QUARTO MISTERO L'ASSUNZIONE DI MARIA VERGINE IN CIELO
29° GIORNO
L'Eucaristia e la Comunione
CONSIDERAZIONE. La Madonna schiacciò il capo all'infernale Serpente, trionfando di lui, non solo come un qualunque redento, ma con « pienezza», simile a quella del Salvatore: essendo cioè stata preservata dal peccato originale e dal fomite della concupiscenza. L'armonia dei misteri divini esigeva, perciò, che la Figlia prediletta dell'Eterno Padre, la Madre del Verbo Incarnato, la Sposa dello Spirito Santo, fosse assunta gloriosamente in Paradiso. La Regina del Cielo e della terra, la « suprema Gemma del creato», non doveva sottostare, quanto all'immacolato Corpo, alla dissoluzione del sepolcro. Socia nell'Anima e nel Corpo della vita e della morte di Gesù, doveva esserlo, con l'Assunzione, anche della sua ascesa al Cielo. Ed ecco: l'ora della sua dipartita è ormai giunta; riceve, per l'ultima volta, la Santa Comunione nel suo purissimo Cuore, e, in quell'ineffabile amplesso della Madre col Figlio, l'anima sua beata si scioglie dai virginei lacci corporei. La Madonna, che ogni giorno aveva nutrito l'anima sua delle Carni immacolate del Dìvin Figliuolo, coronò la sua missione con la Comunione. Ella è la grande Devota dell'Eucaristia e il Modello perfettissimo delle anime eucaristiche.
L'Eucarestia è « in qualche modo una continuazione dell'Incarnazione del Verbo, in quanto cioè ci assicura la reale presenza di Cristo tra noi sino alla consumazione dei secoli»
(LEPICIER). Anzi, i Santi Padri esclamano: « Il Cristo s'incarna in me: Incarnatur in me Christus». Questo Sacramento è il sublime dono dell'Amante Divino alle anime amanti e in modo particolare alla Madonna che, di tutte le anime, fu la più amata ed amante. Per l'amore ch'Ella portava a Gesù e agli uomini, l'Eucaristia, qual Sacramento della divina presenza e centro, alimento di tutta la nostra vita soprannaturale, dovette essere un oggetto culminante della sua preghiera. Conveniva infatti che, come la Vergine sollecitò con la sua implorazione, la discesa del Verbo Eterno ad incarnarsi per la redenzione dell'umanità, così sollecitasse la permanenza del Figliol suo, nell'augusto Sacramento dell'Amore.
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Quando spuntò l'alba del Giovedì Santo, che il Redentore avrebbe illuminato con l'Eucaristia, tutti i pensieri e i desideri della Madonna dovettero volgersi a quel Sole Divino e all'immolazione cruenta del giorno seguente, di cui quella eucaristica non era che la mistica anticipazione. Il Cuore del Divino Maestro bruciava dal desiderio di donarsi sacramentalmente e d'immolarsi per la salvezza delle anime: « Ardentemente ho bramato — disse Gesù agli Apostoli — di mangiare con voi questa Pasqua prima di partire». Ed ecco: « ...mentre cenavano Gesù prese del pane, lo benedisse, lo spezzò; lo diede ai suoi discepoli e disse: Prendete e mangiate questo è il mio Corpo. E preso il calice, rese le grazie, e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti: chè questo è il mio Sangue del nuovo testamento, il quale per molti sarà sparso in remissione dei peccati». Poi soggiunse: « Fate questo in memoria di me». Anche il Cuore Immacolato della Vergine, in perfetta armonia con quello del suo amatissimo Figlio, desiderava intensamente il compimento di tali eventi. Se non sempre in persona, certo costantemente con lo spirito più di tutti vicinissima, la Vergine Madre seguiva la Vittima Divina, che s'avviava ad offrirsi in cibo in un ineffabile atto d'amore, e ad immolarsi sulla Croce, in un supremo atto di sacrificio. In tutta la narrazione evangelica dell'ultima Cena, tanto nelle parole, quanto nelle opere, uno stridente contrasto domina gli eventi e fa fremere il Cuore di Gesù: è il contrasto di luce e di tenebre, di tenerezza e di indurimento, di donazione e di egoismo, di amicizia divina e di diabolico tradimento. Il Santo Vangelo racconta che il Divino Maestro, dopo aver moltiplicato i pani, promise la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda. E ai Giudei che, scandalizzati, mormoravano, disse in modo perentorio: « In verità, in verità vi dico: se non mangerete la carne del Figlio dell'Uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perchè la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui». Nella Santa Comunione Gesù entra realmente e sostanzialmente nel nostro cuore e compenetra la nostra sostanza in modo tale, che ciascuno può dire con S. Paolo: « Non sono più io che vivo, nia è Cristo che vive in me». Lo stesso Apostolo dice pure: « Siccome v'è un unico pane, noi, pure essendo molti, formiamo un solo corpo, comunicandoci col medesimo pane». E Sant'Agostino dichiara che l'Eucaristia è il sacramento della pietà, il sigillo dell'unità, il vincolo della carità. Avviene così un mistico sposalizio di due amori, di due vite. Tutto qui è santo: è la Santità stessa che si dona, ed è per mezzo della santità che l'anima si prepara a così grande atto. Donandoci, noi doniamo nulla; donandosi, Gesù ci dona tutto: i suoi meriti, le sue virtù, per il tempo presente e come pegno della vita futura. « beati coloro che sono stati invitati al banchetto nuziale dell'Agnello». Essi mangiano un Pane celeste, che ha in sè ogni dolcezza e soavità. San Tommaso così canta l'Eucaristia: « O Sacro Convito, nel quale si riceve il Cristo; si rinnova la memoria della sua Passione: l'anima è ripiena di grazia, e ci vien dato il pegno della gloria futura».
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Divinissimo è dunque questo dono, il quale richiede da noi amore e riconoscenza: per mezzo di questi due atti, noi raccogliamo il frutto della presenza reale di Gesù Cristo nell'anima nostra. La gratitudine a chi ci ama e fa del bene è un sacro dovere. « Solamente chi è grato a tutti i benefici, anche ai minimi, è buono. La gratitudine è l'anima della religione, dell'amore filiale, dell'amore a quelli che ci amano, dell'amore alla società, dalla quale ci vengono tanta protezione e tante dolcezze. Coltivando gratitudine per tutto ciò che di buono riceviamo da Dio e dagli uomini, acquistiamo maggior forza e pace per sollevare i mali della vita, e maggior disposizione all'indulgenza e all'adoperarci in aiuto dei nostri simili»
(PELLICO). Lo stesso Divino Maestro sentì il bisogno di riprovare la dimenticanza dei favori ricevuti, dopo aver guarito i dieci lebbrosi. Allorquando uno di loro, un samaritano, ritornò indietro a ringraziarlo, uscì in queste parole: « Non sono stati guariti tutt'e dieci? E gli altri nove dove sono? Non s'è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, se non questo straniero?» Ah! l'ingratitudine strappa gemiti alle anime delicate, pietose, e spreme dagli occhi le lacrime più amare, poichè « fra gli oltraggi quei sono i peggiori, che ci fanno color ch'abbiamo amati». La dimenticanza dei benefici è una delle più ignobili depravazioni dell'anima umana, e il Pellico dice che « tutte le astuzie per giustificare l'ingratitudine sono vane; l'ingrato è un vile». Perciò, dopo la Comunione, procuriamo di rimanere, per qualche istante, in una santa immobilità ed in un assoluto silenzio di fede, d'ammirazione, d'amore. Chiediamo quindi grazie per noi, i nostri cari, i benefattori, e per l'estensione del Regno di Gesù Cristo. Infine, esprimiamo vivamente la nostra riconoscenza con un cantico spirituale, cui dovranno partecipare tutte le potenze dell'anima nostra. Chiamiamo in aiuto tutte le creature per benedire il Creatore, che si è degnato d'unirsi così intimamente a noi. Uniamoci agli Angeli, ai Santi, alla Madonna, che ha portato nel suo seno Colui che noi stessi portiamo nel nostro cuore, e cantiamo con Lei, nell'intimo dell'anima, un bel Magnificat di riconoscenza. Ma affinchè il nostro ringraziamento sia completo, prolunghiamolo in tutto il giorno con frequenti giaculatorie, comunioni spirituali e adempiendo il nostro dovere per Gesù Eucaristico, il Divin Prigioniero d'Amore.
FIORETTO. Ringraziamo il Divino Maestro del grande dono dell'Eucaristia, e facciamo sovente la Comunione, ma sempre con le dovute disposizioni.
GIACULATORIA. Gesù e Maria, vi dono il cuore e l'anima mia.
ESEMPIO
POTENZA DI UN'AVE MARIA. Nel cuore di una notte, un giovane Missionario, con un suo confratello e due portatori, andò a smarrirsi nel folto labirinto d'una foresta nelle solitudini dell'Uganda, dove non si udiva che il lontano rumore del Nilo e, a tratti, un muggito di mandrie di bufali. Che fare? Tirare avanti, giacchè il banditore del Vangelo ignora lo sgomento, l'esitazione e lo sconforto, avendo Cristo a sua guida sicura e la Vergine Santissima a sua lucente stella. Non per questo aspetta l'aiuto del Cielo con le mani in mano e con il capo in aria, ma tutte stimola le proprie energie, tutta esercita la propria capacità, ben sapendo che il miracolo, Dio lo completa se l'uomo lo incomincia.. Quella volta egli si afferrò al tronco scabro e snello d'uno dei mille giganti che popolavano quella foresta e su, rapido come scoiattolo, a perlustrare l'oscurità piena di agguati. Stelle in alto e tenebre in basso, rotte solo in un punto da un bagliore di fiamma, unico segno di vita: forse un falò acceso per sventare l'assalto di qualche belva. Sceso dall'albero, subito verso quel fuoco l'uomo di Dio orientò cauto e frettoloso i suoi passi, seguito dal confratello, dai portatori e, manco a dirlo, da quello che era il suo pensiero costante rivolto alla Vergine benedetta: pensiero fatto di calda invocazione, d'illimitata fiducia, di perfetta uniformità alla suprema volontà di Colui, che sa volgere in bene ogni umano evento e trarre vantaggio dal male stesso, nell'attuazione immancabile dei suoi disegni. Avvicinandosi a quel punto rosso, l'intrepido Missionario udiva di quando in quando un suono gutturale di voci cadenzate, borbottanti una nenia sonnolenta, solo variata da qualche acuto grido stridulo, quale richiamo d'allarme. Là sorgeva indubbiamente una di quelle abitazioni di tribù selvagge, che per l'uomo bianco presenta sempre una pericolosa incognita, un oscuro dilemma. La tonda sagoma d'una capanna non tardò a profilarsi tra un volo di lucciole, sfuggite alla trincea di
focherelli, che sorgeva a difesa di quella. Si fa il segno di croce ed entra, l'intrepido Missionario, nella fumosa stamberga, dove accoccolati intorno al fuoco stanno alcuni ceffi, che solo si distinguono per il rosso porpora delle grandi bocche e per il balenio delle pupille contrastante col bagliore delle cornee. Dura un attimo per il malcapitato quella apparizione e subito dilegua in una nube densa di fumo, che lo soffoca in gola, gli oscura completamente la vista, lo morde in tutta la persona, tanto che istintivamente emette un grido. Nessuno risponde. È in quel silenzio un presagio di morte. Quand'ecco sbucare, come di sotterra, un nero membruto, il quale, bilanciando in mano una poderosa lancia, si pianta davanti a chi non indietreggia d'un passo e non distoglie l'occhio da un punto di cielo lontano. Mirabile contegno del banditore del Vangelo e conquistatore di anime, che tutto se stesso ha votato alla causa di Cristo e alla diffusione del suo Regno d'amore e di pace, capace quindi di affrontare, con animo intrepido, ogni insidia, ogni affronto, ogni pericolo ed anche la morte, che per esso è sinonimo di vita. E nell'attesa della morte imminente, il giovane apostolo si trovò spontanea sulle labbra l'invocazione, che più d'ogni altra gli era consueta, l'Ave
Maria. Caso inconsueto fu che, anzichè pronunciarla in latino o in italiano, la proferì nel barbaro linguaggio degli
Acyoli, in mezzo ai quali era capitato. Al suono delle parole, scandite nette e chiare nel silenzio gravido di tempesta; ecco un secondo nero si fa innanzi a togliere la lancia di mano al primo, e, con un volo da feroce fatto umano, accenna all'orante di attendere. Dopo un'attesa di circa dieci minuti, interminabili come un'agonia, entrò il capotribù con atteggiamento ben diverso dal primo. Con cenni gli fece comprendere ch'era libero, e provvide anzi affinchè coi suoi compagni di viaggio potesse ricuperare la via smarrita nel folto della foresta. Potenza di un'Ave
Maria! E se tanto può sul cuore dei selvaggi, che cosa non potrà sul cuore della Madonna?... Non sarà anche per noi difesa e conforto nei duri frangenti della vita? Sì! Facciamone dunque esperienza.
(Tratto dal libretto "LE INTENZIONI E I FRUTTI DEL SANTO ROSARIO" - Sac. A.Monticone - 1952)