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INTENZIONI E FRUTTI DEL SANTO ROSARIO

MEDITAZIONI E PREGHIERE

 

 

GIORNO 10

 

Indice

 

  

QUINTO MISTERO IL VIAGGIO DI GESU' AL CALVARIO E LA CROCIFISSIONE

 

 

10° GIORNO

Affinchè i cristiani corrispondano alle grazie della Redenzione e santifichino i giorni festivi.

 

CONSIDERAZIONE. L'iniqua sentenza ormai era stata pronunziata, e non restava che eseguirla. Pilato inflisse a Gesù, secondo da richiesta degli accusatori, una pena che originariamente era romana; ma anche nella Roma antica, la crocifissione era stata importata. Di essa i Romani avevano uno spavento tremendo, e Cicerone la chiama « il supplizio più crudele e il più tetro; l'estremo e sommo supplizio della schiavitù»: ordinariamente infatti era la pena riservata agli schiavi per i delitti più gravi. Quanto al luogo, se ne sceglieva uno assai visibile e frequentato: possibilmente fuori di città, vicino a qualche porta delle mura, « perchè si contava sull'effetto esemplare, che lo spettacolo doveva produrre su schiavi ed altri abietti individui, punibili di croce» (Ricciotti). Il condannato veniva affidato a quattro soldati, comandati da un centurione, che doveva poi riscontrare la morte del crocifisso. Un servo di giustizia precedeva, portando una tavoletta, su cui era scritto il delitto che aveva motivato la sentenza. Il corteo passava di preferenza per le vie più frequentate, per dare la più grande pubblicità all'esecuzione: lungo il cammino, il crocifiggendo, curvo sotto lo strumento del suo supplizio, veniva fatto segno ad ogni sorta di sprezzi da parte della plebaglia incuriosita e feroce. Giunto il ferale corteo sul luogo dell'esecuzione, il condannato veniva spogliato delle sue vesti e poi crocifisso. Queste erano le norme generali per tali condanne, e furono eseguite anche per la crocifissione del Salvatore, con tanto satanico compiacimento dei Giudei, i quali niente di meglio desideravano che quelle obbrobriose esibizioni dell'odiato Nazzareno. 

 

* * *

 

Presentata dunque la Croce, il Divino Maestro l'abbracciò come una cosa da lungo tempo desiderata; in quell'amoroso amplesso, tutte le nostre croci furono santificate. Aiutato dai soldati, l'Agnello Immacolato se la pose sulle spalle, come trofeo di vittoria; poi il corteo s'avviò al Calvario, tra grida, oltraggi e bestemmie contro il paziente Signore. Egli avanzava ansante, con le vesti imbrattate, le ginocchia lacere, il viso irrorato di sudore e di sempre nuovo sangue, profluente dalla testa incoronata di spine. Era inoltre accompagnato da due ladroni, alla medesima pena destinati; e, forse, per maggior disonore, preceduto da uno e seguito dall'altro: come sul Golgota sarà crocifisso in mezzo ad essi. Quando, affranto dai dolori, sfinito di forze, Gesù cadde sotto il peso del suo patibolo, con inaudita crudeltà Lo forzarono a rialzarsi e a riprendere il doloroso cammino. Solo dopo una terza caduta — non già per compassione, ma per timore che venisse meno per l'erta faticosa — costrinsero un tal Simone di Cirene a portare con Lui la Croce fino al Calvario. Le forze fisiche dell'umanità perfettissima di Gesù erano quasi del tutto esaurite; le sofferenze sopportate avevano superato il limite ordinario e presunto dagli stessi esecutori. Denutrito, senza riposo, senza alcun sollievo, dopo le spossanti emozioni dell'ultima Cena, il Redentore non aveva fatto altro che muoversi e soffrire fisicamente e moralmente. Allorquando il funebre corteo giunse sulla cima del Calvario, fu offerto a Gesù del vino mescolato con mirra, per intorpidirgli i sensi; ma Egli, appena vi ebbe apposte le labbra, lo rifiutò, volendo con piena coscienza bere fino all'ultima stilla l'amaro calice assegnatogli dall'Eterno Padre. Tosto i carnefici si gettarono come lupi rabbiosi sull'adorabile persona di Gesù e Lo spogliarono delle sue vesti: il mantello sarà poi diviso dai soldati in quattro parti; la tunica invece, tutta d'un pezzo, sorteggiata. Così si doveva avverare la profezia messianica, che dice: «Si son divise le mie vesti, e sopra la mia tunica han gettato la sorte». Spogliato delle sue vesti, il Redentore si distese obbedientissimo sull'infame patibolo, ed offrì da Se stesso le mani ed i piedi perchè fossero crocifissi. Poco discosta stava l'addolorata Madre, che sentì ripercuotersi, nel suo sensibilissimo Cuore, i crudeli colpi di martello, senza alcun lamento del Figlio. Quindi la Croce venne inalberata in mezzo a quella dei due ladroni, pure crocifissi: e sulla Croce era stata apposta la tavoletta di condanna con la scritta: « Gesù Nazzareno, Re dei Giudei»! 

 

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La Croce fu l'ultima cattedra del Divino Maestro: da quell'infame patibolo — « scandalo per i Giudei e per i Gentili stoltezza» — Gesù pronunziò le sette parole della misericordia e del perdono. La prima dolcissima parola fu d'invocato perdono per i suoi stessi crocifissori: « Padre, perdona loro, perchè non sanno quel che fanno»; parola che fece dilatare il Cuore di Maria in uno stesso eroico ed indicibile palpito di misericordia. La seconda fu di attuato perdono per il ladrone pentito. Costui, avendo ancora un po' di coscienza onesta, rimproverava il tristo compagno che bestemmiava; e, nell'imminenza della morte, si aggrappò all'unica speranza che gli rimaneva, a quel Giusto ingiustamente crocifisso, dicendo: « Signore, ricordati di me quando sarai giunto nel tuo regno». Al quale rispose il Salvatore: «In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso». La terza parola fu la nota più tenera di dolore e d'amore, la più mirabile delle mirabili circostanze del dramma divino. Gesù non poteva fare alcun gesto, se non col capo insozzato ed incoronato di spine, se non coi suoi occhi coperti di lacrime e di sangue. Volse dunque il suo capo divino; mirò con lo sguardo, divinamente amoroso e dolorosamente sfinito, l'Immacolata Madre sua e il Discepolo prediletto, e le sue livide labbra si mossero per dire alla Vergine: « Donna, ecco il tuo figlio»; e a Giovanni: « Ecco la tua Madre». Mentre un vincolo dolcissimo stringeva così la Madonna a Giovanni e in lui a tutti gli uomini, una spada dolorosissima La separava dal divin suo Figliuolo. Questa maternità per noi non si compì che a tale prezzo; in quel supremo dolore Maria ci strinse tutti al suo immacolato Cuore, e da quel giorno l'Apostolo La prese in casa sua. Così, sul Calvario, mentre il grande dramma della Redenzione sta per conchiudersi, contempliamo la mirabile triade: Gesù, il novello Adamo, l'Uomo—Dio; Maria, la novella Eva, l'Immacolata; Giovanni, il rappresentante della nuova umanità, scelto a raccogliere, in nome di essa, il supremo testamento del Salvatore. In quella meravigliosa triade, quanto più grande è la forza e la fermezza, tanto più grande è il dolore: nel Redentore v'è la divina fermezza di rimaner confitto sulla straziante Croce, quando invece, con un minimo atto di volontà, avrebbe potuto senz'altro liberarsene; nella Vergine, la forza suprema di restar a contemplare fino all'ultimo l'atroce agonia, senza permettere alcun libero sfogo al traboccante dolore che Le spezzava il Cuore; nell'Apostolo, la forza di rimaner là, nonostante tanti pericoli e pene, a veder la distruzione dell'amato Maestro e lo schianto della Madre sua. Intanto il Divin Crocifisso declinava rapidamente, per i tanti tormenti che s'accrescevano sempre atroci, senza un istante di requie. Ad un tratto, verso le tre pomeridiane, con gran voce disse la quarta parola: « Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?»: parola che rivelò alla Madonna le misteriose tenebre interiori del Figlio Divino, ben più impressionanti di quelle materiali, che in quelle ultime ore avvolgevano il Calvario e tutta la Giudea. Poi, con la gola e le labbra riarse dallo spasimante tormento, Gesù pronunziò la quinta parola: « Sitio»: la sete di anime, che fece palpitare la Corredentrice di nuova inestinguibile brama della nostra salvezza. La sesta parola fu: « Consummatum est»: è compito, compita la missione redentrice, soddisfatta la Divina Giustizia. Poco dopo, l'agonizzante Salvatore ebbe come un fremito, e, lanciando un altissimo grido, esclamò: « Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito» fu l'ultima parola, quella della fiducia; poi reclinò il capo ed emise l'estremo respiro. 

 

* * * 

 

Così celebrò il Redentore la sua Messa cruenta, che ogni giorno si rinnova incruentemente sugli Altari, e alla quale i cristiani, nei giorni festivi, sono obbligati ad assistere. Il Divin Sacrificio è il centro del culto cattolico; è il più importante atto di culto esterno, che riassume e supera tutte le altre forme di culto, al quale esse sono ordinate. Vittima e Ministro principale è Gesù Cristo: per Lui e con Lui e in Lui si dà a Dio un culto perfetto di adorazione, di ringraziamento, di propiziazione e d'impetrazione. La santificazione delle feste è uno dei pochi atti di culto comandati, perchè non basta adorar Dio internamente col cuore, ma dobbiamo anche rendergli il culto esterno, essendo a Lui soggetti in tutto il nostro essere: anima e corpo. Ecco dunque la necessità della preghiera pubblica e collettiva, dell'istruzione e funzioni religiose, dei riti sacramentali e specialmente della S. Messa. Chi perciò, senza grave motivo, non assiste alla Messa nei giorni festivi, commette peccato mortale; tralasciare, invece, qualche volta l'istruzione religiosa, non è peccato mortale, ma tutt'al più peccato veniale. Dobbiamo fare atti di culto esterno, anche perché siamo esseri socievoli, bisognosi di vivere in società, con l'obbligo, quindi, di dar il buon esempio di religione al nostro prossimo. Gesù ha detto: «Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro, che è nei cieli». Il culto esterno rende quello interno più intenso e più perfetto. Senza gli atti esterni di culto, lo spirito religioso, nel santuario delle facoltà interiori, si affievolisce e si spegne; come il fuoco che, non nutrito continuamente da legna, a poco a poco s'indebolisce e si smorza. I primi cristiani erano tanto convinti della necessità del culto esterno, che frequentavano i Divini Uffici anche quando v'era pericolo della vita. Il terzo Comandamento, ordinando di santificare le feste, proibisce, di conseguenza, tutte quelle opere che non sono compatibili con questo dovere: cioè le cosiddette opere servili, che sogliono compiere gli artigiani e gli operai; non sono, invece, proibite le opere liberali, quelle cioè che si compiono soprattutto con l'ingegno, per istruirsi o ricrearsi. Conviene completare la santificazione delle feste, compiendo opere buone, specialmente qualcuna delle opere di misericordia corporale e spirituale. Dobbiamo inoltre concedere il giusto riposo al nostro corpo, e tenerci lontani da ogni vizio, dissipazione e divertimento pericoloso. Così facendo, le feste saranno veramente i giorni più preziosi della settimana e del mese, e non, come per tanti, l'occasione di maggiori peccati. 

 

FIORETTO. Santifichiamo i giorni festivi, specialmente con la devota assistenza alla S. Messa e la frequenza all'istruzione religiosa: così coopereremo con Gesù Redentore alla salvezza dell'anima nostra. 

 

GIACULATORIA. Auxilium Christianorum, ora pro nobis. 

 

ESEMPIO 
TESTAMENTO DI UN CONDANNATO. Un malfattore, macchiato di sangue, respinto dalla società, passa i suoi giorni dietro un'inferriata, chiuso in silenziosa cella delle Murate in Firenze. Lo sciagurato uccise la propria moglie ed è reo di altri delitti sanguinari. Dinanzi a quell'inferriata passano, indifferenti, i custodi, o passeggia con aria distratta la sentinella, aspettando l'ora della muta. Taciturno, col volto affilato, quel carcerato non ha neppure il conforto di comunicare ad altri la propria sventura. È obbligato al più rigoroso silenzio. Quelle quattro mura della cella, dove stenta le ore, gli sono strumento del suo supplizio e voce continua che gli ricorda i misfatti. L'occhio fisso, attonito, non ha più lacrime. Un sentimento solo anima quell'organismo: la disperazione. Sono vive alla sua immaginazione le figure squallide di quattro figlioli, a cui egli tolse la madre e che sono restati sul lastrico senza pane, senza vesti, senza tetto. Sono due maschi, Massimiliano e Gustavo, e due bambine, Maggiolina ed Angelica. Il primo, Massimiliano, non ha che otto anni; l'ultima, Angelica, appena cinque. La visione dei figli che muoiono di fame e sono vittima del disprezzo di tutti, per il suo delitto, lo getta nella disperazione. Quell'uomo è perduto fisicamente e moralmente. Trascinato dalla rabbia prorompe in bestemmie ed imprecazioni contro il destino, contro se stesso, contro i giudici, i custodi, le guardie; contro i parenti che l'hanno dimenticato, contro l'umanità intera che l'odia, di cui, a sua volta, bramerebbe la distruzione. Spunta l'alba del 4 ottobre 1893, e il Cappellano del reclusorio si presenta all'uscio ferrato. Il cancello si apre stridendo; il ministro di Dio entra e, sorridente, mostra al condannato una lettera aperta. — Chi scrive? Chi si è ricordato del povero Pietro Fioravanti? — esclama l'infelice. — La lettera porta il timbro di Valle di Pompei. — Ma che vuol dire questo nome: Valle di Pompei? — È Massimiliano, il figlio tuo, che ti scrive da Valle di Pompei — soggiunse il Sacerdote. Fioravanti, a quel nome, prova una sensazione simile al tocco d'un ferro rovente. Corre a vedere la firma e legge: Massimiliano. Trasale; leva lo sguardo in faccia al Cappellano, senza fiato. Il Cappellano legge: « Mio carissimo padre. Io mi trovo ricoverato presso la Madonna di Pompei, nell'Ospizio Bartolo Longo per i figli dei carcerati, e con me sta pure Gustavo. Tutti e due stiamo bene, impariamo tante cose e siamo devoti della Madonna, che ci ha ricoverati. Noi preghiamo anche per voi affinché faccia Essa quello che non possiamo fare noi, cioè alleggerirvi i patimenti. Sono poi contento di farvi sapere che il giorno primo di ottobre, festa della Madonna del Rosario, ho fatto la prima Comunione. Il primo pensiero, quando ricevetti la prima volta Gesù nel cuore, fu rivolto a voi, e pregai che non potendo io venire, venisse Lui a confortarvi». A questo punto il condannato, che durante la lettura si era fatto sempre più pallido per la commozione, vacilla e cade svenuto. Quando si rialza, non è più la belva feroce di prima; la preghiera dei figli alla Madonna di Pompei l'ha completamente cambiato in cristiano pentito e devoto della Madonna. Ecco la risposta che mandò ai suoi figli, insieme all'elenco dei miseri mobili lasciati in famiglia ed a loro appartenenti; questa lettera è l'ultimo testamento del condannato: « Carissimi figli Massimiliano e Gustavo. Ho ricevuto la lettera del Mio Massimiliano, che mi ha recato tanta consolazione, specialmente nel sentire che tu, Massimiliano, hai fatto la tua prima Comunione, la prima domenica di ottobre. Spero che tu sarai sempre buono e ti ricorderai sempre di quel bel giorno in cui ti sei unito a Gesù. Io mi trovo ammalato da vario tempo e vado piuttosto peggiorando; ieri ricevetti il Santissimo Viatico. Voi, con le vostre preghiere, raccomandatemi a codesta Vergine Santissima, tanto potente. Qualora non potessi più scrivervi, conservate questa lettera, nella quale intendo darvi alcuni avvertimenti per il vostro bene. Cercate di essere buoni cristiani, se volete essere buoni cittadini. Ubbidite e rispettate i vostri superiori. Amate il vostro Direttore... Amate i compagni. Quando qualcuno vi corregge dei vostri difetti, ringraziatelo di cuore. Pregate per me, affinché Dio mi usi misericordia... Cercate di aver sempre una grande devozione verso Maria Santissima, sotto il cui manto siete ricoverati. Ricevete un abbraccio tenerissimo, insieme con la benedizione che di tutto cuore v'imploro dal Cielo». Il 18 gennaio il condannato si aggravò. Il Sacerdote recitò vicino al suo letto le preghiere dei moribondi, mentre egli, stringendo al petto l'immagine della Madonna e ripetendo per l'ultima volta il nome della Vergine di Pompei, placidamente spirò. La Vergine del Rosario aveva convertito e salvato anche quell'anima, che era sull'orlo della perdizione. 

 

(Tratto dal libretto "LE INTENZIONI E I FRUTTI DEL SANTO ROSARIO" - Sac. A.Monticone - 1952)

 

 

 

 

 

 

FIORETTO DEL GIORNO:

 

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