli, secondo il bisogno di ciascuno!
L'educatore che stia sempre sull’ammonire, passa facilmente per
sospettoso agli occhi degli educandi, che lo prendono in uggia e,
vedendolo comparire, cercano di scansarlo. Invece i giovani dell'Oratorio
amavano le parole all'orecchio e le chiedevano a Don Bosco. Avverte la
Scrittura: La riprensione fatta all'orecchio docile, è orecchino d'oro
con perla rilucente.
La cosa avveniva così. Posata una mano sul capo
dell'alunno e curvatosi al suo orecchio, Don Bosco gli parlava in segreto,
parandosi con l'altra mano la bocca, perché nessuno sentisse. Era
questione di pochi secondi; ma che effetti magici! Bastava osservare i
mutamenti delle fisionomie o le mosse: un sorridere di scatto, un farsi
serio, un arrossire, un lacrimare, un risponder si o no, un rifare il
gesto di Don Bosco parlando all'orecchio di lui e riudendone la parola
nello stesso modo, un gridar grazie e correr a giocare, un avviarsi alla
chiesa. Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane, udita la parola
di Don Bosco, non gli si staccava più dal fianco, assorto quasi in
un'idea luminosa. Altri effetti si scorgevano più tardi: accostarsi ai
sacramenti, star più raccolti nelle preghiere, maggior diligenza nei
doveri scolastici, maggiore urbanità, e carità verso i compagni.
Riferisce lo storico che parecchi, dei quali potrebbe
fare i nomi, vennero portati per si semplici mezzi a tale fervore di pietà
da abbandonarsi a penitenze straordinarie, sicché Don Bosco li doveva
frenare; e che altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando
leggermente ogni tanto, finché non venisse loro aperto, perché non
volevano andar a dormire col peccato nell'anima.
Di parole all'orecchio il biografo ci presenta un bel
florilegio; ma sono fiori d'erbario. Manca la vivezza dell'espressione,
che veniva dall'accento, dallo sguardo, dal sorriso o dalla gravità di
colui che le pronunciava; manca la freschezza dell'attualità, derivante
dalle condizioni psicologiche di colui che le udiva. La figura di Don
Bosco in mezzo ai giovani balza fuori da queste righe scultorie d'un
testimonio: «Mi sembra ancora di vederlo a sorridermi, di udire le dolci
sue parole, di ammirare quel suo amabile volto, nel quale era chiaramente
stampata la bellezza dell'anima sua».
I consigli che Don Bosco dava in camera caritatis, se
fossero raccolti nella loro genuina semplicità, quale si ravvisa nei
pochi saggi rimasti e si arguisce da apprezzamenti generici di testimoni,
formerebbero un bel codice di cristiana sapienza. Chi li riceveva però,
ne decantava ben volentieri il valore, ma se li teneva per lo più
gelosamente in serbo.
Vive sempre nella memoria dello scrivente il ricordo
del suo primo incontro con Don Bosco fra quelle benedette pareti: il punto
culminante fu quando si sentì regalare dal buon Padre un aureo consiglio
di vita spirituale, espresso con parole molto semplici, ma precise e dette
là all'improvviso e proferite in tono non si saprebbe se più autorevole
o paterno, talché dentro ne risuona tuttora l'accento.
In quella grand'arca di Noè che era l'Oratorio, a
nessuno, fosse pure il più umile sguattero, s'interdiceva l'accesso alla
camera di Don Bosco, nessuno si metteva in apprensione salendo a lui;
tutti poi indistintamente venivano accolti con il medesimo cerimoniale, già
accennato precedentemente. Sedeva Don Bosco a un modesto scrittoio, sul
quale stavano affastellate lettere e carte, accresciute non di rado
durante il colloquio dal sopraggiungere di nuova corrispondenza. Egli,
senza darsene pensiero, metteva là ogni cosa, badando solo a chi aveva
fatto sedere poco lungi da sé, come se non ci fossero altri da udire o da
contentare, come se tutto il suo da fare stesse lì. Naturalmente si
usciva di là illuminati, incoraggiati, contenti.
Il successore del teologo Murialdo nella direzione
degli Artigianelli è stato ben felice nel ritrarre la sorte di coloro che
dimoravano presso quel vero sacrario, donde s'irradiava tanta luce di
consiglio. Ha detto: "Voi avete una gran fortuna in casa vostra, che
nessun altro ha in Torino e che neppure hanno le altre comunità
religiose. Avete una camera, nella quale chiunque entra pieno di
afflizione, se ne esce raggiante di gioia». Della quale verità, commenta
il biografo, «mille di noi han fatto la prova».
I consigli del confessore ci riaccostano per un
istante ad argomento già delibato. Uno dei primissimi discepoli del
santo, scrivendo di lui confessore, usa tre aggettivi che condensano
tutto: «caritatevole, opportuno, sapiente».
Episodi esigui, ma rivelatori illustrano
magnificamente il triplice asserto del testimonio che giudicava di propria
scienza.
La carità. Un giorno Don Bosco, negli ultimi anni
della sua vita, in un circoletto di Salesiani che gli facevano corona, uscì
a dire: - Stanotte ho sognato che volevo andarmi a confessare. Nella
sagrestia c'era solamente il tal dei tali. Io lo guardai di lontano, e
provavo quasi ripugnanza. È troppo rigoroso! dicevo fra me. Gli astanti
ridevano di gusto, guardando all'effetto di quelle parole su colui che era
il nominato, e che rideva al par degli altri e diceva piacevolmente: - Chi
l'avrebbe mai immaginato? Io far paura a Don Bosco! La scenetta valse una
lezione per tutti; chi non l'avrebbe capita a volo? L'opportunità, anche
importuna. È voce unanime che Don Bosco non dicesse, confessando, molte
parole, ma che le dicesse ben assestate, secondoché esigevano le
circostanze, in modo da imprimere negli animi, con una grande idea del
sacramento, ferma risolutezza di propositi.
Un giovane che frequentava l'Oratorio da esterno,
aveva accettato di cantare in una parte religiosa al Teatro Regio di
Torino. Sembrò un bell'onore per la casa a quei tempi! Ma Don Bosco non
la pensava così; pavido per l'anima de' suoi, gli sapeva troppo male che
un figlio dell'Oratorio andasse al teatro. Ma che cosa sarebbe accaduto al
suo divieto? I superiori stavano sulle spine. La domenica mattina in
confessione Don Bosco parlò e consigliò; il penitente annuì senza
fiatare, e per tagliar corto alle chiacchiere altrui disse a chi incontrò
- Quando c'entra la coscienza, è sempre il confessore che comanda.
La sapienza. Uno degli ideali più caldeggiati da Don
Bosco fu, come dicevamo, di moltiplicare gli alunni del santuario. Il
convincimento poi che egli parlasse sotto l'ispirazione di Dio conduceva a
lui tanti e tanti bisognosi di consiglio intorno alla loro vocazione: un
si o un no di Don Bosco in affare di si grande importanza dissipava ogni
dubbio. Nel corso dei processi apostolici parecchi testimoni, toccando
questo punto dello zelo sacerdotale di Don Bosco, hanno deposto
all'unisono di non aver mai udito nessuno che si pentisse d'avergli dato
ascolto, fosse o non fosse il suo consiglio per lo stato ecclesiastico, né
di essersi mai imbattuti in uno solo che, avendo preferito agire di
proprio capo, non se ne rammaricasse.
Una cronachetta inedita ci ha conservato il ricordo
di un fatterello, che drammatizza quasi l'effetto straordinario prodotto
da tanta carità, opportunità e sapienza sull'animo degli adolescenti che
si confessavano da Don Bosco. Un giovane, finita la confessione, chiese a
Don Bosco prima di andarsene, un favore: gli domandò il permesso di
baciargli i piedi. Il Servo di Dio, senza menomamente scomporsi, gli
rispose: - Non fa bisogno. Baciami la mano come a sacerdote. Il giovane
allora, baciandogli con effusione la destra, esclamò: - Che fortuna
sarebbe stata per me, se avessi prima aperti gli occhi, come stasera me li
ha aperti lei!
Lo spirito del Signore, che a Don Bosco largiva
tangibile assistenza nell'opera assidua di ben consigliare, gli accordava
anche lumi superni per iscoprire peccati occulti e pensieri reconditi,
tanto in vicini che in lontani.
Un fatto ci colpisce riguardo a questo favore,
soprannaturale, ed è che Don Bosco ne parlasse senza reticenze. In un
documento del 61 leggiamo: «Da dieci anni che io sono all'Oratorio,
sentii Don Bosco a dire: Datemi un giovane che io non abbia mai conosciuto
in modo veruno, e io guardatolo in fronte, gli rivelo i suoi peccati,
incominciando a enumerare quelli della sua prima età». Una cronachetta
manoscritta, sotto il 23 aprile 1863, riferisce testualmente il sermoncino
della sera avanti, nel quale Don Bosco fra l'altro aveva detto: «Io in
tutti questi giorni degli esercizi vedeva nel cuore dei giovani nel modo
stesso che se leggessi in un libro: vedeva ben chiari e distinti tutti i
loro peccati e i loro imbrogli». L'autore del documento sotto il 25 dello
stesso mese scrive: «Don Bosco fu interrogato da me, se il suo leggere
chiaramente nel cuore dei giovani era un fatto che avvenisse solo in tempo
di confessione oppure anche in altro tempo. Egli rispose: - In ogni ora
del giorno, anche fuori delle confessioni -». Il che devesi intendere non
già nel senso che la lettura delle coscienze fosse continua, ma che
poteva essergliene data la facoltà ogni volta che lo richiedesse il bene
delle anime.
Chi sa mai perché Don Bosco, il quale teneva chiuso
a sette suggelli quanto passava fra lui e Dio, si aprisse poi così
liberamente intorno a queste arcane comunicazioni? Un gran perché ci
dovette essere; forse anzi ve ne furono due. In primo luogo la notorietà
di cosa si fuor del consueto e impossibile a tenersi celata non poteva non
dar occasione a commenti nel piccolo mondo dell'Oratorio; prudenza voleva
perciò che si schiarissero le idee in modo da far dileguare con la più
schietta semplicità ogni ombra di dubbio circa l'origine e la natura del
fenomeno.
Ma una seconda ragione ha per noi peso anche
maggiore. Don Bosco, zelante cacciatore di anime con il mezzo della
confessione, sapeva di avere contro di sé un avversario formidabile nel
demonio muto, che tanti accalappia nel sacramento della penitenza con la
mancanza di sincerità. Era questo un suo incubo perpetuo. Un ottimo
parroco francese, che predicava frequenti missioni ed esercizi spirituali,
atterrito alla vista di tante anime viventi nel sacrilegio per confessioni
mal fatte, ma temendo che fosse illusione la sua, scrisse al nostro buon
Padre per sottomettere al suo giudizio le proprie inquietudini. Don Bosco
rispose: «E Lei dice questo a me, che ho predicato in tutta Italia e non
ho quasi mai trovato altro?».
Un tempo, nei primordi del sacerdozio, egli era stato
persuaso che i suoi figli avessero con lui inimitata confidenza; ma non
tardò ad accorgersi, che il demonio era più furbo di lui.
Attingiamo dalla solita cronachetta, sotto il 12
aprile 1861. Ad un chierico, meravigliato di sentire che non pochi
sogliono tacere i peccati in confessione, anche quando vi sia copia di
confessori, Don Bosco, detto come non tutti i confessori abbiano «abilità,
esperienza e mezzi per scrutare le coscienze e scovare le volpi che rodono
i cuori», conchiuse dolorosamente: «Sono due grandi bestie la vergogna e
la paura di scapitare nella stima del confessore». Ecco dove bisogna
forse cercare il movente principale che in questa materia lo faceva uscire
dal suo riserbo. Va bene che Don Bosco, leggendo nei cuori, vi scopriva
chiaramente gli altarini; ma, quando egli diceva i peccati del penitente,
il tentatore non l'aveva già prevenuto, inducendo a malizioso silenzio?
Giovava quindi in antecedenza mettere tutti
sull'avviso, che al confessionale suo le diaboliche insidie sarebbero
state smascherate; non si lasciassero dunque gabbare, ma piuttosto
profittassero del dono di Dio per assicurarsi il buono stato delle loro
anime. E così nel fatto la intendevano quei di casa. Molto spesso gli
alunni, inginocchiatisi, davano principio all'accusa, pregando il
confessore di dir loro i peccati; il che Don Bosco faceva con un'esattezza
da farli strabiliare. Tanto ci è confermato da questa raccomandazione
ch'ei rivolse ai giovani in un sermoncino della buona notte e di cui il
Lemoyne diede lettura nei processi, traendola da un suo antico promemoria:
«Finora, confessandovi, voi mi dicevate: - Dica lei - e io diceva. Ma in
buona sostanza tocca al penitente e non al confessore. Io non reggo più a
parlare per ore e ore; ne soffre il mio povero stomaco. Da qui innanzi
dite voi, e, se sarete imbrogliati, allora vi aiuterò».
Anche fuor di confessione Don Bosco vedeva
distintamente peccati e pensieri.
In seno alle comunità circolano modi di dire, che
formano un repertorio locale, tutto in un senso convenzionale, da non
interpretarsi col vocabolario alla mano. Di questo stampo era
nell'Oratorio la frase leggere in fronte, che, riferita a Don Bosco,
significava indovinare i peccati.
Il convincimento che egli, guardando in fronte, vi
cogliesse i segni rivelatori di magagne segrete, era così pacifico, che i
giovani, quando non avevano la coscienza pulita, non ardivano andargli
vicino per tema che leggesse loro in fronte; anzi, se chiamati o per altri
motivi gli si dovessero presentare, si calcavano, tosto che potevano, il
berretto sul viso o altrimenti vi facevano calare i capelli.
Si capisce che Don Bosco lasciava correre volentieri
quell'espressione, perché gli serviva a occultare il carattere prodigioso
del fatto; tuttavia si narrano episodietti di sfacciatelli che non
vedevano niente di serio nella cosa e sfidavano Don Bosco a dir loro i
peccati anche in pubblico. In quei casi la sua tattica era sempre la
stessa: tirare il malcauto in disparte, mettergli una pulce nell'orecchio,
farlo trasecolare, arrossire, piangere.
Press'a poco il medesimo avveniva dei pensieri;
sebbene intorno alla lettura dei pensieri la notorietà fosse molto
limitata. Don Rua per fatto personale attesta che, qualora si credesse
opportuno celargli segreti d'affari, i quali egli aveva diritto di
conoscere, ogni sotterfugio tornava inutile, perché, parlando, mostrava
di saper tutto per filo e per segno. Un chierico, travagliato da scrupoli,
mentre faceva l'esame di coscienza per la confessione, pensò segretamente
così: - Se Don Bosco, volgendosi a me, mi dicesse di andare domani a far
la santa comunione senza confessarmi, capirei che è tutto diavoleria il
mio disturbo. Ed ecco nella penombra della sera una mano battergli sulla
spalla, e la voce paterna di Don Bosco dirgli all'orecchio: - Domani
andrai alla santa comunione; non è necessario che ti confessi.
nota: Il Lemoyne narra il fatto impersonalmente. Don
Francesia ci fa sapere che egli era quel chierico, unendo al minuzioso
racconto questa protesta: «Son vecchio, e alla mia età non si mentisce
neppure per ridere». Fine nota.
Sempre a proposito dei pensieri, vogliamo riferire un
aneddoto conosciutosi nel 1929, utile a sapersi anche perché ci si vede
una volta più quale fosse lo spirito di Don Bosco. Un altro chierico, poi
confondatore dei Giuseppini, Don Eugenio Reffo, avendo accompagnato fin
dentro la camera di Don Bosco il suo superiore teologo Murialdo, se ne
stava appartato in un angolo, mentre all'estremo opposto i due Servi di
Dio conversavano fra loro. Dal cortile saliva il chiasso della ricreazione
di tanti giovani, rafforzato dal fragore assordante degli allievi di una
banda che faceva le prove. Il chierichetto pensò anche lui segretamente:
- Ah, io non permetterei mai tanto baccano! Non in commotione Dominus. Ed
ecco Don Bosco, sospeso il colloquio, venire difilato a lui e dirgli: - Sì,
sì, Don Bosco ha ragione. Poi imitando col gesto delle mani il cozzare
dei piatti turchi e il percuotere sulla grancassa: - Cin-cin, bum-bum. È
così che vuole Nostro Signore. Chiasso, allegria, frastuono... cin-cin,
bum-bum, a suo tempo.
E anche da lontano gli arrivavano misteriose notizie
di cose occulte. Scrivendo dall'Oratorio ai collegi o da altre parti
all'Oratorio, informava talvolta i superiori di ciò che vi succedeva a
loro insaputa e che egli non poteva assolutamente conoscere se non per
rivelazione. Declinava nomi, luoghi, circostanze con si perfetta
rispondenza al vero, che, quando si trattava di mancamenti, i chiamati ad
audiendum verbum rimanevano di stucco e rinunciavano a mendicare scuse.
Una sera, durante il solito sermoncino della buona
notte, poiché la familiare intimità dell'ora consentiva anche di muovere
domande così in pubblico, Don Rua, che nell'Oratorio teneva le veci di
Don Bosco, venutogli il destro, gli chiese come facesse a vedere le cose
da lontano. Rispose faceto: «Per mezzo del mio filo telegrafico io,
comunque lontano, stabilisco la mia comunicazione e veggo e conosco quanto
può ridondare a onore e gloria di Dio e alla salute delle anime». A
Barcellona, nell'86, altro che lettere o filo telegrafico!
Chi scrive, udì da quel Direttore il racconto
particolareggiato dell'avvenimento, la cui storicità non può essere
posta in dubbio. Don Bosco in persona, stando all'Oratorio, fu visto colà
dal Direttore nel cuore della notte appressarsi al suo letto, farlo
alzare, precederlo a luce di giorno in un giro per la casa, additargli
qualche disordine, ricondurlo in camera, dargli ordine di provvedimenti
immediati e sparire, lasciandolo là, in piedi, al buio, fuori di sé.
CAPO XVII. - Sogni, visioni, estasi.
Il titolo di questo capo è suggerito da una
citazione d'Isidoro, fatta da san Tommaso. Scrive l'Angelico: «Isidoro
distingue il dono di profezia secondo la maniera di profetare. Riguardo
alla maniera d'imprimere le immagini fantastiche fa tre distinzioni:
sogno, visione, estasi». Sono grazie gratis datae, che per sé non
apportano né esigono la santità, ma che la sogliono accompagnare; con
esse Dio in modi soprannaturali manifesta alle anime cose nascoste.
Nella vita di Don Bosco tali favori prendono una
parte così importante da non potersene prescindere senza rinunciare a un
elemento di sommo valore per avviarci alla piena conoscenza della sua
comunione intima con Dio. Quanti sono passati per gli ambienti salesiani,
han fatto l'orecchio ai così detti sogni di Don Bosco, qual
denominazione, venuta da lui stesso, vive nelle sue Case, dove la
s'intende ancora senza bisogno di commenti.
Non istaremo noi a dimostrare che esistono realmente
sogni soprannaturali; sarebbe sfondare una porta aperta. Chi ignora il
somnia somniabunt, annoverato da Ioele fra i doni, che in una più larga
effusione dello Spirito Santo avrebbero allietati gli ultimi giorni, cioè,
spiega san Pietro, i tempi messianici? Veniamo piuttosto a discorrere
senz'altro dei sogni di Don Bosco.
Questi sogni sono stati in numero stragrande, perché
si succedettero a intervalli non lunghi dall'esordire della puerizia del
Servo di Dio fino all'ultima vecchiaia. Di alcuni pochi abbiamo il testo
da lui personalmente scritto o riveduto; di altri ci sono giunte relazioni
da testimoni auricolari e fededegni; di parecchi corrono qua e là
tradizioni orali; di molti o restano solo vaghe rimembranze o si argomenta
appena l'esistenza da vaghi indizi. In diciotto volumi delle Memorie
Biografiche, narrati per disteso e accennati per sommi capi, se ne
annovera un buon centinaio.
Generalmente le scene ivi descritte si svolgono or più,
or meno drammatiche, sopra uno di questi tre sfondi: Chiesa Cattolica,
Società Salesiana, Oratorio di Valdocco. Della Chiesa gli si spiegano
dinanzi le future vicende o nella sua vita generale o in nazioni
particolari; della Congregazione vede chiaramente opere da compiere, vie
da seguire, scogli da evitare; dei giovani gli si svelano stati di
coscienza, vocazioni, morti prossime. In quali condizioni egli si trovasse
sognando, lo possiamo arguire da certi suoi modi d'esprimersi.
Così, di un sogno avuto nella notte fra il 67 e il
68 dice: «Era un sonno, nel quale uno può conoscere quello che fa, udire
quello che si dice, e rispondere se interrogato». Gli si soleva mettere a
fianco per guida e interprete un personaggio, non sempre il medesimo; da
probabili indizi sembrerebbe che fosse ora qualche allievo defunto, ora
san Francesco di Sales, ora san Giuseppe o altro Santo, ora un Angelo del
Signore, talvolta la Madonna; vi si univano in certi casi per corteggio o
per compagnia apparizioni secondarie.
Che cosa pensava Don Bosco de' suoi sogni? Sulle
prime andò a rilento nel prestarvi fede, attribuendoli a scherzi di
fantasia; onde nel raccontarli, se vi entrassero previsioni del futuro,
temeva sempre o di aver preso abbaglio o di dir cose da non doversi
pigliare sul serio. Il fatto è però che distingueva benissimo fra sogni
e sogni e se alcuni, come accade, si dileguavano senza che gli facessero
impressione di sorta, altri gli lasciavano nell'animo un'impressione
durevole. Discorrendone familiarmente con intimi, disse che ripetute
volte, dopo aver raccontato di questi ultimi, se n'era confessato a Don
Cafasso, come di un azzardato parlare, e che il santo prete, ascoltatolo e
riflettutovi sopra maturamente, alla fine un giorno gli aveva risposto: -
Giacché quel che dite si avvera, potete stare tranquillo e continuare.
Tuttavia non credette opportuno abbandonare subito le
cautele. In una delle menzionate cronachette, sotto il 13 gennaio 1861,
sono raccolte queste sue parole riguardo a un sogno svoltosi a tre riprese
in tre notti consecutive: «Nel primo giorno io non voleva dar retta,
poiché il Signore ce lo proibisce nella Sacra Scrittura. Ma in questi
giorni scorsi, dopo aver fatte parecchie esperienze, dopo aver presi
diversi giovani a parte, e aver dette loro le cose tali e quali le aveva
viste nel sogno e dopo che essi mi assicurarono essere proprio così,
allora io non potei più dubitare che questa sia una grazia straordinaria,
che il Signore concede per tutti i figli dell'Oratorio. Io perciò mi
trovo in obbligo di dirvi che il Signore vi chiama e vi fa sentire la sua
voce, e guai a coloro che vi resistono!».
Ciò nondimeno, umilmente diffidando di sé, volle
abbondare in precauzioni; onde sotto il giorno 15 torniamo a leggere: «Dirò
quello che ho già detto; io feci quel sogno, ma per una parte non voleva
darvi retta; per l'altra parte lo vedeva troppo importante, e perciò
esaminai ben bene la cosa». L'esame consistette di nuovo nell'interrogare
tre dei giovani, di cui nel sogno aveva conosciuto il misero stato e che
trovò esattamente nelle condizioni a lui note. Sette anni dopo, il 30
aprile del 68, riparlava nel modo seguente: «Miei cari giovani! Ieri sera
vi ho detto che io avevo qualche cosa di brutto da raccontarvi. Ho fatto
un sogno, ed ero deciso di non farne parola a voi, sia perché dubitavo
che fosse un sogno come tutti gli altri, che si presentano alla fantasia
nel sonno, sia perché tutte le volte che ne ho raccontato qualcheduno, ci
fu sempre qualche osservazione e qualche reclamo. Ma un altro sogno mi
obbliga a parlarvi del primo». In quest'altro sogno, come narrò poi, la
voce del personaggio gli aveva detto: - Perché non parli? - Non si può
credere davvero che in questa come in cent'altre cose abbia fatto difetto
a Don Bosco la prudenza!
Intanto, il fin qui detto ci aiuta a comprendere una
confidenza da lui fatta con aria grave e con un senso di preoccupazione
nel 76 a Don Giulio Barberis: "Quando penso alla mia responsabilità
per la posizione in cui mi trovo, tremo tutto. Le cose che vedo accadere,
sono tali, che caricano sopra di me una responsabilità immensa. Che
rendiconto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa
per il buon andamento della nostra Pia Società! Si può dire che Don
Bosco vede tutto ed è condotto avanti per mano dalla Madonna. Ad ogni
passo, in ogni circostanza, ecco la Beata Vergine!».
Come raccontava Don Bosco i suoi sogni? Con quale
animo li raccontasse, traspare abbastanza dalle citazioni surriferite;
tuttavia vi è qualche aggiunta da fare. Esponeva le cose «con semplicità,
gravità e affetto», c'informa un testimonio. Esordiva per lo più molto
alla buona, evitando tutto ciò che potesse far colpo o insinuare l'idea
di merito o privilegio suo. Raccontando, intercalava frasi argute o
descrizioncelle giocose, per distrarre l'attenzione degli uditori dai
punti di maggiore singolarità; non mancavano per altro individui
perspicaci, che capivano e notavano.
Sempre col fine di affievolire l'impressione dello
straordinario, dava nomi insignificanti al personaggio che soleva
accompagnarlo, chiamandolo guida, interprete o, più vagamente ancora,
sconosciuto; solo discorrendo a tu per tu con alcuni, ne dava indicazioni
meno imprecise. Aveva poi una cura ben dissimulata di mettere in rilievo
quanto ridondasse a sua umiliazione. Così, narrando un sogno nel 61, dopo
aver detto del suo grande cruccio al vedere che giovani dell'Oratorio
facevano i sordi a' suoi consigli e mal corrispondevano a' suoi benefici,
proseguiva: «Allora il mio interprete prese a rimproverarmi: - Oh, il
superbo! Vedete il superbo! E chi sei tu dunque che pretendi di
convertire, perché lavori? Perché tu ami i tuoi giovani, pretendi di
vederli tutti corrispondere alle tue intenzioni? Credi tu forse di essere
da più del nostro divin Salvatore nell'amare le anime, faticare e patire
per esse? Credi tu che la tua parola debba essere più efficace di quella
di Gesù Cristo? Predichi tu forse meglio di lui? Credi tu di aver usata
più carità, maggior cura verso i tuoi giovani, di quella che abbia usato
il Salvatore verso i suoi apostoli? Tu sai che vivevano con lui
continuamente, erano ricolmi ad ogni istante d'ogni sorta di suoi
benefici, udivano giorno e notte i suoi ammonimenti e i precetti della sua
dottrina, vedevano le opere sue, che dovevano essere un vivo stimolo per
la santificazione dei loro costumi. Quanto non ha fatto e detto intorno a
Giuda! Eppure Giuda lo tradì e morì impenitente. Sei tu forse da più
degli apostoli? Ebbene, gli apostoli elessero sette diaconi: erano solo
sette, scelti con ogni cura: eppure uno prevaricò. E tu fra cinquecento
ti meravigli di questo piccol numero che non corrisponde alle tue cure?
Pretendi di riuscire a non averne alcuno cattivo, alcuno che sia perverso?
Oh, il superbo!».
Ridurre al minimo possibile ciò che potesse
suscitare opinione di soprannaturale, umiliare la propria persona con
riferire si forti rimproveri, sta bene; ma la verità aveva pure i suoi
diritti. Perciò egli esortava a guardarsi dal mettere in burla le cose
udite, e a fare ognuno per sé le debite applicazioni. Per altro, anche
queste esortazioni erano condite di evangelica umiltà.
Non dispiaccia un'altra citazione un po' lunga, ma
che sarà l'ultima. Il sogno del 61, in cui si buscò il rimbrotto
precedente, fu raccontato in tre sere di seguito; eccone la chiusa: «Adesso
che vi ho raccontato tutte queste cose, voi penserete: - Chi sa? Don Bosco
è un uomo straordinario, qualche cosa di grande, un santo sicuramente!
Miei cari giovani! Per impedire stolti giudizi intorno a me, vi lascio
tutti in piena libertà di credere o non credere queste cose, di dar loro
più o meno importanza: solo raccomando di non mettere niente in
derisione, sia coi compagni sia con gli estranei. Stimo però bene di
dirvi che il Signore ha molti mezzi per manifestare agli uomini la sua
volontà. Alcune volte si serve degli strumenti più inetti e indegni,
come si servì dell'asina di Balaam, facendola parlare; e di Balaam, falso
profeta, che predisse molte cose riguardanti il Messia. Perciò lo stesso
può accadere di me. Io vi dico adunque, che non guardiate le mie opere
per regolare le vostre. Quel che voi dovete unicamente fare, si è di
badare a quello che dico, perché questo, almeno lo spero, sarà sempre la
volontà di Dio e ridonderà a bene delle anime. Riguardo a quel che
faccio, non dite mai: - L'ha fatto Don Bosco; dunque è bene. No.
Osservate prima quello che faccio; se vedete che è buono, imitatelo; se
per caso mi vedete fare qualche cosa di male, prendetevi guardia
dall'imitarlo: lasciatelo come malfatto».
Non tutte diceva in pubblico le cose apparsegli o
udite nei sogni; ma alcune comunicava in privato a chi v'aveva esclusivo
interesse; altre palesava a chi, godendone maggiormente la familiarità,
ne lo interrogasse a quattr'occhi; altre infine serbava per sé, come a
lui personalmente destinate. Ecco infatti uno dei cronisti informarci che
per certi sogni si veniva udendo così a spizzico tanto di nuovo, da
potersene «duplicare o triplicare la materia», e che per certi altri, a
prender nota di tutto, ci sarebbero voluti altrettanti volumi.
A mo' d'esempio, riandando il suddetto sogno del 61,
Don Bosco disse d'avere in quelle tre notti acquistate più cognizioni di
teologia che non in tutti gli anni di seminario, e che aveva intenzione di
scrivere su tali questioni teologiche, lasciando «i fatti specifici»
della terza notte e dando solo «le teorie» delle due prime. Onde si
deduce che, dovendo le sue narrazioni avere per iscopo l'edificazione, il
conforto, l'ammaestramento altrui od essendo anche taluna di esse un grido
d'allarme, egli faceva pel racconto pubblico saggia selezione di parti,
sicché l'insieme fosse per riuscire di reale vantaggio agli ascoltatori.
E gli effetti che ne derivavano, li avrebbe visti un cieco. Specialmente
cresceva a più ridoppi l'orrore del peccato; quindi un confessarsi con
maggior compunzione, un moltiplicarsi di confessioni generali, una
frequenza di tutti alla santa comunione: era insomma, per dirla con frase
usata da Don Bosco in tali occasioni, la bancarotta del demonio.
Ce ne sarebbe dunque d'avanzo per sottoscrivere a due
mani il seguente giudizio del canonico citato poco fa: «A noi, sebbene
non più fanciulli, non si rappresentava altra spiegazione ragionevole e
plausibile se non quella dei doni straordinari concessi a Don Bosco dal
Signore». E ciò tanto più quando si ponga mente, che Don Bosco non solo
non provocava in qualche modo né desiderava sogni di questo genere, ma ne
aveva paura, perché fisicamente ne pativa non lievi disturbi; a volte per
giunta, finito appena il racconto, non rammentava più quel che aveva
detto, cosa non insolita ad avverarsi nelle persone che parlano mosse da
ispirazioni soprannaturali. Ma, oltre al già molto che siamo venuti
esponendo, ci si presentano ancora due caratteri notevolissimi, che non
permetteranno mai allo psicologo di giudicare i sogni di Don Bosco alla
stregua dei sogni puramente naturali.
Un primo carattere risiede nell'elemento psicofisico.
Nei sogni naturali impera o imperversa la fantasia, non governata dalla
ragione. Normale condizione per l'inizio del sonno è la stanchezza. La
stanchezza produce sostanze intossicatrici del cervello, senza che però
si arrivi all'intossicazione completa: la natura vi ha provveduto, facendo
si che quelle, raggiunta una certa quantità, agiscano come un meccanismo
d'interruzione e arrestino l'apparato motore che consuma la maggiore
energia. Tale interruzione toglie ai centri superiori dal sistema nervoso
l'energia psicofisica necessaria per l'attività normale, tanto di più
quanto maggiormente l'individuo ha bisogno di sonno. Il piccolo residuo di
energia psicofisica rimasta nei centri superiori basta per la vitalità
del sogno; ma l'ordinario è troppo scarso per eccitare efficacemente i
centri motori, irradiando dai centri sensoriali.
Ora se si considera che Don Bosco, andando a dormire,
aveva sempre estremo bisogno di sonno, si ha già in questo una ragione
per conchiudere che dunque in lui tanta vitalità di sogni non era
umanamente spiegabile.
Ma c'è di meglio. Il meccanismo d'interruzione che
isola l'apparato motore, e la diminuzione d'energia psicopatica del
sistema nervoso centrale influiscono sull'attività della fantasia
causandovi i due fenomeni dell'irregolarità e del mutamento improvviso,
che durante il sonno tutti abbiamo potuto sperimentare; poiché
l'insufficienza dell'energia psicofisica rende impossibile il seguire a
lungo un motivo, ma basta qualunque stimolo esterno a dirigere per altra
via quel resticciuolo di energia, sicché allora tutta l'immagine del
sogno si dissolva. Ond'è che generalmente nel sogno l'attività della
fantasia non è diretta da alcun intento positivo; perciò nei sogni
naturali non si suol verificare né ordine razionale di rappresentazione né
concatenamento logico di pensiero, ma vi si salta di palo in frasca, con
improvvisi scatti di bizzarrie e con repentini sbalzi nel ridicolo o nello
stravagante.
Tutto l'opposto accade nei sogni di Don Bosco. Essi
sono rappresentazioni simboliche simili a quella che si mostrò a san
Pietro nella visione estatica del lenzuolo calato dal cielo e pieno
d'animali mondi e immondi. L'intreccio vi è or più or meno complicato,
protraendosi lo svolgimento talora a lungo e con distinzione di atti, come
nei veri drammi; inoltre, e qui sta il singolare, vi si ammira
costantemente nelle immagini vedute un succedersi che ha sempre la sua
ragione di essere, e nelle parole udite o lette un valore significativo
che forma con le immagini stesse un sol tutto.
Ogni sogno si aggira intorno a un'idea centrale e va
diritta a uno scopo ben determinato; l'azione intera vi si sviluppa
progressivamente e ordinatamente, come nelle migliori composizioni
drammatiche. Manco a dirsi poi che, sebbene le forme sensibili si adagino
nel simbolismo acconcio alla mentalità comune, però vi s'introducono
elementi bislacchi o volgari o frivoli o comunque disdicevoli a un fine
santo. L'esemplificare sarebbe cosa piacevole; ma l'economia del nostro
lavoro ci tiene stretto il freno.
Un secondo carattere dei sogni di Don Bosco è dato
dall'elemento profetico. La nostra immaginazione, quando nel sonno combina
e scombina senza direttive della ragione, sarà vero che divina il futuro?
Eh, non ci si riesce nemmeno, quando vi si aguzza da svegli
l'intelligenza! Moltiplicando osservazioni su fatti e fenomeni vicini, si
presagiscono appena effetti più o meno remoti, ma se manca un reale punto
d'appoggio, è vano ogni tentativo di gettar lo scandaglio nell'avvenire;
figuriamoci durante l'incoscienza del sonno! Eppure i sogni di Don Bosco
non contenevano vaghi o sibillini presagi, ma rivelazioni chiare e nette
di eventi nascosti nelle profondità del futuro.
A dir vero, lo spirito profetico abitava in Don
Bosco, tante predizioni egli fece di cose libere e contingenti, avveratesi
avanti o dopo la sua morte, nel tempo e nel modo da lui annunciati. Il più
volte menzionato canonico Ballesio scrive: «Questo in Don Bosco non
sembrava un istantaneo fulgore come di rapido baleno nel suo intelletto,
ma che fosse divenuta l'ordinaria condizione della sua mente, per modo che
egli profetava pregando, conversando, celiando, e profetava non
accorgendosi quasi più né egli di profetare né altri che egli
profetasse». E profetava anche sognando.
Nei sogni il contenuto profetico, quando non era
tutto, era parte rilevante. Così, quanti annunci di morte non diede in
antecedenza, perché avvertitone in sogno! Non pronunciava nomi, ma
precisava date; del nome a volte svelava in pubblico la lettera iniziale,
a volte dava comunicazione privatamente a qualcuno sotto segreto. Per
l'avveramento poi si compiacevano i buoni, cioè quasi tutti, avvezzi
com'erano ad accogliere venerabondi i suoi detti, e ammutolivano i
diffidenti, che, sebbene rari nantes in gurgite vasto, pure con la loro
ritrosia a credere garantivano per allora e per ora la storicità dei
vaticini. Su ciò non affastelleremo noi episodi, rubando la penna ai
biografi; piuttosto dalle solite pagine ingiallite ci dica Don Bosco
stesso ancora due parole in proposito.
Uno dei compilatori di cronachette domestiche, sotto
il 17 febbraio 1861, prende nota di questa sua osservazione, alludente a
profezie di sogni. «Se queste cose che si fanno e si dicono nella nostra
casa, le quali però sono certamente singolari e che devono stare tra di
noi, qualcuno del mondo le sapesse, le giudicherebbe favole. Ma noi
abbiamo per massima sempre che, quando una cosa volge a bene delle anime,
è certo che viene da Dio e non può venire dal demonio».
Per altro, il nemico di Dio e delle anime un campo
differente erasi riservato, donde sferrare i suoi assalti contro Don
Bosco. Il Poulain, che fa testo in materia di mistica, ha questa
osservazione opportunissima al caso nostro: «Dalla vita dei Santi sembra
risultare che, se patiscono gravi ossessioni, ciò accade per lo più,
quando sono giunti al periodo dell'estasi o anche solo delle rivelazioni e
visioni divine, sia che tali grazie continuino, sia che vengano
temporaneamente sospese. All'azione straordinaria di Dio fa allora da
contraltare l'azione straordinaria dei demoni». Anche per i santi della
Chiesa militante la terra è campo di battaglia.
Della guerra ingaggiata dal demonio contro Don Bosco
noi possediamo bollettini ufficiali redatti durante una prima fase; questo
ci basta per farci un'idea di tutta la campagna, durata tre anni. Il
demonio esercitava le sue ostilità contro il Servo di Dio specialmente
col non lasciarlo dormire di notte. Ora un vocione all'orecchio lo
stordiva, ora un soffio come di bufera lo percuoteva; insieme poi un
rovistare per ogni angolo, un disperdere carte, un disordinare libri.
Alcune sere, corrette le bozze del suo opuscolo La
Potestà delle tenebre, posava sul tavolino; ma, levandosi all'alba, o le
trovava sparse per terra o non le ritrovava affatto. Dalla stufa spenta si
sprigionavano fiamme avvampanti. Coricatosi appena, una mano misteriosa
gli tirava lentamente le coperte verso i piedi; riassettatele, se le
sentiva di bel nuovo scivolare lungo la persona. Accesa la lucerna, il
fenomeno cessava, per ricominciare tosto nel buio; una volta il lume gli
fu spento da un potente soffio d'ignota provenienza. Sul punto di pigliar
sonno, ecco la danza del capezzale sotto la testa. Il segno della croce o
qualche preghiera gli ritornava la quiete; ma sul riassopirsi ecco
traballare il letto intero. La porta gemeva quasi per urto di vento
impetuoso.
Rumori spaventevoli sopra la camera facevano pensare
a molte ruote di carri in corsa; ivi pure scoppiavano all'improvviso
altissime grida. Una notte l'uscio si spalanca ed entra con le fauci
aperte un orribile mostro, che si avventa per divorarlo, ma è fugato dal
segno della croce.
Un sacerdote molto coraggioso volle vegliare nella
camera, ma non potè rimanervi perché a mezzanotte, atterrito da un
fragore infernale, scappò via a precipizio. Due chierici, che si
offersero a ripetere insieme la prova, stando nell'attigua biblioteca,
dovettero anch'essi battere tosto in ritirata, presi da tremito convulso.
Il povero Don Bosco, per trovar pace, si recò presso il Vescovo d'Ivrea;
ma dopo una prima notte tranquilla il nemico lo raggiunse e si fu da capo
e peggio che mai. Tanto basti per un saggio di questa lotta terribile con
lo spirito delle tenebre; parlando della quale nel 65, Don Bosco accennò
d'avervi finalmente trovato il rimedio, e di somma efficacia, ma non si
volle spiegare più chiaramente. Può darsi che fosse qualche penitenza
straordinaria.
I sogni soprannaturali appartengono alla specie di
visioni chiamate dai mistici immaginative, perché svolgentisi per via
d'immagini impresse nella fantasia da causa superiore; ma di siffatte
visioni se ne producono pure durante la veglia. È invalso l'uso di
qualificare promiscuamente per sogni di Don Bosco
visioni dell'una e dell'altra maniera, mentre,
nonostante la stretta analogia, differiscono fra loro non poco. Così la
visione immaginaria nello stato di veglia sembra non potersi mai
scompagnare da qualche grado di estasi, da quelle estasi cioè nelle quali
or maggiore or minore sia l'astrazione dai sensi.
Vide a questo modo il Servo di Dio nel 70 una serie
complessa di avvenimenti pubblici, di cui è tuttora in corso di
svolgimento l'ultima parte. L'esordio del testo, scritto da lui e mandato
a Pio IX, conferma, pare, questa opinione; egli infatti vi si esprime nei
termini seguenti: «La vigilia dell'Epifania dell'anno corrente 1870
scomparvero tutti gli oggetti materiali della camera e mi trovai alla
considerazione di cose soprannaturali. Fu cosa di brevi istanti, ma si
vide molto. Sebbene di forma, di apparenze sensibili, tuttavia non si
possono se non con grande difficoltà comunicare ad altri con segni
esterni e sensibili. Se ne ha un'idea da quanto segue. Ivi è la parola di
Dio accomodata alla parola dell'uomo». Vide nello stesso modo davanti e
in numerose circostanze il santo giovane Luigi Colle di Tolone, da lui
conosciuto poco prima che quegli volasse diciassettenne al cielo. Fra l'81
e l'85 l'estinto gli apparve mentre confessava, mentre diceva la messa,
mentre distribuiva la comunione, una volta perfino nella stazione di Orte
durante un'attesa di quattro ore. Tali apparizioni erano sempre luminose e
liete, a volte con colloqui, a volte senza.
Una visione della medesima natura egli ebbe forse
nell'agosto dell'87 a Lanzo Torinese. Una Figlia di Maria Ausiliatrice,
bramosa di riceverne la benedizione e stanca di attendere nell'anticamera
chi la introducesse dal Servo di Dio, sospinse leggermente la porta
socchiusa dello studio di Don Bosco, e che vide? Il buon Padre
nell'atteggiamento di persona fuori di sé, la quale stia in ascolto. Il
viso era trasfigurato da viva e bianca luce; la fisionomia soave e
tranquilla; le braccia aperte verso l'alto e il capo accennante di tratto
in tratto a fare di sì. Viva Gesù! Padre, è permesso? - disse
ripetutamente la suora; ma egli nulla. Finalmente la scena, durata non
meno di dieci minuti, si chiuse con un segno di croce e con un inchino
riverenziale indescrivibile. È da notare che Don Bosco in quell'anno mal
si reggeva in piedi senza il braccio altrui; ed era sempre un po' curvo; là
invece stava con tutta la persona eretta.
Oltre alle immaginarie, si conoscono ancora due
specie di visioni, una inferiore alle precedenti e l'altra superiore.
Inferiore è quella delle visioni dette sensibili, corporali, oculari; in
esse i sensi percepiscono cose esterne che non si potrebbero né vedere né
intendere senz'aiuto soprannaturale.
Don Bosco ebbe una visione di questa specie, quando
gli fu rivelato l'avvenire del giovinetto Cagliero, gravemente infermo. Al
metter piede sulla soglia della sua stanza per visitarlo e disporlo a ben
morire, ecco due apparizioni successive, durate un attimo ciascuna. Da
prima, una colomba luminosissima, recante un ramoscello d'olivo nel becco,
la quale, fatti alcuni giri per la camera, da ultimo raccolse il volo sul
morente, con l'olivo gli toccò le labbra e poi glielo lasciò cadere sul
capo: presagio di apostolato missionario e di pienezza del sacerdozio.
Indi una folla di selvaggi, dalle forme nuove, curvi e trepidanti sul
fanciullo, e fra essi emergenti due bei tipi caratteristici e di razza
diversa, che gli eventi fecero poi conoscere rappresentanti dei Patagoni e
dei Fueghini.
Le visioni dell'altra specie, che è la più alta di
tutte, vanno sotto il nome di intellettuali; in esse la mente intuisce
verità spirituali senza alcun concorso d'immagini sensibili. Dio ne avrà
concesse a Don Bosco? Non possiamo affermarlo con sicurezza. Ma chi saprà
mai tutta la dovizia di carismi soprannaturali, che arricchirono l'anima
di Don Bosco?
La sua spontanea naturalezza in tutte le cose e la
sua abituale semplicità di vita erano fatte apposta per celare le segrete
operazioni della grazia, quando la notizia di queste non dovesse recare al
prossimo qualche giovamento. In ogni modo, i casi di levitazione e
d'irradiazioni luminose non avvalorerebbero per avventura l'ipotesi che
nemmeno visioni dell'ordine supremo gli siano mancate?
Nel 79 il Servo di Dio, dicendo la messa, nella sua
cappella privata, fu visto in tre giorni differenti irradiare dal volto
una luce che rischiarava tutta la camera, e poi con tutta la persona
staccarsi dalla predella, innalzarsi a poco a poco e rimaner sospeso in
aria per una diecina di minuti.
Lo storico Don Lemoyne per tre sere di seguito sul
tardi vide la faccia di lui accendersi gradatamente fino ad assumere una
trasparenza luminosa; tutto il volto mandava uno splendore forte e soave.
Il Rettor Maggiore Don Rinaldi, come narrò allo scrivente, vide
improvvisamente in tre incontri, a dieci anni di età, a ventidue, e sui
trenta, in pieno giorno e in luoghi diversissimi, illuminarsi gli occhi di
Don Bosco e fiammeggiare, poi estendersi la luminosità a tutta la persona
e venirglisi formando un'aureola sfolgorante, che vinceva la luce naturale
e che brillava a forma del nimbo dei Santi. L'agilità e lo splendore sono
due belle doti riserbate ai corpi gloriosi. Se pertanto di tali doti si
scorgono quaggiù anticipazioni mirabili in corpi di viventi, non sarà
lecito pensare che un tanto fenomeno avvenga, quando le anime, quasi
indiate, godono delle cose divine una visione, arieggiante più o meno da
lungi la futura intuitiva visione beatifica?
La notizia di questi ultimi favori celestiali non
ebbe tanta risonanza, quanta la fama di taumaturgo, che ne accompagnò il
nome con un crescendo continuo fino alla tomba. Sul dono dei miracoli non
è affar nostro dilungarci; tuttavia un cenno fugace, che risponda al
nostro disegno, non parrà inopportuno prima di por termine a questo capo.
Da un Memoriale, che Don Bosco già vecchio, nel
1884, mise a poco a poco in iscritto con mano stanca e a cuore aperto, per
lasciarci quasi paterno testamento, utili ricordi e ammonimenti a' suoi
figli, stralceremo alcuni periodi che fanno qui a proposito. Il buon Padre
vi esprime sentimenti, dei quali, anche senza che egli nulla dicesse,
erano arciconvinti coloro che ebbero con lui diuturna consuetudine di
vita; per noi lontani invece le sue dichiarazioni sono quanto di meglio si
possa desiderare a fine di ben conoscere quali fossero i suoi intimi
pensieri nella piena di doni soprannaturali che ne inondavano lo spirito e
si riversavano al di fuori, facendolo acclamare operator di miracoli.
Con tutto candore egli scrive adunque così: «Io
raccomando caldamente a tutti i miei figli di vegliare sia nel parlare sia
nello scrivere, di non mai raccontare né asserire che Don Bosco abbia
ottenuto grazie da Dio o abbia in qualsiasi modo operato miracoli. Egli
commetterebbe un dannoso errore; sebbene la bontà di Dio sia stata
generosa verso di me, tuttavia io non ho mai preteso di conoscere ed
operare cose soprannaturali. Io non ho fatto altro che pregare e far
domandare grazie al Signore da anime buone. Ho poi sempre esperimentato
efficaci le preghiere comuni dei nostri giovani, e Dio pietoso e la sua
santissima Madre ci vennero in aiuto nei nostri bisogni. Ciò si verificò
specialmente ogni volta che eravamo in bisogno di provvedere ai nostri
giovanetti poveri e abbandonati, e più ancora, quando essi trovavansi in
pericolo delle anime loro».
Conchiuderemo facendo nostra l'osservazione
dell'avvocato della Causa, che il dono dei miracoli conferma luminosamente
la soprannaturalità delle comunicazioni.
CAPO XVIII. - Dono di orazione.
I fenomeni straordinari finora descritti sono
mirabili segni esterni, che manifestano la presenza di Dio nell'anima. Dio
vive in noi, quando siamo per grazia a Lui uniti; ma in certe anime Egli
si fa sentire con un tocco ineffabile, che arriva all'essenza stessa dello
spirito, secondo un'espressione adoperata dai mistici. Allora succede
questo fatto, che, mentre le forze superiori dell'intelligenza e della
volontà restano come assorbite dalla luce e dalle operazioni divine, i
sensi vengono meno né più sono in grado di operare, come accade
precisamente nell'estasi.
Nulla di ciò verificavasi nell'umanità di Gesù e
in Maria durante la loro vita terrena; perché, sebbene godessero
abitualmente la percezione sperimentale della vita soprannaturale, pure, a
motivo dello stato d'integrità perfetta che portava seco la piena
soggezione dei sensi alla ragione, non pativano smarrimenti nelle potenze
inferiori.
Ora noi ci domandiamo: dato che in Don Bosco si
ravvisano le manifestazioni esterne solite ad accompagnare la vita
mistica, si può senz'altro ritenere che egli sia stato realmente elevato,
alla mistica unione? e fino a qual grado? In altri termini, poiché la
cosa si attua mediante la contemplazione infusa, è possibile venir a capo
di scoprire se e in che misura questo dono della contemplazione infusa
abbia insignito l'anima elettissima di Don Bosco?
A priori, circa la realtà della cosa, non parrebbe
temerario rispondere affermativamente. Infatti, Benedetto XIV, basandosi
sulla storia, ha stimato di poter asserire che «quasi tutti i Santi e
specialmente i fondatori d'ordini hanno ricevuto visioni divine e
rivelazioni» ed ha soggiunto: «Senza dubbio Dio parla familiarmente con
i suoi amici e favorisce soprattutto quelli scelti da lui per opere grandi».
Il Poulain, dopo aver affermato che d'ordinario i
Santi canonizzati, arrivati cioè all'eroicità della virtù, sono stati
favoriti dell'unione mistica, osserva che, se taluno ne sembra privo, non
si può già dimostrare positivamente che vera privazione vi fu, ma
piuttosto bisogna deplorare che manchino documenti per la dimostrazione
storica. Fortunatamente le precauzioni di Don Bosco non valsero a
sottrarci, come si è veduto, tutte le manifestazioni esteriori della sua
vita mistica, così che non difettiamo anche di argomenti a posteriori.
Piuttosto si amerebbe avere eguale sicurezza per
determinare il grado della sua mistica unione con Dio. Dopo maturo esame
sembra che, prescindendo da speciali momenti, in cui l'intensità potè
essere maggiore, crederemmo cosa dimostrabile aver egli posseduto
abitualmente quella grazia d'orazione che è detta da santa Teresa unione
intera, dal Poulain unione piena, da altri, e specialmente italiani, quali
lo Scaramelli e sant'Alfonso de' Liguori, unione semplice. Sant'Alfonso la
descrive così: «Nell'unione semplice, le potenze sono sospese, non i
sensi corporei, benché questi siano molto impediti nelle loro operazioni».
Quindi un tal dono d'orazione presenta due caratteri:
l'anima è tutta assorbita dall'oggetto divino, senza che altro pensiero
ne la distorni, non ha, in una parola, distrazioni; i sensi invece
continuano più o meno ad agire, non viene cioè tolta loro la possibilità
di comunicare col mondo esterno, così la persona può vedere, udire,
parlare, camminare e perciò anche uscire liberamente dallo stato di
orazione. Autorevoli scrittori mistici, raccogliendo da san Tommaso le
nozioni fondamentali su questa delicata materia enumerano e descrivono
sette effetti dell'unione semplice; e noi, per evitare il pericolo di
battere l'aria, li passeremo rapidamente in rassegna, riscontrandone la
presenza in Don Bosco.
La natura però dell'argomento consiglia di non
procedere oltre senza ribadire di proposito un concetto, che dalle cose
precedenti il lettore si sarebbe già potuto formare, almeno vagamente, da
sé. Dell'unione con Dio l'anima di Don Bosco fruiva, diciamolo pure
francamente, senza discontinuità; sembra infatti essere stato questo il
suo dono, di non lasciarsi mai distrarre dal pensiero amoroso del Signore,
per molte e gravi e ininterrotte che fossero le sue occupazioni e
preoccupazioni.
Scorriamo nel Summarium della Positio super
virtutibus il titolo settimo De heroica caritate in Deum, spigolando le
espressioni più salienti intorno a questo tema da una dozzina di
testimonianze, tutte del massimo peso, perché rese da persone che,
parlando di Don Bosco, hanno il diritto di appropriarsi il commosso
prologo della prima lettera di san Giovanni: Quod fuit ab initio, quod
audivimus, quod vidimus oculis nostris, quod perspeximus et manus nostrae
contrectaverunt, et testamur et annuntiamus.
Siano i primi a dirci la loro parola i tre successori
di Don Bosco. Don Michele Rua, del quale è avviato il processo per la
beatificazione: «Quello che ho potuto continuamente scorgere fu la sua
continua unione con Dio. E questi sentimenti d'amor di Dio manifestava con
tanta spontaneità, che si vedeva che sgorgavano da una mente e da un
cuore sempre immersi nella contemplazione di Dio e de' suoi attributi».
Don Paolo Albera: «Era tanta l'unione del Venerabile con Dio, che pareva
ricevesse da lui quei consigli e incoraggiamenti, che dava a' suoi figli».
Don Filippo Rinaldi: «È mia intima convinzione che il Venerabile fu
proprio un uomo di Dio, continuamente unito a Dio nella preghiera». Con i
tre Rettori Maggiori interloquisca Don Giovanni Battista Francesia: «Io
vedeva che il Venerabile era facile a raccogliersi nel Signore».
Ora ascoltiamo altri sette Salesiani, ragguardevoli
per virtù religiose o per cultura o per uffici o per tutte tre le cose
insieme. Le loro deposizioni ci dicono che «la vita di Don Bosco parve
sempre un'unione costante con Dio» tanto che, «in qualunque momento lo
si interrogasse, anche in mezzo agli affari più aridi e più distraenti,
egli rispondeva come uno che fosse assorto nella meditazione»; che «la
carità verso Dio risplendeva nell'unione sua con Lui»; che «viveva
sempre alla presenza di Dio» e «i suoi pensieri erano sempre rivolti al
Signore»; che «la preghiera mentale si può dire essere stata una
pratica connaturale in lui»; che «aveva il cuore così pieno d'amore
verso il Signore che il suo pensiero, la sua parola erano sempre a lui
rivolti»; che «il Venerabile sempre dimostrò un vero e profondo spirito
di preghiera e di unione con Dio, come era dato di assicurarci ogni
qualvolta i suoi lo avessero, avvicinato»; che «aveva una perfetta
unione di spirito con Dio».
Parlino infine due prelati. Monsignor Tasso, dei
Preti della Missione, Vescovo di Aosta, allievo di Don Bosco dal 61 al 65
dice: «Il Venerabile ardeva sempre della più grande carità verso Dio, e
io sono persuaso che viveva in una continua unione con Dio. Ricordo che
tra noi ragazzi c'era questa persuasione, che il Venerabile parlasse
direttamente col Signore, specialmente quando ci aveva da dar consigli
riguardo al nostro avvenire».
Il cardinal Cagliero attesta: «L'amore divino... gli
traspariva dal volto, da tutta la persona e da tutte le parole, che gli
sgorgavano dal cuore quando parlava di Dio sul pulpito, in confessionale,
nelle pubbliche e private conferenze e negli stessi colloqui familiari.
Questo amore fu l'unica brama, l'unico sospiro, il più ardente desiderio
di tutta la sua vita. Lo udii ripetere migliaia e migliaia di volte: -
Tutto per il Signore e per la sua gloria! Era sempre in intima unione con
Dio, quando dava udienza, quando era al tavolino intento a' suoi lavori,
quando s'intratteneva insieme con noi in ricreazione, quando pregava con
fervore da angelo dinanzi a Gesù Sacramentato, o allorché si trovava
all'altare. In qualunque momento lo avvicinassimo, ci accoglieva sempre
con squisita carità e con tanta serena amabilità, come se allora si
levasse dalla più accesa orazione o dalla più divina presenza. Torno a
ripetere ciò che disse a me il cardinale Alimonda, che Don Bosco era
sempre in intima unione con Dio».
Quanti «sempre» in queste deposizioni! L'eloquente
Porporato, che, fatto Arcivescovo di Torino, consolò tanto gli ultimi sei
anni del nostro caro Padre, ripeté il concetto espresso al Cagliero anche
nel suo discorso funebre per la solenne commemorazione di trigesima,
definendo senza più Don Bosco «l'unione continua con Dio».
Coroniamo queste testimonianze con una calzantissima
osservazione di Pio XI. Il grande Pontefice, che amava ricordare anche
pubblicamente e con viva compiacenza d'aver trattato da vicino e non di
passaggio con Don Bosco, affermò d'aver notato «in ogni azione anche non
appariscente» di lui «uno spirito mirabile veramente di raccoglimento,
di tranquillità, di calma, che non era la sola calma del silenzio, ma
quella che accompagna sempre un vero spirito di unione con Dio, così da
lasciare intravedere una continua attenzione a qualche cosa che la sua
anima vedeva, con la quale il suo cuore si intratteneva: la presenza di
Dio, l'unione a Dio».
In conclusione, come di san Bonaventura l'antico
cronista dice che ne' suoi scritti faceva d'ogni verità una preghiera,
così per Don Bosco si deve estendere tale affermazioni a ogni atto della
sua mirabile vita: qualunque cosa facesse, era preghiera.
Questa lunga sfilata di testimonianze ci abbrevierà
non poco il rimanente del cammino; alla sagacia dei lettori non sarà
malagevole trarne gli opportuni riscontri, a mano a mano che verremo
delineando i sette effetti dell'unione semplice, accennati sopra.
Il primo effetto dell'orazione detta di unione
semplice è il solo, di cui siano pressoché inafferrabili le prove. Lo
possiamo designare col nome di liquefazione, vocabolo suggerito dalla
frase biblica: L'anima mia si liquefece tostoché egli [il Diletto] ebbe
parlato. Si direbbe uno struggimento del cuore per ardentissimo fuoco di
carità o, fuor di metafora, un dolcissimo sentimento d'amor divino, che
riempie l'anima di gioia inesprimibile fino a produrre nel corpo un
mistico languore, che talvolta fa cadere in deliquio. Fenomeni sensibili
di tal natura si sono verificati mai in Don Bosco? Risponderemo con due
osservazioni generali e con tre fatti speciali.
Prima osservazione: tra i frutti della contemplazione
uno dei più cospicui è l’umiltà. Il contemplativo, che conosce meglio
d'ogni altro le grandezze di Dio, ha maggiore il sentimento del proprio
nulla; perciò, non che compiacersi del dono divino, ha fin paura quasi
che l'aria lo sappia, e senza impellente necessità di chiedere consiglio
non se ne apre con anima viva, anzi usa ogni mezzo per rattenere in sé la
piena dell'amore. Se non che la sua volontà non può tutto: e anche il
temperamento vi ha la sua parte. La grazia opera nella natura, ma non la
sopprime. Di Luigi Comollo abbiamo veduto che, se dopo la comunione non
avesse dato sfogo all'abbondanza degli affetti, il cuore gli sarebbe
scoppiato. Don Bosco invece reprimeva l'impeto del suo fervore, e così
avrebbe voluto che facesse anche l'amico; ma la resistenza fisica
dell'amico non era la sua.
Or ecco qui la seconda osservazione. Don Bosco,
padrone de' suoi nervi, Don Bosco, tempra d'acciaio o, per dirla con
linguaggio meno profano, Don Bosco, uomo tale da potersi applicare le
parole del Salmista: Anima mea in manibus meis semper, ebbe
a servizio della sua umiltà una volontà dominatrice delle energie
inferiori e quindi capace anche di comprimere la veemenza del sentire,
perché non soverchiasse. Perciò la sola assenza di fenomeni esterni,
quali i sovraccennati, non sarebbe argomento decisivo per negargli il dono
della contemplazione infusa.
Per altro, come si spiega che una persona, tocca,
anzi trafitta con frequenza dai più acuti dispiaceri, da quei dispiaceri
che fanno sanguinar il cuore, si mostri proprio allora più lieta del
solito? Le afflizioni producono dunque allegrezza? Il dolore, nei cuori
elevati alla contemplazione, si trasforma misticamente in amore, e l'amore
è quello che dilata i cuori. Questo è il primo dei tre fatti.
Il secondo è che negli ultimi anni Don Bosco dopo
intere mattinate spese nel ricevere visitatori, soleva, dovunque si
trovasse, starsene almeno per un'ora del pomeriggio nella propria camera,
dove intimi suoi lo sorprendevano sempre seduto allo scrittoio, con la
persona eretta, con le mani giunte, in atteggiamento di gran dolcezza,
tutto assorto nella considerazione delle cose celesti. Era appunto l'ora
in cui lo vide estasiato la suora del capo precedente.
Così pure, negli ultimi anni, - e siamo al terzo
fatto -, quando per le forze affrante la vivezza dei sentimenti prendeva
il sopravvento, egli celebrando ora s'inteneriva visibilmente in tutto
l'essere suo, ora appariva come pervaso da un sacro tremito, massime
nell'istante dell'elevazione.
Sta bene riferire qui, per rincalzo ed a maggiore
illustrazione, una testimonianza resa da Don Cerruti nel processo
informativo. Parlando dei due ultimi anni del nostro Santo, egli depose:
«Quando e il mal di capo e il petto affranto e gli occhi semispenti non
gli permettevano più affatto di occuparsi, era doloroso e confortante
spettacolo vederlo passare le lunghe ore seduto nel suo povero sofà, in
luogo talvolta semioscuro, perché i suoi occhi non pativano il lume, pure
sempre tranquillo e sorridente, con la sua corona in mano, le labbra che
articolavano giaculatorie e le mani che si alzavano di tratto in tratto a
manifestare nel loro muto linguaggio quella unione e intiera conformità
alla volontà di Dio, che per troppa stanchezza non poteva più esternare
con parole. Quanto a me sono intimamente persuaso che la sua vita, negli
ultimi anni soprattutto, fu una preghiera continua a Dio. Così opinano
anche gli altri. Tanto è vero che, entrati in sua camera per vederlo e
parlargli, lo trovavamo sempre come uno che attende alla più profonda
meditazione, pur senza darne segno esteriore, che il suo volto era sempre
lieto, sereno e tranquillo, com'erano di pace, di carità e di fede le
parole che gli uscivano di bocca».
Secondo effetto dell'orazione passiva è un soave
bisogno di pianto. Nell'intima unione dell'anima con Dio, l'amorosa
conoscenza della divina bontà sveglia dolci e vive emozioni nel cuore,
che, non capendo più in se stesso, chiede aiuto agli occhi, secondo
un'immagine di santa Caterina da Siena.
Don Bosco ebbe il dono delle lacrime alle quali non
gli bastavano spesso le forze di comandare.
Nell'ultimo viaggio a Roma, celebrando nella nuova
chiesa del Sacro Cuore, più di quindici volte ruppe in pianto, mentre il
sacerdote che l'assisteva s'ingegnava di distrarlo, perché potesse
finire. Il pianto gli si ripigliò dopo con istraordinaria commozione dei
molti che lo circondavano accompagnandolo. Durante tutta la vita
sacerdotale, predicando su certi argomenti, per evitare di piangere
pensava apposta a cose ridicole, ma indarno. Queste sue lacrime però
facevano un bene grandissimo a chi n'era testimonio, motivo forse non
estraneo ai disegni della Provvidenza nel concedergliele così
irrefrenabili. Più ampi ragguagli ne abbiamo dati altrove, né servirebbe
ora il ripeterci.
Terzo effetto è sentire la presenza di Dio con una
certezza, che esclude fin la possibilità del dubbio. Santa Teresa
dichiara la cosa in questi termini: «Dio viene a porsi nell'intimo
dell'anima siffattamente, che essa, rientrata in sé, non può in alcun
modo dubitare di essere stata in Dio né che Dio è stato in lei; la qual
verità le rimane così saldamente impressa, che, quand'anche passasse più
anni senza venire di nuovo elevata a quello stato, non le sarebbe
possibile né dimenticare il favore ricevuto né dubitare della sua realtà».
Don Bosco, era pieno del pensiero di Dio: dimostrarlo
qui sarebbe ripetere cose dette. Derivava da ciò il fascino, di cui parla
monsignor Tasso, quando dice: «Bastava trattenersi un po' con lui per
subito accorgersi che era veramente homo Dei; il soprannaturale traspariva
da ogni sua parola e da tutta la sua persona. Questo l'ho provato io per
esperienza».
Quarto effetto: forza, coraggio, inalterabile
pazienza a tutto soffrire per amor di Dio. Anzi, queste anime sono tanto
accese del divino amore, che ardono nella brama di patire per Iddio; la
qual brama va ognor crescendo insieme con quella di essere sempre più
sue. Don Bosco fu così. È vero che non poche delle pagine precedenti
cantano la sua magnanimità sovrumana in mezzo alle pene; tuttavia due
nuove testimonianze ce ne tramandino ancora l'eco.
Nella prima, riferentesi alle pene morali, il Servo
di Dio Don Rua, enumeratele, prosegue: «Fu sempre ammirabile la sua
pazienza, la sua rassegnazione, il suo coraggio. Pareva che le difficoltà
e le tribolazioni gl'infondessero forze, talmente che, sebbene addolorato,
specialmente quando le opposizioni gli venivano dalle autorità
ecclesiastiche, tuttavia non perdeva mai la sua serenità; anzi pareva che
appunto in quei tempi di tribolazione, egli acquistasse maggior coraggio;
giacché lo si vedeva più allegro e più faceto del solito». Riguardo
poi alle pene fisiche, già da noi descritte, molte e gravi, lo storico
Don Lemoyne attesta: «Egli non pregava mai per la sua guarigione, e così
divenivano volontarie le sue sofferenze. Di queste mai si lamentò né
s'impazientì, e continuava a lavorare».
Quinto effetto, un desiderio ardente di lodar Dio. La
persona, infiammata d'amor divino, vorrebbe essere tutta voce per non far
altro che dar lode al Signore; vorrebbe anzi che così Egli fosse
universalmente conosciuto, amato, glorificato. Sa bene che Dio maior est
omni laude; pure al pensiero di sì immensa grandezza e bontà non gusta
maggior delizia che nell'onorare, adorare, ringraziare Dio.
Il grande Serafino d'Assisi, per far paga questa
brama cocente, chiamava in aiuto, con infocati slanci di carità, tutte le
creature, anche le irragionevoli, anche le inanimate, anche le ideali,
perché si unissero a lui in lodare il comune Creatore. Ma nella Chiesa
all'unità va congiunta la varietà, avverte san Francesco di Sales.
Sull'immancabile fondo d'oro della carità - «tutto è dell'amore,
nell'amore, per l'amore e di amore in seno alla Chiesa» - si dispiega la
policromia mirabile dei Santi.
Don Bosco, anima così innamorata di Dio, aveva tre
modi suoi per invitare e incitare a lodar Dio: poneva la più scrupolosa
diligenza nel decoro del culto divino, parlava con unzione di Dio e delle
cose divine a tutti quelli che anche solo di sfuggita lo avvicinassero, e
si sacrificava con zelo invitto a promuovere sempre la divina gloria.
Queste tre cose, specialmente l'ultima che poi
abbraccia tutto, hanno dato qui sopra sì copiosa materia da scrivere,
che, se si volesse farne astrazione ben poco rimarrebbe del presente
lavoro. Eppure di fronte a un'ampia trattazione storica il detto finora è
informe abbozzo a petto del quadro.
Sesto effetto, desiderio grande di giovare al
prossimo. L'anima che vive di Dio, sovente riesce a rendersi utile al
prossimo senza neanche avvedersene, perché nell'atto o di accogliere o di
consolare o di soccorrere, - che sono, secondo san Tommaso, le tre maniere
di aiutare i bisognosi - riceve misteriosamente dall'alto aiuti, che ne
rendono l'opera efficace.
Dire Don Bosco è dire carità: carità inesauribile
nel trattare coi prossimi, carità ineffabile nel sollevare afflitti e
confortare moribondi, carità eroica nell'andar in cerca dei mezzi per
praticare la carità. Per questo il mondo ama Don Bosco: nos credidimus
caritati.
Piace su questa carità soprannaturale leggere il
pensiero sintetico di colui, che fu di Don Bosco il vero alter ego e che
con Don Bosco portò per lunghi anni pondus diei et aestus: «La sua vita
fu consumata nell'esercizio di questa carità. La sua carità in parte si
può dire che l'ha prevenuto come dono speciale della divina volontà e
andò poi crescendo e perfezionandosi a misura che si avanzava negli anni.
Egli vedeva nel suo prossimo l'opera di Dio e Dio stesso nel prossimo,
vedeva in ciascuno degli uomini un fratello in Gesù Cristo, e quindi li
amava per amor di Dio e tutte le sue sollecitudini impiegava senza
risparmio per attirare tutti a Dio. Non era semplicemente naturale
simpatia, era l'amore di Dio, la carità di Gesù Cristo, che lo stimolava
a spendersi tutto per il suo prossimo».
Settimo ed ultimo effetto dell'orazione di unione
semplice, e il più mirabile in un povero figlio d'Adamo, è la pratica
abituale delle virtù teologali, cardinali e morali in grado eroico, in
una misura cioè che e per intensità e per costanza eccede i limiti
comunemente propri degli uomini virtuosi. Dio, scendendo a tanta larghezza
di doni con un'anima, nell'arricchirla di ogni virtù vuole che tutta la
Chiesa se ne avvantaggi col riceverne edificazione e onore; il che appunto
viene in conseguenza dell'eroismo nell'esercizio delle virtù cristiane.
In tale stato, per la pioggia sovrabbondante delle grazie celesti,
all'anima non resta altro da fare che cooperarvi mediante il semplice suo
consentimento.
Né con questo vi è pericolo che l’anima
s'inorgoglisca, quasi dimentica del vero essere suo; anzi, quanto più
s'innalza nel conoscimento amoroso di Dio, tanto più s'inabissa nel
proprio nulla. Cosicché, crescendo l'umiltà, crescono pure le grazie, e
cresce nel contempo lo slancio entusiastico e visibilissimo per ogni virtù,
nessuna eccettuata.
È notevole al riguardo un'osservazione del Poulain,
il quale scrive: «Dio non viene solo nell'anima. La sua azione
santificatrice è tanto maggiore e più sensibile quanto più alta è
l'orazione. L'anima, saturandosi di Dio nell'unione mistica, si sente
insieme, e non ne sa il come, saturare d'amore, d'umiltà e dello spirito
di sacrificio. Dio stesso le dà occasione di esercitarvisi, mandandole
prove su prove: tentazioni, malattie, insuccessi, ingiustizie, disprezzi».
Intavolare adesso una discussione sull'eroicità
delle virtù di Don Bosco, dopoché la Chiesa ha sentenziato, sarebbe
portar acqua al mare. Un rilievo però merita di venir posto in evidenza:
balza fuori spontaneo dall'ultimo periodo sopra citato. Dell'intervento
divino, segnalato ivi dall'autore, la vita intera di Don Bosco ha
sperimentato la varia e ininterrotta vicenda. Ora si badi all'insegnamento
di san Paolo, quando scrive: Il Signore usa la sferza con ogni figliuolo
che riconosce per suo. Il qual linguaggio, duro e impervio ai mondani,
significa che le tribolazioni, essendo mezzi usati da Dio per purificare e
spingere le anime nella via della perfezione, costituiscono per sé una
prova dell'amore di Dio. Prove tali di amore Don Bosco ebbe da Dio in
tutto il corso della sua vita; prove simili di amore egli ha date a Dio,
praticando eroicamente in mezzo alle croci inviategli ogni virtù dal
principio alla fine della sua mortale carriera. La vita di lui ci sta
dinanzi in una chiarità diafana, nella quale niente si sottrae al nostro
sguardo scrutatore; ebbene niente vi scorgiamo che non sia santità.
Dice il Cagliero, e con le sue parole affrettiamoci
alla conclusione: «L'eroismo delle sue virtù praticate nella
fanciullezza e gioventù mi fu attestato più volte da' miei conterranei;
da sacerdote, e direttore dell'Oratorio e Superiore della Congregazione lo
attestano con me tutti gli altri confratelli, spettatori della sua vita.
Di ritorno dall'America, trovai il Servo di Dio più sensibile e più
ardente nella sua carità, più unito con Dio e maggiormente ripieno di
spirituale bontà; vidi anzi, se l'amor filiale non m'inganna, la sua
veneranda canizie circondata da una specie di celeste aureola e di
angelico aspetto e in qualche modo quasi già glorificata la sua vita,
spesa tutta nel sacrificio di se stesso per la gloria di Dio e per la
salvezza delle anime».
Ancora un'osservazione. Ma dunque anche Don Bosco è
stato un mistico? Sappiamo bene che a non pochi sembrerà questa, per non
dir peggio, un'idea peregrina; ma la colpa non è della mistica
certamente. Due false idee stravolgono le menti dei profani. Credono che
mistico si opponga a reale, si oppone a fisico naturale. Mistico si dice
di ciò che costituisce una realtà soprannaturale. E poi s'immaginano che
gli uomini detti mistici vivano così assorti nelle loro contemplazioni
che nulla vedano e nulla intendano delle cose di questo mondo.
Invece un autore che fa testo in materia, tratteggia
così la figura dei mistici: i veri mistici sono persone di pratica e di
azione, non di ragionamento e di teoria. Hanno il senso
dell'organizzazione, il dono del comando e si rivelano forniti di ottime
doti per gli affari. Le opere da essi fondate sono vitali e durevoli; nel
concepire e dirigere le loro imprese danno prova di prudenza e di
ardimento e di quella giusta idea delle possibilità che è il carattere
del buon senso. E infatti sembra proprio che il buon senso sia la loro
qualità predominante: un buon senso non turbato né da esaltazioni
morbose, né da immaginazioni disordinate, e unito a una molto rara facoltà
di discernimento». Questo, se non m'inganno, è il vivo ritratto di Don
Bosco, nel quale la contemplazione illuminava e dirigeva l'azione.
Donoso Cortes diceva che, se avesse dovuto trattare
con qualche diplomatico la questione più spinosa, avrebbe cercato per
consigliere e guida l'uomo più mistico. Chi più mistico di san Bernardo?
Ebbene, si occupò di tutto e di tutti, sicché non si può scrivere la
storia della sua vita senza scrivere quella del suo tempo. E santa Teresa
e tanti altri? Si può applicare a Don Bosco quello che fu detto di san
Bernardo, sempre occupato in tanti affari: «La periferia, in quella sua
vita, non dava noia al centro, e il centro non dava noia alla periferia».
Periferia era l'attività esteriore, centro il mistico raccoglimento
interno. Che le anime pure e illuminate non siano buone a nulla, dice
l'autore citato, è una scoperta moderna.
CAPO XIX. - Nel placido tramonto.
Dopo una vita straricca di doni soprannaturali come
quella di Don Bosco, chi sa quanti si sarebbero aspettato che
all'approssimarsi della fine dovessero sfolgorare in lui lampi
straordinari, preludio dei fulgori eterni; invece non ne fu nulla, ma
tutto passò nelle forme e nelle condizioni solite a riscontrarsi in chi
si avvia a una morte preceduta da lunga e dolorosa infermità: se pure non
si deve considerare straordinario il modo, con cui Don Bosco sopportò
fino all'ultimo i suoi mali. La santità cresce fino al termine estremo
della vita; allora anzi, meglio di prima, si vede chi è veramente santo.
«La morte di un santo, scrive il Faber, è un'opera
d'arte divina, un capolavoro soprannaturale tutto risplendente di eterna
bellezza; non ve ne sono due che si somiglino, e tutte sono ammirabili».
Il medesimo autore, enumerando le morti più preziose agli occhi di Dio,
ne mette fra queste una, che chiama «morte del distacco». Fa una simile
morte chi non ha nulla da sacrificare, nulla di cui spogliarsi, nulla da
lasciare, perché la sua anima o non s'è mai attaccata alla terra o se n'è
staccata da molto tempo, così che la morte spirituale andò innanzi alla
morte fisica. «Una tal morte, dice, è puramente un atto di amore.
Potrebbe dirsi l'esecuzione di un rito sacro, anziché di un castigo.
L'uomo distaccato non è più figlio della terra, ma è un angelo nei
vincoli di una carne mortale».
Sotto tale aspetto ci si presenta Don Bosco durante i
quarantadue giorni, nei quali si preparava a lasciare la terra per il
cielo: uomo non più di questo mondo, ma tutto rapito nell'aspettazione
fidente dei beni futuri. Il Signore dispose che nel non breve periodo
della malattia ci edificasse dal letto de' suoi dolori con la sua eroica
pazienza, con il suo inestinguibile ardore per il bene delle anime e con
la sua fervorosa pietà: triplice effetto di quella sua non mai interrotta
unione con Dio, che lo faceva soffrire per amor di Dio, amare di
soprannaturale amore il prossimo e guardare con filiale tenerezza il
Signore.
Con queste tre emanazioni della sua unione con Dio può
trovare posto anche la sua divozione incondizionata al Vicario di Gesù
Cristo. Don Bosco però è sempre Don Bosco: non aspettiamoci dunque
esteriorità impressionanti: gli intimi suoi sentimenti s'intuiscono
attraverso manifestazioni misurate e tranquille. Non è possibile che agli
occhi di chi bene osserva stia nascosta l'interiorità di quegli uomini,
la cui vita abscondita est cum Christo in Deo? Andiamo pertanto a
considerare una a una le particolarità suindicate.
A Don Bosco la pazienza non venne meno un istante in
tutte le penose vicende del male che lo afflisse, perché lo sorreggevano
le tre virtù teologali. La fede gli faceva riguardare l'infermità come
inviatagli da Dio per il bene dell'anima sua, la speranza gl'infondeva
imperturbabile quiete di animo nella fiduciosa attesa degli aiuti divini
per sopportare tutti gl'incomodi dall'infermità causati; la carità
gl'ispirava conformità perfetta al divino volere, poiché soffriva per
puro amor di Dio. Questa umile pazienza era da lui esercitata in parole,
in opere e in pensieri.
Nessuno in quarantadue giorni udì mai dalle labbra
di Don Bosco il minimo lamento né per le sofferenze né per il servizio né
per i modi e mezzi di cura. Ma, senza questo, è cosa tanto ordinaria nei
malati parlare del loro stato! È uno sfogo della natura. Godono in
raccontare ogni caso occorso, vogliono che si sappia come han passato la
notte e il giorno, descrivono l'andamento del male e, pronosticano quello
che verrà. Quando poi non cercano deliberatamente di muovere a
compassione di ciò che soffrono, gustano almeno di sentirsi compassionare
spontaneamente da chi li visita, massime se li si loda di saper sopportare
i loro incomodi. Nulla di tutto questo in Don Bosco.
Il coadiutore che lo vegliò per quaranta notti,
ritrasse con semplicità nei processi la sua maniera di comportarsi a tal
riguardo dicendo: «Metteva in pratica il suo motto che mi ripeteva
sovente da sano: "Fare, patire e tacere". Allora, non potendo più
fare, pativa e taceva». Taceva, s'intende, sul suo patire tanto che della
parola non cessò mai di servirsi, finché non gli fu impossibile, a scopo
di bene.
Una volta sola, due giorni prima di morire, gli
disse": - Caro mio, quanto soffro! Ma tosto fece seguire
un'espressione di umiltà: - Se continua così ancora un poco, non so se
saprò resistere. Indi si rianimò, alzando gli occhi al cielo ed
esclamando con gran fede: - Sia fatta la volontà di Dio in tutte le cose!
Spesso, secondo il solito, dissimulava il suo soffrire, pronunciando motti
arguti, che distraevano l'attenzione degli astanti, come quando ebbe
subita l'operazione, della quale parlai altrove. Pochi minuti dopo, a chi
gli domandò come stesse: - Mi hanno fatto un taglio da maestro, -
rispose. E l'altro: - Povero Don Bosco! avrà sentito molto male. Ma egli:
- Credo che quel pezzetto di carne staccatomi non abbia sentito nulla.
Una sera l'Economo Generale Don Sala: - Don Bosco,
gli chiese, si sente molto male, non è vero? - Eh, sì! rispose
modestamente. Ma tutto passa, e passerà anche questo. Ciò udito, Don
Sala gli domandò che cosa potesse fare per alleviarlo un poco. Prega! fu
la risposta. Poi egli stesso, giunte le mani, si raccolse in preghiera. A
quanti lo compassionavano, rispondeva: - Il Signore ha sofferto più di
me.
Paziente si mostrò in ogni suo atto. La malattia fu
lunga e dura. L'esperienza insegna che in simili casi anche i temperamenti
più saldi hanno i loro scatti: la nervosità li eccita. Don Bosco si
abbandonò sempre nelle mani dei medici che lo curavano, e delle persone
che lo assistevano. Si può ben immaginare quante e quali fossero le
premure di queste ultime. L'infermo, dimentico di sé, esprimeva il suo
rincrescimento per i sacrifici che dovevano fare; e siccome la mielite nel
muoversi gli causava spasimi e quelli se n'accorgevano, egli per toglierli
di pena usciva in qualche facezia.
Che impresa allorché bisognava trasportarlo da un
letto all'altro! Sebbene si facesse questo con infiniti riguardi, erano
inevitabili gravi sofferenze, anche perché mancavano mezzi adatti, e gli
esecutori non avevano l'abilità degli infermieri di professione. Il
povero paziente, sempre tranquillo, si lasciava muovere e trattare come un
automa, dicendo ogni tanto qualche piacevolezza. E si che la manovra si
doveva ripetere quasi tutti i giorni. Una notte voleva da bere, ma gli si
dovette negare per la troppa frequenza del vomito: non si scompose, ma
disse: - Bisogna imparare a vivere e a morire; l'una e l'altra cosa. Di
sue esigenze per avere il conforto di qualche delicatezza, non è nemmeno
da parlare: una volta anzi s'allarmò, perché gli parve di avvertire
alcun che d'insolito.
Quando nelle ultime settimane lo crucciava un'ardente
sete, che né acqua né ghiaccio valevano a smorzare, si ricorse all'acqua
di seltz. Questa sembrò arrecargli sollievo; ma egli, credendo che fosse
una bevanda costosa, rifiutò assolutamente di giovarsene. Per acquietarlo
bisognò fargli vedere che costava sette centesimi alla bottiglia. Cade
quanto mai opportuna anche qui un'osservazione del Faber. «Non vi è
carattere, dice, più universale nei Santi, che il loro orrore per le
dispense, e il crescere di questo orrore è proporzionato al crescere del
bisogno e dei diritti che ne possono avere».
Quali fossero i pensieri che gli occupavano la mente,
continueremo a vederlo di mano in mano che andremo avanti. Qui in tema di
pazienza basti accennare al suo spirito di rassegnazione alla volontà di
Dio. Dopo una vita attiva come la sua, parrebbe che dovesse farglisi
innanzi spesso l'idea del bene che avrebbe continuato a compiere,
ricuperando la salute. I malati accarezzano volentieri e senza rimorso
tale supposizione, immaginandosi di bramare ciò unicamente per servire
Dio. Ma le anime sante sanno che il miglior modo di servir Dio e servirlo
a modo suo, e quindi, se Dio vuole l'infermità, così sia!
Questo sentimento di perfetta rassegnazione non
abbandonò un istante Don Bosco. Tutti i testimoni oculari sono unanimi a
proclamarlo. Reiteratamente infatti or l'uno or l'altro i Superiori lo
eccitavano a pregare per ottenere la guarigione, persuasi com'erano che,
se anche lui avesse pregato, la grazia si sarebbe ottenuta. Ma egli non
acconsentì mai; ogni volta ripeteva: - Sia di me la santa volontà di
Dio. Anzi, taluno, suggerendogli giaculatorie, fece il tentativo
d'inserire quasi di soppiatto fra le altre un: - Maria Ausiliatrice,
fatemi guarire. Ma a questo punto Don Bosco tacque.
Nell'esprimere la sua rassegnazione, soleva alzar le
braccia al cielo, giungendo poi le mani. Paralizzataglisi a poco a poco la
parte destra e reso immobile quel braccio, non cessava di alzare il
sinistro, ripetendo: - Sia fatta la vostra santa volontà.
- Perduta infine la parola, levava di tanto in tanto
la mano nello stesso modo, rinnovando molto probabilmente col muto gesto
la segreta offerta della vita al Signore.
Don Bosco, che per tutta la vita aveva messo in
pratica la massima di un autore d'ascetica: «Una conversazione
sacerdotale deve sempre suggerire un Sursum corda», non poteva
scordarsene sul finire dei suoi giorni. Già di per sé il vederlo là
sofferente, ma tutto composto a rassegnata tranquillità, riempiva di
edificazione; aveva però sempre parole che facevano del bene ai presenti
e stimolavano a farne agli assenti. Parole veramente poteva dirne poche;
ma il suo cuore, unito a quello di Gesù, gli metteva nella voce una
vibrazione tale, che suscitava emozioni salutari.
Con quelli che erano più assidui al suo capezzale,
come il suddetto coadiutore e il giovane segretario Don Viglietti, non
aveva solo affettuose espressioni di ringraziamento o amabili
piacevolezze, ma anche esortazioni a rendergli per motivi soprannaturali i
servizi consueti. Al primo, per esempio: - Ricordati, mio caro, che in fin
di vita raccoglieremo il frutto delle buone opere fatte. Procura di
lavorare per la gloria di Dio, e il Signore ti pagherà bene. E al secondo
con paterna bontà: - Dirai a tua madre che la saluto, che cerchi di far
crescere cristianamente la famiglia e che preghi anche per te, affinché
sia sempre un buon prete e salvi molte anime.
Questa del salvare anime era una delle sue
raccomandazioni più frequenti. Disse un giorno a Mons. Cagliero: -
Domando una cosa sola al Signore, che possa salvare la povera anima mia. A
te raccomando di dire a tutti i Salesiani che lavorino con zelo. Lavoro,
lavoro! Adoperatevi indefessamente a salvare anime. E alla Superiora
Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, dopo averla benedetta: -
Salvate molte anime. Di nuovo al Cagliero, cinque giorni prima della
morte, mormorò con gran fatica: - Salvate molte anime nelle Missioni.
Il Cagliero amò poi sempre ricordare e commentare
animatamente la calda raccomandazione del caro Padre circa il lavoro. Non
per nulla Don Bosco la rivolse in quegli estremi a preferenza di altre. La
laboriosità è una delle più genuine tradizioni salesiane. Sì può
estendere anche ai figli di Don Bosco quello che Don Marmion dice dei
figli del suo S. Benedetto.
La Regola salesiana come la benedettina non prescrive
penitenze straordinarie, come cilizi, discipline e simili; ma il lavoro
costituisce nell'una e nell'altra famiglia religiosa la forma di penitenza
fatta per esse. Tutti nella Chiesa vanno alla vita religiosa per cercare
Iddio. Ora le due Regole impongono di cercarlo non solo con la preghiera,
ma anche col lavoro: ora et labora, troverà Dio tanto più chi più gli
darà gloria, e lo glorificherà con la libera disposizione delle sue
forze impiegate nel servire la sua volontà suprema secondo l'obbedienza.
Ecco in fondo il pensiero che a Don Bosco morente mise sulle labbra il
pressante appello.
Le due Congregazioni da lui fondate richiamavano
naturalmente la sua paterna attenzione; gli estremi suoi consigli erano
per la santificazione dei loro membri e per la loro conservazione e
feconda attività a bene delle anime. Richiesto di un ricordo per le
Figlie di Maria Ausiliatrice: - Ubbidienza, rispose. Praticarla e farla
praticare. E a Don Bonetti, quando mancavano appena tre giorni alla fine:
- Ascolta. Dirai alle Suore che, se osserveranno le Regole, la loro
salvezza è assicurata. Il giorno avanti, con un filo di voce e in tono
incoraggiante, aveva detto a Mons. Cagliero: - La Congregazione non ha
nulla a temere. Ha uomini formati. Prendila a cuore. Aiuta gli altri
superiori in tutto quello che potrai. Quella sera Don Sala, trovandolo un
po' riposato, quasi per fargli animo, gli disse: - Don Bosco, ora si
troverà contento, pensando che dopo una vita di tanti stenti e fatiche è
riuscito a fondare case in varie parti del mondo e a stabilire saldamente
la Congregazione Salesiana. Sì, rispose. Ciò che ho fatto, l'ho fatto
per il Signore. Si sarebbe potuto fare di più. Ma faranno i miei figli.
La nostra Congregazione è condotta da Dio e protetta da Maria
Ausiliatrice.
Non faccia meraviglia che si ponga qui un cenno sulla
divozione di Don Bosco verso il Vicario di Gesù Cristo, manifestata sul
letto di morte. Non pensava egli e non insegnava essere il Sommo Pontefice
l'anello che unisce gli uomini a Dio? Gli rese una magnifica testimonianza
Pio XI, quando affermò di scienza propria che Don Bosco metteva al di
sopra di ogni gloria l'essere il fedele servitore come di Gesù Cristo e
della sua Chiesa, così del suo Vicario.
Orbene, durante la malattia, allorché fra un dolore
e l'altro poteva riaprire il cuore ai nobili sentimenti che lo avevano
animato nel corso di tutta la vita, fece su tal proposito a Mons. Cagliero
una rivelazione; disse infatti che la cosa era stata tenuta fino a quel
punto segreta. E il geloso arcano consisteva in questo: - La Congregazione
e i Salesiani l’hanno per iscopo speciale di sostenere l'autorità della
Santa Sede, dovunque si trovino, dovunque lavorino.
Chi conosce i tempi che furono suoi, sa comprendere
facilmente tutto il perché dell'aver occultato agli occhi del pubblico un
simile articolo del suo programma di azione. Ritornò sull'argomento in
un'affettuosa visita fattagli dal Card. Alimonda, Arcivescovo di Torino.
Non accennò più a voler rivelare un mistero, ma espresse un desiderio, e
furono solenni le sue parole: - Ho passato tempi difficili, Eminenza. Ma
l'autorità del Papa... l'autorità del Papa. L'ho detto qui a Mons.
Cagliero: i Salesiani sono per la difesa dell'autorità del Papa, dovunque
lavorino, dovunque si trovino. Si ricordi, Eminenza, di dirlo al Santo
Padre.
Il Cardinale due mesi dopo, nella solenne
commemorazione del defunto, narrato della visita e riferite quelle parole,
proseguiva: «In quelle parole il venerabile Uomo mi apriva il suo
testamento. Che dico aprire? L'intera sua vita privata e pubblica è nota
all'universo qual testamento papale». E quando il successore di Don Bosco
nella prima udienza accordatagli da Leone XIII rievocò questi sentimenti
del lacrimato Estinto, il Papa esclamò: - Oh! si vede che Don Bosco era
un santo, simile in questo a S. Francesco d'Assisi che, venuto a morire,
raccomandò caldamente ai suoi religiosi di essere sempre figli devoti e
sostegno della Chiesa Romana e del suo Capo. Praticate queste
raccomandazioni del vostro Fondatore, e il Signore non mancherà di
benedirvi. Senza dubbio, chi si accingerà a studiare la devozione di Don
Bosco al Vicario di Gesù Cristo, troverà abbondante materia per
dimostrare che tale devozione era fatta di venerazione profonda, di amore
cordiale e di obbedienza assoluta.
Ci rimane a dire della pietà, resa manifesta e
insieme alimentata, come sempre, dalla preghiera, dalle due principali
divozioni del Santo e dai Sacramenti: «Pregava quasi continuamente»,
attesta il solito coadiutore nei processi. «Continuamente pareva assorto
in Dio», rincalza a sua volta il segretario. «Lo dicevano, soggiunge, il
suo contegno umile e divoto, i suoi sguardi ardenti al Crocifisso, i baci
all'abitino e alle medaglie della Madonna, le giaculatorie che numerose e
frequenti gl'infioravano il labbro». L'abitino era quello del Carmine,
indossatogli per suo desiderio durante la malattia dal Salesiano che aveva
la facoltà d'imporlo. Quanto al Crocifisso, oltre a quello che portava
ordinariamente al collo, negli ultimi giorni ne aveva con viva compiacenza
ricevuto uno, baciando il quale poteva acquistare ogni volta indulgenza
plenaria. A chi, vedendolo penare più del solito, gli aveva suggerito di
pensare per confortarsi ai patimenti di Gesù, rispose: - È quello che
faccio sempre.
Nonostante i mali che lo travagliavano, voleva che il
segretario dicesse ogni mattina con lui le preghiere, gli leggesse la
meditazione e gli facesse altre pie letture. Tutte le mattine, fino alla
festa di S. Francesco di Sales, assistette divotamente alla santa Messa,
appoggiato sui guanciali; la celebrava il medesimo segretario nella
cappella attigua alla sua stanzetta. In gennaio, provando uno smarrimento
di testa, disse: - Mi sembra di pregare sempre; ma non lo so di certo.
Aiutatemi voi.
Non solo pregava, ma faceva pregare. Da principio
disse ai Superiori che pregassero tutti per lui e invitassero tutti i
Salesiani a pregare, affinché potesse morire in grazia di Dio, giacché
non desiderava altro. Nel pomeriggio del 24 gennaio, stando malissimo,
mandò a chiamare il giovane sagrestano Palestrino, del quale aveva molta
stima, e gli fece dire che rimanesse a pregare Gesù e Maria per tutto il
tempo libero, affinché, mentre aspettava l'ora sua, potesse avere viva
fede. Dopo, il giovane venne introdotto presso di lui che gli ripeté la
stessa cosa tutto commosso, e poi lo benedisse. Verso sera, contrariamente
a ciò che succede negl'infermi, si sentiva più sollevato, il che come
disse a Don Lemoyne, era in grazia delle preghiere di quel buon giovane.
In seguito, crescendogli la difficoltà di parlare, si raccomandò agli
astanti che gli suggerissero giaculatorie divote.
Quante novelle prove diede della sua costante e
fervida divozione a Maria Santissima ed a Gesù Sacramentato! Godeva di
ricevere spesso la benedizione di Maria Ausiliatrice secondo una formula
approvata dalla Congregazione dei Riti. Teneva abitualmente in mano la
corona del rosario. Una volta, baciando la medaglia, esclamò: - Ho sempre
avuto grande fiducia nella Madonna. Ma anche senza che lo dicesse,
chiunque avesse osservato come ne baciava l'effigie, avrebbe pensato di
lui la medesima cosa.
Sul finire del dicembre disse a parecchi Superiori: -
Raccomando ai Salesiani la divozione a Maria Ausiliatrice e la frequente
comunione. Parve a Don Rua che questa potesse essere la strenna da mandare
alle Case per il nuovo anno, e gliene fece parola. Questo sia per tutta la
vita, - gli rispose. Poi annuì al desiderio espressogli. Poco dopo,
rivolto a Mons. Cagliero, gli disse: - Propagate la divozione a Maria
Santissima nella Terra del Fuoco. Se sapeste quante anime Maria
Ausiliatrice vuol guadagnare al cielo per mezzo dei Salesiani! E ancora
un'altra volta al medesimo: - Quelli che desiderano grazie da Maria
Ausiliatrice, aiutino le nostre Missioni e saranno sicuri di ottenerle.
Ai primi di gennaio, quando tutti trepidavano per
timore dell'imminente catastrofe ,ecco un improvviso progressivo
miglioramento. Ci videro tutti una grazia particolare per le tante
preghiere che si facevano in ogni parte. La sera del 7 dettò per Don
Lemoyne al segretario un messaggio, che diceva: «Come si può spiegare
che una persona, dopo ventun giorni di letto, quasi senza mangiare, con la
mente indebolita all'estremo, ad un tratto sia ritornata in sé,
percepisca ogni cosa e si senta in forze e quasi capace di alzarsi,
scrivere, lavorare? Sì, mi sento sano in questi momenti, come se non
fossi mai stato ammalato. A chi domandasse il come, gli si può rispondere
così: Quod Deus imperio, tu prece, Virgo, potes». È indescrivibile la
gioia che invase l'Oratorio a si inaspettata buona novella. Nei punti
della casa più frequentati si leggeva, su cartelli appesi ai muri, il
verso latino, che esaltava l'onnipotenza supplicante di Maria.
Durante la vita aveva pregato chi sa quante volte la
Madonna, affinché lo aiutasse a salvare i suoi giovani e a ben dirigere
la Congregazione. Il ricordo di tante invocazioni, in momenti di
assopimento, gli suscitava dentro la rappresentazione di scene quali aveva
vedute spesso, nelle quali gli era stato spontaneo e fervido il ricorso a
Maria.
Un giorno, scossosi a un tratto, battè le mani
gridando: - Presto, presto a salvare quei giovani! Maria Santissima,
aiutateli! Madre, Madre! Un altro giorno fu udito nel dormiveglia
esclamare: - Ecco, sono imbrogliati! Su, coraggio! avanti! sempre avanti!
Madre! Madre! E ripetè una ventina di volte questa tenera invocazione. Un
po' più tardi, essendo pienamente in sé, giunse le mani e con ardore
replicò tre volte: - Oh Maria! oh Maria! oh Maria! Quel chiamare la
Madonna con sentimento così filiale fu cosa molto frequente sull'ultimo,
finché gli durò con la conoscenza la favella.
Il suo serafico ardore per Gesù Sacramentato gli
traspariva dal volto nel ricevere la santa Eucaristia. Ogni mattina,
tranne le poche volte che non era potuto restar digiuno, faceva la
comunione, alla quale non gli sembrava mai di essere abbastanza preparato;
giacché quasi tutti i giorni, visitato dal suo confessore si voleva
riconciliare. Si comunicò fino al 29 gennaio, festa di S. Francesco di
Sales. Quella mattina alcuni pensavano che non si dovesse comunicarlo,
perché sembrava fuori dei sensi; ma prevalse l'opinione contraria. Si
ritenne che al momento giusto si sarebbe riavuto. E fu così. Avvisato che
presto sarebbe venuto il Signore, non si mosse. Ma appena il celebrante
gli si accostò con l'ostia santa e disse ad alta voce il Corpus Domini
nostri Jesu Christi, l'infermo si scosse, aprì gli occhi, fissò l'ostia,
giunse le mani e, ricevuto il Signore, stette raccolto, ripetendo parole
di ringraziamento suggeritegli dal Superiore che lo assisteva.
Questa fu l'ultima sua comunione; ma non aveva
aspettato tanto a domandare il Viatico. Da tre giorni appena rimaneva a
letto, quando disse al segretario: - Fa' che tutto sia pronto per il santo
Viatico. Siamo cristiani, e si fa volentieri a Dio l'offerta della propria
vita. Il tono parve così risoluto, che nessuno dei Superiori ardì
assumersi la responsabilità di differire; perciò fu deciso per
l'indomani, vigilia di Natale. Quando tutto era pronto, venne avvertito.
Allora, come tutto preoccupato, disse ai presenti: - Aiutatemi, aiutatemi
voialtri a ricevere Gesù. Io sono confuso. In manus tuas, Domine,
commendo spiritum meum.
La processione, formata da tutto il piccolo clero e
da quanti sacerdoti e chierici poterono prendervi parte, si avvicinava.
Udendo i canti, Don Bosco s'intenerì; ma al veder comparire il Santissimo
recato da Mons. Cagliero, ruppe in pianto. Rivestito della stola, «sembrava
un angelo», nota qui il diario. Monsignore, parlandone nei processi,
disse che gli era parso di vedere il S. Girolamo del Domenichino.
Nemmeno per l'Olio Santo aveva voluto indugi. Alle
sue insistenze Monsignore glielo amministrò la sera stessa del Viatico.
Prima l'infermo aveva espresso il desiderio che si chiedesse per lui la
benedizione del Papa, e la cosa fu eseguita con la massima prontezza.
Ricevuto il sacramento, non parlava più che di eternità e di argomenti
spirituali.
Incantava tutti la serenità, che abitualmente gli
traspariva dall'aspetto, dallo sguardo e dall'accento. Tale serenità egli
mantenne fino all'estremo; anzi gli rimaneva impressa nel volto anche dopo
aver perduta oramai ogni percezione del mondo esteriore. Non so
trattenermi dall'aggiungere, che, vedutolo l'ultima sera, mi sembra ancora
di aver dinanzi agli occhi quella soave immagine. Appoggiato sui
guanciali, presentava le fattezze del viso così delicatamente composte da
non produrre l'impressione che si trovasse nello stato preagonico. Non si
sarebbe mai cessato di rimirarlo. Anche dopo la morte, la vista del suo
volto esanime infondeva un senso di dolce quiete, che faceva esclamare:
Quanto è bella agli occhi di Dio e degli uomini la morte dei santi!
Ho accennato alla visita fatta all'infermo dal grande
Cardinale Alimonda. Per lui, come disse poi nella commemorazione, «fu un
veemente affetto, una legge il visitarlo». Stupì nel vederlo così
tranquillo di spirito e così pieno del pensiero di Dio; onde nell'uscire
si volse a Mons. Cagliero che lo accompagnava e gli disse: - Don Bosco è
sempre con Dio, è l'unione intima con Dio. I segni di questo divino
contatto abituale, neppure l'avvicinarsi della morte, anzi neppure la
morte stessa, potè farglieli scomparire.
CAPO XX. - Gemma sacerdotum.
L'autore danese d'una vita di Don Bosco, studiando il
Santo, ne riportò un'impressione, che tutti i biografi anteriori non
potevano non provare, ma che egli solo espresse in modo geniale. Scrive:
«Don Bosco è uno degli uomini più completi e più assoluti che abbia
conosciuto la terra. Nella maggior parte delle creature che la Chiesa
coronò con l'aureola dei Santi, c'è sempre alcunché di umano, e certe
volte, come in Sant'Ambrogio, perfino di troppo umano. Nella vita di Don
Bosco niente o quasi niente di tutto ciò. In lui tutto è luce, senza
ombre, il che, da un punto di vista artistico, costituisce una difficoltà.
Tutto il quadro infatti dev'essere eseguito in bianco: bianco su bianco,
luce su luce. I giusti, dice il Vangelo, splenderanno come il sole. E
chi può dipingere il sole?» Ebbene, su questo fondo di candida innocenza
Don Bosco venne erigendo l'edificio della sua santità sacerdotale.
Questo è il carattere della santità di Don Bosco;
perché, anche prima di essere sacerdote, anelava a diventarlo e siffatta
aspirazione diede, si può dire, il tono a tutta la sua vita, dai cinque
ai ventisei anni. Quando il pensiero di farsi prete si sia affacciato alla
sua mente, è difficile determinarlo: sembra quasi nato con lui, e lo
manifestò non appena le circostanze gli permisero di percepire chi
fossero e che cosa facessero i preti. Da quel momento l'ideale del
sacerdozio s'impadronì talmente di lui, che impresse alla sua condotta
una sacerdotale direttiva.
Lasciamo stare il mimetismo delle cerimonie
liturgiche, fenomeno non infrequente nei fanciulli di famiglie cristiane;
parlo invece di quell'apostolato, che prese ad esercitare fin da piccino
nelle forme proprie dello zelo sacerdotale. Son cose note. Allorché poi
divenne chierico, mise ogni cura a spogliarsi di ogni abitudine che avesse
pur solo qualche parvenza di mondanità, rinunciando a sonare il violino,
suo strumento prediletto, ad andare a caccia e perfino a leggere i
classici profani e dedicandosi tutto a studi sacri, a insegnare il
catechismo, alle funzioni del culto, così che, accostandosi a ricevere il
presbiterato, vi portava un'anima già da lunga data sacerdotale, che dopo
l'imposizione delle mani e la grazia del sacramento vibrò ancor più di
prima per quaecumque sunt vera, quaecumque pudica, quaecumque iusta,
quaecumque sancta, quaecumque amabilia, è detto con parole dell'Apostolo
nella Messa in suo onore. Don Bosco volle dunque essere e fu
essenzialmente sacerdote nell'esempio e nella parola, nell'azione e nella
preghiera.
L'esemplarità sacerdotale di Don Bosco non va
ricercata qui nella pratica delle virtù: la canonizzazione ci assicura
fuor d'ogni dubbio, che le esercitò egli in grado eroico. Ora ci
contenteremo di mettere in rilievo quanto egli fosse esemplare nel
concetto che aveva della dignità sacerdotale. Lo fece sentire in una
forma, direi, unica nel 1866. Quando il Governo della nuova Italia stava
ancora a Firenze, il Presidente del Consiglio lo pregò di accettare le
parti d'intermediario officioso presso Pio IX per la soluzione di spinosi
affari. Il Santo, nella speranza di render un gran servizio alla Chiesa,
aderì all'invito; ma, nell'atto di presentarsi al Ministro, sapendo con
chi aveva da trattare, prima di entrare in materia, non temette di fargli
questa dichiarazione perentoria: - Eccellenza, sappia che Don Bosco è
prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo a' suoi giovani;
e come è prete in Torino, così è prete a Firenze, prete nella casa del
povero, prete nel palazzo del Re e dei Ministri.
Par di vederlo e di sentirlo! Era suo costume parlare
adagio, con dolce gravità, dando peso a ogni parola; così dovette aver
parlato quella volta. Noi immaginiamo facilmente la sorpresa del Ministro,
che tuttavia si affrettò a dargli le più ampie assicurazioni. Se invece
avesse fatto lo scandalizzato, Don Bosco avrebbe con tutta semplicità e
franchezza risposto a lui, come già ad altri: - Le par nuovo il mio
linguaggio, perché Ella non ha mai avuto occasione di parlare con un
prete cattolico.
Il prete, secondo un assioma ripetuto spesso da Don
Bosco, è sempre prete, e tale deve manifestarsi in ogni istante. Sei anni
dopo l'ordinazione sacerdotale, fra i ricordi degli esercizi spirituali,
si era trascritto il detto di S. Giovanni Crisostomo: «Il sacerdote è
soldato di Cristo». E per l'appunto, il soldato è sempre soldato, sempre
cioè in attività di servizio.
L'alto concetto che Don Bosco aveva del sacerdozio,
traluce pure da altre sue manifestazioni. Egli, sempre così umile,
gradiva i segni d'onore, che riceveva da tante parti, anche da intere
popolazioni durante i suoi viaggi. Perché? Lo diceva: perché tali
dimostrazioni riteneva rivolte non alla sua persona, ma al carattere
sacerdotale e quindi alla Chiesa e alla fede.
Un giorno, ospite di una nobile famiglia torinese,
sentendosi fare grandi elogi, lasciò dire e poi rispose: - Sono ben
contento che si abbia tanta stima del carattere sacerdotale; per quanto si
dica bene del sacerdote, ossia della sua dignità e del corredo di virtù,
delle quali deve essere fornito, non si dirà mai abbastanza. Un'altra
volta diede libero sfogo al suo sentimento in una forma improvvisa e
vivace. Entrando in un istituto femminile con un prete suo amico, dopo
aver mormorato fra sé e sé la preghiera: Fac, Domine, ut servem cor et
corpus meum immaculatum Ubi, ut non confundar, disse al compagno: - Vedi,
mio caro, un sacerdote fedele alla sua vocazione è un angelo, e chi non
è tale, che cosa è? Diventa un oggetto di compassione e spregio per
tutti. Per questo, è naturale che onorasse negli altri il carattere
sacerdotale; infatti con i sacerdoti abbondava in segni di stima e di
rispetto e, venendo a sapere di chi non rispettasse il suo carattere, se
ne affliggeva fino alle lacrime e avrebbe voluto nascondere colui agli
occhi di tutti. Con quanta carità si adoperava a riabilitare i
disgraziati raccomandatigli dai Vescovi! Di questo riparleremo.
È a deplorare che non si abbiano intere le sue
prediche ai sacerdoti in esercizi spirituali. Argomentando dai magri
riassunti rimastici, se ne indovina l'efficacia, perché doveva parlare ex
abundantia cordis. Quanto sono contento di essere sacerdote! esclamò una
volta, discorrendo con un prete. Lo disse, perché umilmente pensava che
solo l'essere stato sacerdote l'avesse in tempi difficili preservato dalle
vertigini di certe teste riscaldate; ma l'essere sacerdote formò in ogni
tempo la sua più intima soddisfazione, com'era il suo maggior titolo
d'onore, che non omise mai di premettere al proprio nome nei libri e nelle
lettere, cosa allora affatto fuori d'uso.
Chi poi più sacerdote di lui nel parlare? Possiamo
ritenere con morale certezza, che Don Bosco non dovette render conto a Dio
di alcuna parola oziosa. Di Don Bosco predicatore abbiamo detto abbastanza
nel capo dodicesimo; di altre sue manifestazioni verbali si occupano
specialmente i capi tredicesimo e sedicesimo. Ma l'amore sacerdotale delle
anime, che animava la sua parola in pulpito o in camera o in cortile, non
lo abbandonava neppure altrove.
In casa e fuori di casa, o trattasse di affari o
partecipasse a liete conversazioni, gli astanti sentivano sempre la
presenza del sacerdote, abituato al pensiero di Dio e dell'eternità,
perché a tempo e luogo sapeva essere sale e luce. Lo comprese a
meraviglia in Francia quel Marchese, che dinanzi a un eletto circolo di
persone aristocratiche non potè trattenersi dall'esclamare: Don Bosco, prèche
toujours. E ben comprendevano il valore delle sue parole quei giovani
chierici e preti dell'Oratorio che non solo ne facevano tesoro, ma le
consegnavano fedelmente ai loro quaderni, alcuni dei quali sono giunti
fino a noi.
Della sua azione sacerdotale ho pure già detto
molto; tuttavia qualche altra osservazione non sarà di troppo. Ce ne
porge il filo la dichiarazione riferita in principio. «Prete all'altare».
L'abbiamo visto: celebrava come un Serafino. «Prete in confessionale».
Sentiva di essere sacerdote soprattutto per rigenerare anime alla grazia;
che cosa operasse in lui questo sentimento, lo dicono abbastanza le poche
pagine del capo decimo. «Prete in mezzo a' suoi giovani». Amava tanto i
suoi giovani! «Basta che siate giovani, perché io vi ami», confessa
loro nella prefazione al Giovane Provveduto. Li
amava da prete. «Difficilmente potreste trovare, soggiunge ivi stesso,
chi più di me vi ami in Gesù Cristo». E lo dimostrava da prete, non
perdonando a fatiche, pene e sacrifici d'ogni genere e d'ogni momento per
il bene delle loro anime. Li trattava poi da prete.
Fu massima costantemente da lui predicata e praticata
di far in modo che non mai un fanciullo parta malcontento da noi. Parlava
loro da prete. La salvezza dell'anima: ecco la sostanza de' suoi discorsi
ai giovani in pubblico e in privato. Questa la prima parola nel ricevere
un alunno, questa l'ultima nel congedarlo, questa sempre incontrandolo
uomo fatto.
«Prete a Firenze come a Torino». Ossia in ogni
circostanza, dovunque.
Durante i suoi viaggi in Italia, in Francia e nella
Spagna l'ammirazione generale per il taumaturgo non sopprimeva la
venerazione per il sacerdote santo, quale appariva agli occhi di tutti
coloro che lo avvicinavano; onde un accorrere ad ascoltarne la Messa, a
udirne la parola, ad aprirgli la coscienza. Di ritorno da Parigi nel 1883
disse d'avervi dovuto risolvere buon numero di casi, ognuno dei quali
avrebbe meritato che facesse quel viaggio.
«Prete coi poveri». Al par di Gesù predilesse i
poverelli e tra i figli dei popolo cercava, al par di Lui, i suoi
discepoli. E poi chi non sa, che dire Don Bosco, è dire gioventù povera?
Narrando come nessun bisognoso ricorresse a lui senz'averne qualche
soccorso, il biografo conchiude con una luminosa espressione: «Così
povero, Don Bosco era generoso come un re». Il Messia fra i caratteri
distintivi della sua missione indicò il pauperes evangelizantur d'Isaia;
il prete tanto più è prete, quanto più ritrae del divino modello
nell'evangelizzare pauperibus.
«Prete con i grandi». Così riassumo la frase che
viene dopo i poveri nella dichiarazione fiorentina per potervi includere,
con quel ch'egli espresse anche quello che certamente intese. Non tutto
era là da specificare. Ma tra i poveri e i re, non ci stanno solo i
ministri; c'è posto anche per altre categorie di persone, come di quelle
facoltose e delle istruite. Don Bosco ebbe frequentissimi contatti con
uomini ricchi di avere o di sapere. Alle porte dei doviziosi picchiò,
picchiò senza tregua. Ricevette in copia. Profonda la sua gratitudine, ma
da prete, ossia ignara di ciò che fosse servilismo. Egli infatti moveva
da questo principio: - Noi facciamo pure ai ricchi una grande carità,
aiutandoli a osservare il precetto divino del quod superest, date
eleemosynam.
A ricchi schiavi delle ricchezze faceva egli stesso
preziose limosine spirituali. Perfino un israelita danaroso, che aveva
desiderio di conoscerlo e n'era stato appagato, uscì dall'Oratorio
dicendo che, se in ogni città vi fosse un Don Bosco, tutto il mondo si
sarebbe convertito. Un altro israelita dovizioso e per giunta rabbino
diceva di essere stato due volte a trovare Don Bosco, ma che non vi
sarebbe più tornato una terza, perché si sarebbe sentito costretto a
stare con lui. Da simili espressioni è facile arguire che entrambi videro
di Don Bosco non soltanto l'abito, ma anche l'animo sacerdotale.
Se con i ricchi non piaggiava, con i dotti non si
metteva in soggezione. Possedeva anche lui la sua scienza, quella che la
Scrittura dice dover essere deposito sacro dei ministri di Dio, e la
dispensava volentibus et nolentibus. Nell’84,
un avvocato straniero di grande rinomanza, ricercato difensore dei diritti
ecclesiastici, dopo aver ragionato col Salmo della propria attività in
favore della Chiesa, si sentì rivolgere a bruciapelo questa domanda: - E
lei, signore, questa religione che tanto onoratamente sostiene, la pratica
anche? - L'altro, sconcertato, tentava di cambiar discorso; ma Don Bosco,
tenendone la mano stretta fra le sue, a insistere: - Non si divincoli,
risponda: questa religione che pubblicamente difende così bene, la
pratica pure? - Fu il colpo di grazia per l'interlocutore, il quale era
arrivato al punto da non credere più nemmeno alla confessione.
Accomiatandosi da una nobile famiglia dopo la mensa,
Don Bosco aveva detta a ognuno la sua buona parola, salvo che a un
generale, ospite al par di lui. Uomo istruito, ma indifferente nelle cose
di fede, il vecchio soldato gli chiese anche per sé qualche parola da
serbare come ricordo del felice incontro. Preghi per me, signor generale,
fece il servo di Dio, preghi, perché il povero Don Bosco si salvi
l'anima. Scosso, il generale replicò: - Io pregare per lei! Piuttosto
suggerisca a me qualche buon consiglio. Don Bosco, fermatosi un istante
come per raccogliere le idee, rispose con serena fermezza: - Signor
generale, pensi che ha ancora una gran battaglia da combattere; se vince,
sarà ben fortunato. Quella per la salvezza dell'anima. I presenti si
guardarono stupefatti; ma il generale esclamò che solo Don Bosco gli
poteva parlare così franco.
Ci commuove un suo colloquio con il settantenne conte
Cibrario, storico liberale di certa fama e ministro di Stato. Il dialogo
si chiuse intorno a queste parole altamente sacerdotali: - Signor Conte,
Ella sa che io le voglio molto bene e nutro per lei grande stima. Se, come
dice, la sua vita non può più essere lunga, si ricordi che prima di
morire ha qualche partita da aggiustare con la santa Chiesa.
A Parigi, visitato da Paolo Bert, già ministro della
pubblica istruzione, portò il discorso sulla vita eterna e adagio adagio
lo indusse alla revisione immediata d'un suo libro di morale per le
scuole, sul quale si erano versati poc'anzi fiumi d'inchiostro. A Parigi
pure, come fu drammatica la conversazione con Victor Hugo! Ne possediamo
il testo, redatto secondo il ragguaglio datone da Don Bosco e ritoccato di
suo pugno. Il celeberrimo romanziere, entrato con tutt'altre idee, uscì
pensieroso sul mistero dell'oltretomba.
Moltissimo Don Bosco ebbe da fare con persone
autorevoli. Rispettava la loro autorità, ma trattando con esse non
lasciava alla porta la sua sacerdotale autorità. Lo sperimentò il
ministro Urbano Rattazzi una volta che, interrogatolo se fosse incorso
nella scomunica con i suoi atti di governo, ne ricevette dopo tre giorni
la seguente risposta: - Ho esaminato la questione, ho cercato, ho studiato
per poterle dire che no; ma non ci sono riuscito. Della risposta il fiero
liberale gli si professò riconoscente, dichiarandogli di essersi rivolto
a lui, perché ne conosceva la schiettezza.
Nel 1874 a Roma, uscendo dal gabinetto del ministro
degli interni, confidò a persona intima d'averne dette di secche a sua
eccellenza, e non senza frutto. A Lanzo Torinese due anni dopo,
inaugurandosi la ferrovia, fu scelto quel collegio salesiano per il
ricevimento delle autorità. Vi erano tre ministri famosi con un seguito
di senatori e deputati, tutti liberaloni di sei cotte. Don Bosco vi si recò.
Durante il sollazzevole e non breve trattenimento, divenne a poco a poco
il re della conversazione; del che si valse per piegare con urbana
piacevolezza le chiacchiere di quei signori a riflessioni utili, su cose
di religione, che essi non udivano più da chi sa quanto tempo.
Ma anche a teste coronate e scoronate Don Bosco non
aveva, anni addietro, risparmiate verità salutari. Agli ex-reali di
Napoli, esuli in Roma, ricordati i torti fatti dai loro maggiori alla
Chiesa, consigliò la rassegnazione, perché i disegni della Provvidenza
non erano quelli da essi vagheggiati.
Prima ancora, la devozione e l'affetto a' suoi Re
Sabaudi non l'avevano trattenuto dal levar la voce per ritrarre il Sovrano
da mali passi. Effetto non vi fu purtroppo; ma più tardi Vittorio
Emanuele II mostrò di aver apprezzato la sua franchezza sacerdotale,
dicendo all'Arcivescovo di Genova, già suo precettore a corte, che Don
Bosco era veramente un santo prete. Così Don Bosco obbediva, sì,
all'ingiunzione dell'Apostolo: Reddite omnibus debita... cui honorem,
honorem, quindi non mai una parola irriverente, e voleva ne' suoi il
rispetto alle autorità costituite; ma per quanto corressero critici i
tempi, tenne sempre alto il suo decoro di sacerdote.
Don Bosco, se fu prete con tutti, lo fu anche con
superiori e confratelli nell'ordine sacerdotale. Fu prete col Papa. La sua
condotta verso il Vicario di Gesù Cristo non poteva essere più
rettilinea. Se n'era tracciato il programma così: - Tutto col Papa, per
il Papa, amando il Papa. Da questa premessa i corollari venivano senza
sforzo. Eccone uno per i giovani: - Quando vedete che un autore scrive
poco bene del Papa, sappiate che il suo non è un libro da leggere. Eccone
un altro per certuni che lo interrogavano sulle violente annessioni di
province romane: - Come cittadino, sono pronto a difendere la patria anche
con la mia vita; ma, come cristiano e come sacerdote, non potrò mai
approvare queste cose.
Un suo perfetto conoscitore, il Vescovo Manacorda di
Fossano, attesta nell'elogio funebre: «Nessuno, fra quanti
l'avvicinavano, udì parola da lui che non fosse improntata alla docilità
d'innocente fanciullo» verso il Papa. Abbiamo udito le sue dichiarazioni
sul letto di morte.
Prete con i Vescovi. Venerava in essi e faceva
venerare la pienezza del sacerdozio. Prove sublimi della sua coraggiosa
devozione ai Pastori della Chiesa si ebbero verso i gloriosi perseguitati
politici: l'Arcivescovo Fransoni di Torino durante la prigionia e
l'esilio; il Vescovo di Fermo Card. De Angelis e il Vescovo Rota di
Guastalla, condannati a domicilio coatto in Torino. Ospitare un Vescovo
nell’Oratorio stimava Don Bosco gran fortuna. Ne annunciava la venuta,
Io attendeva alla porta, lo presentava ai giovani, lo circondava di mille
attenzioni. Nel decreto sull'eroicità delle virtù fa capolino
un'allusione alle difficoltà corse fra Don Bosco e l'Arcivescovo
Gastaldi: la storia dice fino a qual segno in circostanze inverosimili Don
Bosco siasi mostrato prete con il suo Vescovo.
Prete con i preti. Il carattere sacerdotale,
rispettato nella propria persona, gli era oggetto di riverenza negli
altri. Quanta cordialità trovavano sempre nell'Oratorio i sacerdoti! Ma
intanto Don Bosco non si scordava mai di essere prete anche con loro, non
perdendone di vista le anime. Gli fiorivano sulle labbra secondo i casi
ora l'una ora l'altra di alcune sue massime: - Il prete deve attendere
alla salvezza delle anime, ma prima d'ogni altra deve pensare a salvar la
propria. Un prete non va mai solo né in paradiso né all'inferno. Salve;
salvando salvati.
Che deferenza nelle sue relazioni con parroci! Ma che
schianto all'udire di preti, che disonoravano il loro carattere! Non si
perdeva per altro in sterili deplorazioni. Con rispettosa carità, ora di
propria iniziativa ora per raccomandazioni di Vescovi, s'industriava a
riabilitarli, esortandoli, tenendo con essi lunghe conferenze, porgendo
soccorsi pecuniari, accogliendoli presso di sé per un dato tempo. Dava
poi santamente la caccia a preti e a ex-preti politicanti e antipapali
nell'unico intento di trarli a ravvedersi. Il celebre ex-gesuita e gran
teologo Passaglia, il quale pur laicizzato, disse che Don Bosco possedeva
tutti i carismi dello Spirito Santo, evitava d'incontrarlo per timore di
essere da lui vinto. Sperò anche di guadagnare il famoso ex-canonico
Gioberti. Gli fece visita col teologo Borel, ne scandagliò l'anima, entrò
nell'argomento scottante; ma il caritatevole e sacerdotale tentativo
naufragò contro l'orgoglio dell'uomo. Ma ricondusse un bel numero di
preti traviati all'onore sacerdotale. Del suo zelo per fare dei preti
abbiamo già parlato.
Appartiene all'azione sacerdotale anche la sua
feconda attività di scrittore: è l'argomento del capo dodicesimo. Pongo
ancora qui un suo canone letterario, che ci fa toccar con mano, quanto
delicata fosse la coscienza sacerdotale di lui come scrittore. Ragionando
con Salesiani della sua Storia ecclesiastica, : - Io non scrivo per i
dotti, ma per il popolo e per i giovanetti. Se, narrando un fatto poco
"onorevole e controverso, turbassi la fede di un'anima semplice, non
sarebbe un indurla nell'errore? Se espongo a una mente rozza il difetto di
un membro d'una Congregazione, non le ingenero dubbi verso l'intera
comunità? E questo non è errore? Solo chi consideri tutta la storia di
duemila anni, può vedere che le colpe anche di uomini eminentissimi non
offuscano affatto la santità della Chiesa, ma sono una prova della sua
divinità. Le sinistre impressioni ricevute in tenera età da parole
imprudenti portano sovente lacrimevoli conseguenze per la fede e per il
buon costume.
Fra' Angelico diceva che chi fa le cose di Cristo,
deve stare sempre con Cristo. Ottimo canone di arte religiosa senza
dubbio; ma sarà tanto più legge fondamentale di sacerdotale ministero
questa, che, chi intende a formare Cristo stesso nelle anime, viva
abitualmente di Cristo. Don Bosco sarebbe davvero un forte enigma, se noi
potessimo anche solo dubitare che la sua portentosa efficacia nel
ministero sacerdotale egli la derivasse da altra fonte che non sia la
intensa vita di unione con Gesù Cristo, del quale volle essere e fu in
ogni tempo solo fedele ministro.
Vi fu bene chi, impressionato dal gran lavoro che Don
Bosco andava continuamente facendo, si domandò dinanzi a Pio XI quando
egli potesse trovare il modo di raccogliersi con Dio in preghiera; ma il
Papa, che conosceva bene Don Bosco, argutamente rispose che bisognava
piuttosto cercare non quando pregasse, bensì quando non pregasse. Se si
volle dire che egli non dedicava lungo tempo, come fecero altri Santi,
alla meditazione, questo è vero; ma è anche vero che santa Teresa
ammonisce: «Credete a me, non il lungo tempo dato alla preghiera fa
progredire l'anima; se anche impiega parecchie ore in opere buone per
carità o per obbedienza, il suo amore s'infiamma più rapidamente in
pochi minuti, che non dopo lunghe ore di meditazione. Tutto deve venire
dalla mano di Dio».
Qui dunque verrebbe la quarta cosa da trattare, la
preghiera; ma se n'è già detto tanto in questo volume! Tuttavia desidero
insistere sulla singolarità più volte ricordata del suo pregare. Questa
però non era così sua, che non entrasse già nella dottrina e nella
pratica antica. È, per esempio, pensiero di S. Gregorio Magno, che la
contemplazione debba andare strettamente unita all'amore attivo; su di che
ha alcune pagine assai profonde. Un periodo solo fa proprio per noi, là
dove dice: «La nostra carità dev'essere infiammata dall'amor di Dio e
del prossimo, in modo che per la quiete della contemplazione e dell'amor
di Dio la nostra mente non lasci la carità del prossimo, e in seguito non
voglia tanto occuparsi nei servizi del prossimo da lasciar spegnere in sé
la fiamma di quell'eterno amore». Così appunto visse Don Bosco: fu in
lui fervida azione non disgiunta da intensa contemplazione.
Perciò attuava ottimamente in sé lo stato descritto
da san Bernardo, quando inculca che la contemplazione formi quella
raccolta di idee, di amore e di energia, che per sovrabbondanza si riversi
nell'azione. Tutto ciò concorda con il giudizio di un vivente scrittore
d'ascetica, il quale scorge in Don Bosco «una perfetta unificazione
dell'orazione e della contemplazione», tanto che egli può dirsi «un
contemplativo operante».
Il pensiero della santità sacerdotale di Don Bosco
dominava la mente di Pio XI, allorché, parlando a un numeroso stuolo di
seminaristi, cominciò dicendo: «Si è chiuso l'Anno Santo con la figura
di un grande sacerdote, che ebbe la vera e fattiva coscienza di essere lo
strumento della Redenzione, specialmente nei riguardi della gioventù così
insidiata, così pericolante, così bisognosa». Svolgeva quindi il suo
concetto spiegando come il nuovo Santo dovesse venir proposto a modello di
futuri sacerdoti, quali erano coloro che lo ascoltavano. Pertanto Don
Bosco resta e resterà il modello dei sacerdoti, che consumano
quotidianamente le loro forze in promuovere la gloria di Dio e la salute
delle anime; poiché egli è veramente gemma sacerdotum, come la Chiesa
chiama nel divino Ufficio san Martino di Tours.
Se Don Bosco fu la perla dei sacerdoti, questo non
vuol dire che soltanto ai sacerdoti sia da proporre a modello. Il
"Papa di Don Bosco" in numerose udienze pubbliche dopo la
beatificazione e dopo la canonizzazione, rivolgendo la parola e
distribuendo la medaglia del nuovo Beato o del nuovo Santo alle più
disparate qualità di persone, trovava sempre in lui qualche opportuno
lato speciale da presentare alla loro imitazione. E ciò faceva senza
sforzi dialettici, ma con osservazioni evidenti e naturali e, soprattutto,
fondate nella realtà.
Dopo aver lette le relazioni di quelle udienze, vien
quasi da pensare che la santità di Don Bosco sia stata, per dir così,
una santità enciclopedica, cioè di carattere universale. Lo dimostrò
infatti il mondiale entusiasmo, che salutò la sua elevazione agli onori
dell'altare e lo dimostrano tuttora sia il suo culto diffuso fra tutte le
genti sia la sua divozione praticata presso ogni ceto di persone.
Egli appare veramente il Santo di tutti.
Fine libro.